L'arco Nelle Nubi

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"Benedicimi."

L'altro alzò la mano e lo benedisse.

Tarcisio si alzò, abbracciò il suo Vescovo e uscì senza voltarsi.

* * *

Anche oggi, nella fredda pioggia di quella strana Pasqua, quella corona cingeva il collo del Cappellano, nel ricordo degli ultimi baci deposti da tanti morenti.

Il crinale non era tanto lontano. Lungo la cresta correvano le trincee. Poco più in basso, in una specie di sella, la casupola diruta del Comando. Dall'altra parte, il nemico.

Nemico, pensava don Tarcisio, perché? E così, ragionando tra sé e sé, aveva rallentato il passo ed era rimasto indietro, preceduto da Norma ed Efisio.

D'improvviso, il silenzio quasi irreale, appena graffiato dal lieve fruscio della pioggia, fu squarciato da uno schianto. Tutt'intorno uno spruzzare violento di sassi, di terra, di schegge. Un colpo isolato, di mortaio, sparato chissà da chi e perché.

Don Tarcisio sbarrò gli occhi, stupito, sorpreso, poi, lentamente, s'afflosciò al suolo.

Norma s'era fermata.

Efisio s'era gettato a terra, istintivamente, e vedendo giù anche Don Tarcisio credette che il Cappellano avesse fatto come lui. Alzò il capo e gridò: "Don Tarcisio, tutto bene va?"

Nessuna risposta.

S'alzò spaventato e corse verso quel corpo che respirava a fatica, verso quegli occhi che lo guardavano sereni, quasi che il dolore fisico non esistesse. Il sangue andava tingendo la coperta grigia nella quale il prete era avvolto.

Efisio chiamò Norma. L'animale girò a stento sullo stretto viottolo e si avvicinò a lui. A fatica issò sul basto quel povero corpo dolorante, e riprese a salire verso il Comando. Teneva la mano di Don Tarcisio, la carezzava, e diceva: "Non é nulla, non é nulla, solo un graffio é."

Il colpo aveva allarmato gli uomini raccolti intorno al Comando. Un colpo solo, isolato, senza capirne il fine. Molti guardavano verso il basso, cercando di distinguere qualcosa nella nebbiolina, ma non si vedeva nulla fino alla curva del viottolo. Siro e Stefano, cercando di comprendere dove fosse caduta la granata, salirono sul piccolo dosso, dietro la casupola, e videro la mula, con Tarcisio di traverso, ed Efisio che parlava e parlava. Ma non sentivano nulla.

"Don Tarcisio" -diceva Efisio, cercando di scherzare e così sperando di distrarre il sacerdote- "mi scusi la confidenza, ma se a Trieste vado a dire che il mio Cappellano ha cavalcato una mula, capiscono tutt'altra cosa."

E cercava di sorridere, di dar coraggio per farsi coraggio, mentre il capo di Don Tarcisio oscillava, a ogni passo di Norma, quasi volesse assentire.

Siro s'era precipitato nel Comando, gridava che ci voleva il medico, l'infermiere, bisognava liberare la branda del Comandante, Don Tarcisio era ferito, non ci si doveva assiepare dinanzi alla porta.....

Stefano s'era affiancato a Norma e scrutava il volto del prete. Don Tarcisio certamente lo riconobbe, perché ebbe un bagliore felice negli occhi.

Dinanzi alla casupola, il ferito fu tirato giù dall'animale con infinita delicatezza, fu portato dentro e deposto sulla branda del Comandante. Per fortuna il Tenente medico stava per giungere. Intanto l'infermiere apriva piano la coperta, con attenzione, e aveva cominciato a tagliare i pantaloni intrisi di sangue quando entrò il medico. Guardò Don Tarcisio, gli tastò il polso, in silenzio, fece un cenno di 'no' all'infermiere e rimise la coperta come stava prima.

Don Tarcisio non parlava ma, perfettamente cosciente, seguiva tutto con molta attenzione.

