L'arco Nelle Nubi

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Avevano lasciato l'accampamento da oltre un'ora, quando scorsero un'ombra scura, a cavallo, che s'avvicinava cautamente agli uomini che procedevano in ordine sparso. La macchia nera si fermò e fece un gesto con le braccia. Era uno zaptié avvolto in un burnus.. Andò da Viglieri e gli riferì che dal grosso del gruppo già segnalato s'era staccata una formazione di cavalieri, armati di fucili lunghi e sciabole, che s'avviava abbastanza celermente verso il luogo dov'era la colonna italiana. Gli altri sembravano tornare indietro, ma da quello che aveva potuto sapere, stavano preparando un'incursione contro gli Italiani, per sorprenderli ancora addormentati alle prime luci dell'alba, quando le sentinelle, sicure che nulla più sarebbe accaduto, tendevano ad allentare l'attenzione.. Si sarebbero gettati d'impeto, al galoppo, provenendo da ovest per sfruttare l'ultima oscurità, e avrebbero attraversato l'accampamento, sparando, senza dar tempo agli Italiani di comprendere cosa stesse accadendo e di reagire. Poche scariche di fucileria e via di nuovo.

Non c'era tempo da perdere. Un sottufficiale e uno zaptié furono inviati, di corsa, ad avvertire il Comando della colonna e il Maresciallo Devoto. Il drappello si divise in tre squadre. Una avrebbe preso posizione tra l'accampamento e i Libici; un'altra si sarebbe schierata tra gli uomini a cavallo che stavano giungendo e il grosso del gruppo che fingeva di allontanarsi; la terza, con Viglieri, a cavallo, si sarebbe posta tra le due precedenti, ai piedi di una bassa duna.

La prima squadra, comandata dal Brigadiere Platania, fece sdraiare i cavalli e si nascose dietro le asperità del terreno e cumuli di sabbia. Quando i Libici fossero giunti alla giusta distanza, a un segnale convenuto avrebbero aperto il fuoco, con tiri in rapida successione, mirando a uomini e a cavalli.

La seconda squadra, a cavallo, si nascose dietro delle alte dune, attendendo i Libici che avrebbero cercato di disimpegnarsi dal fuoco di Platania, e correre verso il 'grosso' per avvertirlo. Il compito di questi uomini era di contrastare il ripiegamento dei Libici, e inseguirli.

Nel frattempo, la prima squadra, rimontata a cavallo, avrebbe cooperato all'inseguimento, tentando di avvolgere chi fuggiva e mandarlo verso Viglieri.

Le cose si svolsero quasi com'era stato previsto.

I Libici non si aspettavano che degli Italiani si sarebbero avventurati a tanta distanza dall'accampamento. Furono sorpresi dal fuoco improvviso, nutrito e preciso, dei moschetti di Platania. Una fitta pioggia di proiettili.

Tentarono un rapido dietro-front, già con qualche perdita, ma furono investiti da scariche ancor più micidiali. Sembravano gli uccelli che tentano di sfuggire al falco: si raccolgono si disperdono e tornano a unirsi, fuggendo impazziti, terrorizzati nello scorgere un altro predatore che piomba su di loro.

In quel momento le Urì, il Paradiso all'ombra delle spade, non erano nei loro pensieri. Cercavano scampo, sotto il tiro micidiale dei moschetti, cercavano di sfuggire ai cavalli che sopravvenivano da tutte le parti, agli zaptié che sparavano da sotto il ventre dei cavalli, come loro ma con armi più moderne e molto più precise.

Cercavano di aprirsi la fuga a sciabolate, non avendo il tempo per caricare i vecchi fucili, che avevano acquistato a caro prezzo da chi li strumentalizzava per i propri interessi.

Carabinieri e zaptié avevano messo a tracollo i moschetti e sparavano con le pistole, a distanza ravvicinata, anticipando i fendenti dei Libici.

Pochi rimasti riuscirono ad allontanarsi. Viglieri stentò a trattenere gli zaptié che volevano inseguirli e sterminarli.

Nonostante la violenza, e lo scontro che poteva anche essere sembrato caotico, c'erano tutti. Un proiettile di striscio a un Carabiniere, un paio di sciabolate, superficiali, tra gli zaptié, e una sciabolata al braccio sinistro di Viglieri. 'Poco più di un graffio', diceva lui.

I pacchetti di medicazione furono sufficienti per le prime cure, e tutti riuscivano a stare in sella. Molti cavalli erano feriti. Viglieri ordinò di abbatterli. Si sentirono molti spari, troppi. Viglieri s'accorse, con raccapriccio, che gli zaptié non gli consentivano di interrogare i Libici feriti: non facevamo prigionieri, ed erano intenti a raccogliere le 'testimonianze' della loro vittoria.

S'avviarono verso l'accampamento, guardandosi intorno per evitare sorprese.

Era l'alba quando vi giunsero . Tutti erano in stato di massimo allarme, per gli spari sentiti, per le notizie ricevute, per i commilitoni in perlustrazione.

Rientrarono quasi in formazione di parata.

Viglieri con la mano sinistra nella giubba, a sostenere il braccio ferito, senza scendere da cavallo, salutò il Colonnello e gli presentò la forza: "Tutti presenti, Signor Colonnello."

Giordano gli tese la mano. "Bentornato, Viglieri. Pensi a farsi medicare e a far medicare i suoi uomini. Quando se la sentirà, mi faccia avvertire che verrò a farmi dire quanti sono, dove li avete incontrati, quando dobbiamo aspettarli e da quale direzione é presumibile che arrivino. Ora vada a curarsi."

Le medicazioni non richiesero molto tempo. I feriti avevano molta sete, specie per la perdita di sangue, ed era tutto un porgere loro gavettini con caffè, o acqua e anice, da chi li circondava per congratularsi, per sapere, per stringere la mano. Gli Ufficiali lasciavano fare, senza perdere d'occhio le sentinelle che scrutavano l'orizzonte.

Amedeo Devoto, veduto il Tenente con la manica insanguinata, gli corse incontro, avrebbe voluto aiutarlo a scendere dal cavallo, ma comprese che non doveva farlo e restò muto, a guardare Vittorio, con in volto un'espressione non diversa da quella della 'Pietà'. Poi l'accompagnò in infermeria, fu presente alla medicazione e tirò un profondo sospiro di sollievo quando costatò che la ferita non era profonda e aveva leso solo la parte carnosa dell'avambraccio. Terminata la sutura, fasciato il braccio, sistemata una scolla per poggiarvelo, Viglieri s'alzò. Amedeo gli aveva fatto portare una camicia e una giubba pulite, gliele fece indossare infilando solo il braccio destro, poi lo guardò ancora:

"Permette, Signor Tenente."

E lo strinse al petto.

'Come un padre.' Commentarono i presenti.

Viglieri andò di persona nella tenda del Colonnello, dove trovò gli Ufficiali superiori. Il suo rapporto fu rapido e preciso. Tralasciò volutamente di dire che il suo vero scopo era quello di intercettare eventuali formazioni ostili, e giustificò la consistenza del drappello col desiderio di essere pronto a far fronte a ogni possibile sorpresa. Non disse neppure che aveva deciso lui di attaccare e di come avesse disposto gli uomini. Esaltò il comportamento di tutti: sprezzanti del pericolo, incuranti del soverchiante numero dei Libici, freddi come veterani, entusiasti come novellini. Purtroppo non gli era stato possibile fare prigionieri, perché vi erano stati solo caduti, nessun superstite, nessun ferito. Subito dopo lo scontro armato, erano rientrati in tutta fretta all'accampamento, anche per la presenza di qualche ferito, e non avevano potuto procedere alla sepoltura delle salme. Non appena compilato, avrebbe consegnato il rapporto scritto al Maggiore Meccia.

Giorgiutt non riuscì a trattenere un 'bravo Carabiniere' né ad astenersi dal dare una pacca sulla spalla sana dell'ufficiale.

Giordano s'alzò, s'avvicinò a Viglieri e l'abbracciò.

"Tenente Viglieri, ho capito ciò che avete fatto, anche quello che non mi ha detto. Mi rendo conto che ci avete evitato un attacco a sorpresa, le cui conseguenze non sapremo mai quali potevano essere, ed avete dimostrato cosa i ribelli devono attendersi da noi. Ho capito. Vi ammiro e un po' vi invidio per non essermi trovato al vostro posto e per non averne avuto l'occasione quando avevo la vostra età. Sono certo di interpretare il pensiero di tutti tributandole, avendone l'autorità, un encomio sul campo. Questo per ora. E lo stesso compiacimento esprimerò ai suoi uomini quando vorrà adunarli. Anche Devoto merita una particolare menzione per come ha seguito la vostra missione, e sono certo che mentalmente mi avrà mandato a quel paese quando gli ho personalmente ordinato di non muoversi, di non venirvi incontro con altri uomini, se non voleva essere deferito al Tribunale Militare. Ora vada a riposare, cercherò di farla rientrare a Tripoli non appena possibile."