"Ora" -disse il medico- "caro Cappellano, devi riposare. Ti faccio un'iniezione, così ti sentirai meglio, e poi ti visiterò con calma."

Lo sguardo di Tarcisio si rabbuiò, il prete aggrottò la fronte e fece più volte, con la testa, deboli cenni di diniego, muoveva le labbra come se volesse dire qualcosa. Il Tenente gli si avvicinò con l'orecchio e lo sentì mormorare: "Stefano... Stefano..."

"Chi si chiama Stefano?"

Stefano fece un passo avanti, si avvicinò al ferito, gli prese la mano,. Tarcisio gli dava delle deboli strette e cercava, con l'altra mano, di entrare nella giubba, nella camicia. Stefano sbottonò la giubba e la camicia e vide la vecchia corona col Crocefisso arrossato di sangue. Don Tarcisio cercò di sorridere. Stefano guardò interrogativamente il medico che gli rispose con un lieve e sconsolato scuotere del capo. Allora, sottovoce, con un tono che non consentiva domande, chiese a tutti di uscire, di abbassare la tenda.

Efisio fu l'ultimo a lasciare quel vano. Mise in un angolo la bisaccia coi sacri paramenti che Tarcisio portava sempre con sé, uscì lasciando cadere il telo che faceva da tenda divisoria.

Stefano avvicinò alle labbra del prete il Crocefisso della corona.

Gli occhi del ferito ebbero una luce di gioia, e si volsero in alto, con tanta serenità e pace nello sguardo.

Stefano aveva posto la sua destra sul capo del Cappellano e salmodiava.

"Signore, mio Dio, ci farai del male, tanto da far morire Tarcisio? Signore, abbi pietà di noi."

Rimase in silenzio, con la profonda tristezza del suo cuore dipinta nel volto. Poi riprese: "Mio Dio, mio Dio, non abbandonarlo!"

Scuoteva lentamente, stancamente, la testa, nella sua disperazione umana in lotta con la fede, senza riuscire a concludere. Poi respirò profondamente "Sia fatta la tua volontà."

L'occhio di Tarcisio andava lentamente spegnendosi, ma cercava di dire ancora qualcosa a Stefano. Il giovane, pallido, levò lentamente la mano destra e, tracciando un ampio segno di croce, con la voce rotta dai singhiozzi, quasi urlò: "Ego te absolvo..."

Tarcisio rimase immobile, col sorriso sulle labbra, lo sguardo vitreo.

Nell'altro vano, stavano tutti in silenzio, trattenendo il respiro per non turbare quanto andava accadendo al di là del telo. Erano in attesa d'una sentenza, temuta ma non inaspettata, inappellabile.

La pioggia era cessata.

Il tempo trascorreva, ma nessuno osava disturbare, origliare, andare a vedere come stava Don Tarcisio. Molti si chiedevano il perché era voluto restare solo con Stefano. Siro si sentiva escluso, eppure aveva creduto di essere lui il miglior amico del Cappellano.

Stefano scostò appena la tenda e sussurrò che non c'era nulla da dire. Fece cenno a Efisio di avvicinarsi. Gli disse si accendere i lumini sull'altare improvvisato, di prepararsi alla celebrazione, di dirlo agli altri. Tutti, ma tutti, dovevano andare sullo spiazzo. E sparì di nuovo dietro la tenda.

Si guardarono l'un l'altro, sorpresi. Possibile che Don Tarcisio fosse in grado di dire Messa? Forse era meglio sconsigliarlo. Sarebbe stata un'imprudenza.

L'infermiere si avvicinò al medico:

"Signor Tenente...."

"Andiamo fuori anche noi."

Rispose il medico, e uscì, cupo e meditabondo.

S'udì il rumore sordo d'un ferro che si agitava in un bossolo vuoto, a mo' di campanella.