"Se permette" -disse Viglieri- "Signor Colonnello, questo avverrà solo al termine dell'operazione in corso e quando il Comando dell'Arma me lo ordinerà."

'Xe mato', concluse Giorgiutt. E il gruppo si sciolse.

* * *

"Uscito in perlustrazione con un reparto di Carabinieri e zaptié, in zona isolata e impervia, era attaccato da soverchianti e bene armate forze nemiche. Con chiara visione tattica, si disponeva dapprima a difesa e quindi contrattaccava, sconfiggendo, inseguendo e disperdendo le formazioni ribelli, sventando, in tal modo una pericolosa sorpresa che poteva causare gravi ed essenziali perdite alla colonna che scortava. Incurante del pericolo, benché ferito, riconduceva all'accampamento tutti gli uomini, lasciando sul campo ingenti perdite inflitte al nemico. Fulgido esempio d'eroismo, di particolari doti militari, d'attaccamento al dovere.

Libia, maggio 1912"

"Questa" -disse il Generale Giraldi- "é la bella motivazione della medaglia d'argento al Valor Militare conferita al Tenente dei Reali Carabinieri Vittorio Viglieri, che la nostra Legione si onora di annoverare tra i suoi Ufficiali.

Tenente Viglieri, prima di appuntarle la medaglia sul petto, infrangendo la forma ma non la solennità del momento, desidero esprimerle il mio personale compiacimento e anche un particolare augurio per le sue prossime nozze con una graziosa signorina nata e cresciuta nell'Arma, confermando il desiderio di accrescere la nostra bella e grande famiglia 'nei secoli fedele'."

Il palco, eretto nel vasto cortile della caserma, era affollato da rappresentanti delle forze armate, autorità civili, borghesi, molte signore, e, in prima fila, le famiglie Viglieri e Devoto al completo. Solo Amedeo faceva parte dello schieramento.

L'Ufficiale che aveva letto la motivazione prese un altro foglio e lesse:

"Maresciallo Maggiore dei Carabinieri Reali Devoto Amedeo, promozione per Merito di Guerra ad Aiutante di Battaglia..."

Il resto non fu compreso da Concetta che guardava Amedeo con gli occhi pieni di lacrime e lo vedeva, quindi, come avvolto in un alone, circondato da una leggera nebbiolina.

Amedeo la fissava, coi lineamenti tesi, mandando giù la saliva a rimuovere il groppo che gli serrava la gola. Si avvicinò al Generale che gli appuntò i nuovi gradi, salutò, tornò al proprio posto.

Il Comandante dello schieramento ordinò il presentat-arm e andò di corsa dinanzi al palco, abbassò la sciabola in segno di saluto.

La banda suonava l'inno mentre gli uomini inquadrati sfilavano dinanzi al palco. Il Generale salutava con un sorriso di compiacimento.

Poi la gente cominciò a sfollare lentamente

VIII

Aldo Viotti frequentava il terzo anno di Giurisprudenza. In regola con gli esami e media lusinghiera. Del resto, doveva cercare di non perdere tempo. I mezzi familiari erano modesti e lui, figlio unico di madre vedova, assorbiva quasi tutto il reddito che dava la terra.

La madre viveva con le proprie sorelle nubili e tirava avanti senza troppe rinunce, grazie all'accorta ed esperta amministrazione del fattore che curava i campi della famiglia, e provvedeva a tutte le necessità di quelle brave donne. Non disdegnava, il robusto factotum, le attenzioni che la vedova Viotti e le sorelle Trino gli rivolgevano, e le ricambiava gagliardamente. 'Un bel tocco di marcantonio', dicevano, e se lo ripartivano di comune accordo, senza gelosia. Una vera fortuna da quando erano rimaste senza l'ombra d'un uomo, dopo che il povero Giuseppe era venuto a mancare improvvisamente, forse anche a cagione di quelle tre donne tutta casa e chiesa, ma soprattutto letto.

Riempiti i vuoti dolorosi lasciati da Giuseppe, e anche gli stomaci, quello che restava delle non vistose rendite era mandato ad Aldo. Mamma e zie, si sacrificavano a restare sole, certo, ma tenerlo a Torino significava anche non mettere a disagio il fattore, e soprattutto loro.

La zia Cesira, comunque, era dispiaciuta per la lontananza del nipote, quel bel ragazzone, sempre un po' grassottello, come quand'era bambino, e che lei aiutava ancora a fare il bagno. Come quand'era bambino.

* * *

La ragazza che usciva dalle magistrali somigliava alla zia Cesira. Fianchi formosi ma non grossi, petto pienotto. Non male, in complesso, anzi! Il volto, forse, non sarebbe stato scelto a modello da qualche pittore, ma il corpo si, dai fiamminghi. Era molto giovane. Bisognava saperne di più.

Aldo attese che lei salutasse le amiche e si avviasse verso casa. Le si avvicinò con la solita scusa: "Ma lei non é di Vercelli?"

Elena si fermò, e prima di decidere se rispondere o no lo squadrò bene, da capo a fondo. Un po' pesante nella persona, ma in complesso un bel ragazzo, vestito con cura e con un paio di baffetti che tremavano sul labbro carnoso, in un volto che lei classificò 'paffutello e colorito'. Lo fissò, con leggero sorriso sulla bocca, e con fare provocatorio gli rispose: "No, sono di Torino."

"Scusi" -riprese Aldo- "ma non fa il primo anno di lettere?" E sapeva bene che frequentava le magistrali.

"Guardi" -rispose Elena- "che alla mia età non si va all'università. E io faccio le scuole magistrali."

Comunque, il ghiaccio era rotto, e lui ne profittò per chiedere scusa dell'equivoco e per presentarsi.

"Mi perdoni, signorina, ma lei somiglia tanto ad una di Vercelli. Perché io sono di Vercelli. Studio a Torino, terzo anno di Giurisprudenza, mi chiamo Aldo Viotti."

"Io sono Elena Devoto, ma adesso mi scusi perché devo correre a casa."

E lo lasciò in asso, certa che avrebbe rivisto 'Paco', come lo aveva battezzato. 'Paco', paffutello e colorito.

L'indomani, all'uscita dalla scuola, Aldo era sul marciapiede di fronte, mostrando di leggere attentamente un libro e cercando di apparire disinvolto.

Elena apparve sulla porta, allegra, con le compagne che le davano di gomito sussurrandole che 'Paco' era lì, la stava aspettando facendo finta di leggere,.

* * *

Vedersi da soli non era facile, specie con una famiglia che non concedeva molti spazi, e per giunta una famiglia di Carabinieri. Comunque, complice qualche amica, con la quale -asseriva Elena alla madre- avrebbe studiato meglio le materie più difficili, riuscivano ad avere qualche momento di platonica intimità. Aldo finì col collegare sempre meno Elena a zia Cesira, ed Elena si sentì sempre più come Gioia, come Jolanda che stava per fidanzarsi ufficialmente con un giovane medico dell'ospedale dove lei faceva tirocinio.

Aldo trovò in Elena, pur così acerba nell'età, lo sprone decisivo per la sua vita. Doveva terminare l'Università entro il più breve tempo possibile, perché non essendo 'sistemato' non poteva certo presentarsi in casa Devoto. Sentiva che la sua famiglia l'avrebbe costruita con Elena. Stava quasi liberandosi del tutto dalla zia Cesira.

Conseguita la laurea, organizzò una festicciola con pochi amici, ed Elena riuscì a trovare la scusa per parteciparvi. Assicurò che si trattava del cugino d'una sua compagna di scuola, e che da quando erano finite le scuole, e lei s'era diplomata, non era mai stata ad una riunione con le amiche. La festa era stata effettivamente preparata a casa d'una sua compagna di classe.

Amedeo, interpellata la moglie, le accordò il permesso.

'Paco' era molto serio. Felice d'essersi brillantemente laureato, ma molto pensieroso. L'indomani sarebbe andato a casa dalle 'sue donne'.

Prese da parte Elena e le disse che intendeva arruolarsi nell'esercito, come ufficiale di complemento, rinunciando all'esonero che avrebbe potuto avere come figlio unico di madre vedova. Alla fine della 'prima nomina', avrebbe cercato di restare in servizio, o di passare, possibilmente, nell'Amministrazione dello Stato. Avrebbe percepito un decoroso stipendio e si sarebbe potuto presentare a casa Devoto e, se accettato, divenire il 'fidanzato ufficiale'.