Sull'uscio apparve una figura, cerea, avvolta nei sacri paramenti spiegazzati. Si avviò all'altare, s'inginocchiò e si genufletté.

S'udì la voce di Stefano scandire solennemente: "Introìbo..."

* * *

Fu deciso che Don Tarcisio dovesse essere sepolto nel cimitero del paese, a valle, non in una delle tante fosse, scavate nel fianco della montagna, dove si deponevano quei poveri corpi, dopo aver tolto loro il 'piastrino' da dare al Comando, e le poche cose che avevano, sperando, spesso illudendosi, che sarebbero giunte alle famiglie.

Efisio e altri sette uomini, e Norma, ebbero l'incarico di trasportare al cimitero i resti del Cappellano, su una barella di fortuna, al comando del Sottotenente Aldo Viotti.

* * *

Adempiuto il pietoso incarico, Viotti condusse la squadra al Comando Zona, ospitato in quella che una volta era stata la scuola elementare. perché riposasse. Dovevano essere pronti a risalire in postazione l'indomani, subito dopo il caffè. Lui andò a ritirare la posta per il distaccamento e s'avviò alla "Mensa Ufficiali", una squallida stanza, con vecchi tavoli e qualche panca. Sulla parete sbiadita della vecchia aula c'era un'antica scritta:

Non é ver che sia la morte

il peggior di tutti i mali.

E' il rimedio pei mortali

che son stanchi di soffrire.

Chissà perché era stata lasciata.

Di 'morte' non si doveva parlare mai, dicevano tra loro gli Ufficiali. Meglio parlare degli assenti, così se ne poteva dire male. Gli assenti, infatti, non possono reagire. La 'morte', invece, era sempre presente, era sempre con loro, in ogni istante, vincendo il torneo che gli uomini avevano organizzato in suo onore, e riscuotendone la posta in palio, falciando senza concedere privilegi.

Anzi no, privilegi c'erano, e come. La falce impietosa s'abbatteva solo nella desolazione dei campi di battaglia. Guai a chi c'era. Nessuno era lasciato solo. Lei era sempre là, dentro o fuori della trincea, con te, per coglierti in un istante di distrazione, di debolezza, di incertezza . Ma anche se eri continuamente in tensione, per non commettere errori, per non essere bersaglio, poteva capitarti il 'colpo maledetto', quello che entrava nella minuscola feritoia, la granata che s'infilava a perpendicolo nella trincea, o terminava la parabola centrando l'angusta entrata del 'fifhaus'.

Non si doveva neppure parlare dei morti. Ognuno ne ricordava qualcuno, ma in silenzio, forse per non apparire deboli, o solamente per una sorta di scaramanzia: l'essenziale é che noi siamo ancora vivi.

'Lei' era sempre là: mentre scrivevi a casa, mentre leggevi l'ultima lettera ricevuta. Parole che dicevano i propositi per l'avvenire, ognuno cercando di rassicurare l'altro. Lettere, attese e temute, che erano portatrici di dolcezza e tristezza, di felicità e rabbia, di amore e odio, di conforto e tormento, di certezze e dubbi.

Spesso un malfermo segno di croce suggellava la grossolana grafia dello scrivano. Segno di croce baciato e ribaciato, bagnato di lacrime, come una preziosa reliquia. Croce che ripeteva quella che ognuno aveva sulle proprie spalle, povero e stupito Cireneo, senza saperne il motivo.

Il Golgota era certo brullo e sassoso come quelle colline, e quando parlava il Cappellano sembrava vederle lì, le croci del Calvario. Non era chiaro, però, come il loro sacrificio potesse essere di qualche utilità.

Qualcuno, pian piano, andava spiegando, sottovoce e guardandosi intorno, che la guerra era fatta per gli interessi di chi l'aveva voluta, non certo per i poveri, ingenui dimostranti, sapientemente ubriacati dalla sottile propaganda: "chi per la Patria muor vissuto é assai..."