Elena lo guardava con un risolino sulle labbra, ma era commossa, turbata. Paco voleva essere il suo uomo, suo marito. Sentì che il suo cuore batteva forte, il ventre sussultava.

* * *

Non fu necessario 'chiedere' di restare in servizio.

L'orizzonte Europa-Medio Oriente-Nord Africa non era limpido. La situazione internazionale era definita 'critica'. La Serbia, spalleggiata dalla Russia, pretendeva uno sbocco sull'Adriatico, cui si opponeva l'Italia che, di contro, tendeva ad annettersi l'Albania.

L'Austria-Ungheria negava ogni ingrandimento territoriale dell'Italia e della Serbia, e appoggiava la Bulgaria.

Con la pace di Bucarest (agosto 1913) la Bulgaria, però, perdeva la Macedonia e la Dobrugia; Creta andava alla Grecia; l'Albania diveniva Principato autonomo sotto il Principe Wilhelm Von Wield (che successivamente, in contrasto con Esad Pascià, doveva rifugiarsi in Italia). Delusione generale. I Bosniaci cercavano di organizzare moti, specie attraverso 'Unità o Morte' cui apparteneva lo studente Princip che il 28 giugno 1914, a Sarajevo, uccideva l'erede al trono d'Austria, Francesco Ferdinando, e la moglie.

Un mese dopo, l'Austria-Ungheria dichiarava guerra alla Serbia.

Le dichiarazioni di guerra si susseguirono: la Germania alla Russia e alla Francia; l'Inghilterra e la Serbia alla Germania; l'Austria-Ungheria alla Russia; la Francia all'Austria-Ungheria; l'Inghilterra all'Austria-Ungheria; il Giappone alla Germania; Russia, Inghilterra e Francia alla Turchia.

L'Italia 'attendeva in armi'. Mobilitò alcune classi e rinviò il congedo di altre. Il 3 maggio 1915 si staccò dalla Triplice Alleanza e il 24 dello stesso mese dichiarò guerra all'Austria-Ungheria.

Il Generale Cadorna attaccò subito, frontalmente, con inferiorità di mezzi e di preparazione, e l'inverno gli venne in aiuto ostacolando le operazioni di entrambe le parti.

Aldo poté avere una breve licenza, che trascorse più a Torino che a Vercelli. La 'piccola Elena', come lui la chiamava, era più donna dei suoi anni. Pur comportandosi da innamorata fidanzata, nutriva per Paco un sentimento inconsciamente materno, protettivo. Aveva sognato di allattarlo, e s'era svegliata in preda allo smanioso desiderio di averlo, subito, non solo per se stessa quanto per renderlo felice.

Aldo avrebbe voluto legarla a lui per sempre, perpetuarsi in lei prima di lasciarla di nuovo e tornare al fronte. Elena non desiderava altro, e lo avrebbe pure fatto, ma se poi lui non tornava? Meglio, quindi, restare nei limiti, anche se erano difficili da rispettare.

E Aldo riprese la tradotta per il fronte.

* * *

Don Tarcisio giungeva sempre senza avvertire, inerpicandosi lentamente lungo i sentieri pietrosi e sdrucciolevoli. Andava a piedi, non cavalcava il mulo, che era riuscito a farsi dare, affidato alle cure e alla guida, o meglio alle 'tirate', di Efisio Sanna che adesso cercava di farlo camminare al centro dello stretto sentiero, perché quella benedetta bestia andava a scegliersi sempre i passi più difficili e pericolosi, sul ciglio della mulattiera. Del resto, quella strada prendeva il nome dalla sua razza e, quindi, era il mulo il più qualificato a scegliere dove e come percorrerla.

Don Tarcisio ed Efisio avevano la stessa abitudine: parlare a Norma. Si, perché il mulo, in effetti, era una mula, giovane e forte, paziente, che non sobbalzava mai, né alla vista di una serpe né al fragore d'una esplosione. Restava tranquilla quando le mettevano il basto, quando la caricavano con capienti bisacce, quando vi saliva Don Tarcisio o, molto di rado, Efisio. Mangiava piano, sollevando di quando in quando il muso e guardandosi intorno; beveva lentamente, a lunghi sorsi, si riposava, appena poteva, sollevando uno zoccolo e poggiandone la punta sul terreno; qualche volta brucava un po' d'erba, spinosa o meno, se riusciva a trovarla tra le pietre che dominavano tutt'intorno.

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