'Patria', parola che comprendeva le solfare di Sicilia, le miniere del Sulcis, le paludi Pontine, la bassa padana, la pellagra, l'analfabetismo, la malaria, la tubercolosi, le prime auto di lusso, le pellicce, le 'prime' teatrali con splendide donne profumate e ingioiellate, lo champagne, i morti per inedia.

La Patria é tutto questo e altro, dicevano, ma il 'bene' é sempre e solo per gli altri; il resto, il male, é quello che resta per noi. 'Siamo qui per arricchire i ricchi', si andava sussurrando. E le lettere divenivano fonte di rabbia.

La corrispondenza aveva sempre più lunghe cancellature. Pennellate nere che non lasciavano leggere quello che non si voleva far sapere al destinatario. Erano località o avvenimenti d'arme, sentimenti di ribellione. A volte erano solo infuocate e appassionate frasi d'amore: 'non posso più sopportare il vuoto della tua lontananza, diceva lei. Scrivano e censore ne prendevano nota, cancellavano la frase che poteva turbare lo sposo che viveva tra fango e proiettili, poi, se potevano, cercavano loro di riempire quel vuoto, contando sulla debolezza umana.

Mario, Hans, Salvatore, Fritz, rimanevano ore ed ore a leggere e rileggere la lettera. Poi la riponevano, accuratamente piegata, nel portafoglio gonfio di fotografie e santini, e tutto tornava nelle tasche ricavate all'interno della giubba.

Con quel reliquiario, sacro o profano, andavano all'assalto, cadevano fulminati. Appena il tempo di invocare 'mamma...', 'mutter...'.

Parte 2

IX

Il 1918, apertosi coi 'quattordici punti' di Wilson, si chiude con la cessazione delle ostilità internazionali.

Il 1919 vede la fondazione della III Internazionale a Mosca e dei Fasci di Combattimento a Milano.

Vittorio Viglieri comanda la Compagnia Interna di Torino. Gioia ha lasciato l'insegnamento per dedicarsi al figlio, Luigi Amedeo.

Amedeo Devoto sta per lasciare l'Arma. Ha trovato una bella casetta verso la collina, con un po' di terra da coltivare per passare il tempo, dove Giovanni, prossimo fisicomatematico, studierà le materie del Politecnico.

Concetta e Cristina si fanno ottima compagnia, in affettuosa competizione di attenzioni verso gli 'uomini di casa'.

Jolanda, moglie del primario chirurgo Felice Longhi, ha rinunciato al duro lavoro presso l'Ospedale Militare Mauriziano, e cura egregiamente quelle che oggi si chiamano le 'pubbliche relazioni' del marito che va sempre più affermandosi professionalmente nel non facile ambiente medico torinese.

Aldo Viotti, reduce di guerra, é impiegato presso la R. Intendenza di Finanza. Simpatizza per i fascisti, fa lunghe chiacchierate, sempre calme e pacate, coi cognati e col suocero che, invece, non vedono di buon occhio le camicie nere tra le quali sono infiltrati anche individui già stati in galera, e non per la politica. Questi fascisti, inoltre, dicono di volere la Repubblica, e si permettono di sostenerlo anche qui, in Piemonte.

Elena ha subìto una trasformazione prodigiosa, dopo il matrimonio. E' una donna incantevole ed elegante. Il suo volto é divenuto regolare, il suo corpo ha assunto proporzioni statuarie, conservando l'appetitosa pienezza del seno e l'invitante curva dei fianchi. E' la stupenda farfalla che non si sarebbe immaginata nella crisalide.

* * *

Gli anni trascorrono velocemente.

Quando Eugenia le chiese il permesso di invitare i suoi amici ad ascoltare i dischi che era riuscita a procurarsi, nonostante il brontolare del padre che non comprendeva come, con tanta sana musica nostrana, si potesse preferire il jazz americano, anzi negro, Elena rispose che avrebbe preparato i suoi pasticcini speciali. Anche a lei piaceva la musica prediletta dai giovani e, pure per fare un po' di fronda, sarebbe stata qualche minuto con loro, lasciandoli, poi, liberi di fare quattro salti. Non avrebbero dovuto fare troppo chiasso, però, sia perché gli altri ragazzi dovevano studiare, sia per non informare i vicini di casa dei fatti loro.

Oltre i pasticcini, preparò sé stessa, con particolare cura. Gli amici di Eugenia non dovevano trovarsi di fronte a una 'vecchia mamma'.

Elena non dimostrava affatto i suoi anni. Aveva qualcosa di giovanile nel portamento, soprattutto nello sguardo che diceva di passione più viva che mai, di ardori che Paco sapeva più stimolare che contraccambiare e appagare. Vestiva con gusto ed eleganza, controllava ogni minimo particolare. La sua biancheria intima, scelta con maliziosa civetteria, e tolta con sapiente maestria, qualche volta riusciva ad attirare l'attenzione di Paco che si complimentava con la moglie per... l'ottima qualità che era riuscita a trovare nei negozi del centro.

Ufficio e politica, qualche cena con gli amici, lunghe passeggiate, sempre con gli stessi, fermandosi di quando in quando a raccontare barzellette, spesso grasse, e a guardare qualche graziosa madama o madamina con le quali tutti dicevano che avrebbero fatto 'chissà ché'. A casa, poi, il letto testimoniava più il russare che altro.

Paco, pur obbediente alle direttive del partito, non ne condivideva l'esaltazione, abbastanza volgare, del maschilismo, né la rumorosa campagna demografica. Comunque, intorno alla tavola, a casa, oltre Elena ed Eugenia, sedevano con lui Enrico, Egle ed Elsa, nati a distanza di due anni, l'uno dall'altro. Tutti avevano il nome che iniziava con "E". Nonno Amedeo diceva che ognuno aveva le stesse iniziali di Re Vittorio Emanuele: "VE".

Se la teoria di Concetta, che é necessario fare spesso e bene l'amore perché i figli si costruiscono un pezzo alla volta, fosse stata vera, i figli di Elena sarebbero stati tutti dei tronconi informi, e non belli, robusti e simpatici, com'erano.

Paco guardava i suoi figli e dava un'affettuosa pacca sul sedere di Elena. Tutto lì.

* * *

Giorgio Rivelli era stato il primo ad arrivare. Aveva portato dei fiori alla signora e una scatola di gianduiotti agli altri. Frequentava la facoltà di medicina. Di statura media, dimostrava qualche anno meno della sua età, vestiva con sobria eleganza, appariva disinvolto, sicuro di sé. Le compagne e i compagni erano certi che avesse ragazze in ogni angolo.

Eugenia non era ancora pronta, gli altri ragazzi studiavano. Ad Elena che lo accolse, si presentò sorridendo, quasi che lei avesse dovuto conoscerlo.

"Sono Giorgio Rivelli."

Elena ringraziò per i fiori, mise i cioccolatini su un tavolo, gli disse di accomodarsi, e per farlo sentire a proprio agio gli chiese se volesse ascoltare della musica. Senza attendere riposta, mise sul fonografo il primo disco che le capitò sotto mano, abbassò la puntina per farlo suonare. Era 'Plegaria', un tango argentino. Giorgio accompagnava la musica con un impercettibile dondolio della persona. Elena lo guardò sorridendo:

"Vedo che le piace ballare."

"Si" -rispose Giorgio- "e preferisco il tango, ma non lo dica a Eugenia altrimenti mi prende in giro."

Elena si alzò e gli tese le braccia, invitandolo.

"Allora balliamolo noi, questo tango, perché con Eugenia non so se lo ballerà."

Si strinse a lui, ondeggiò strofinandosi, accolse la gamba del giovane tra le sue, ritraendosi e avvicinandosi con agilità, con studiata attenzione, sempre più presa dal languido calore che le dava il ballo. Sentì la eccitazione di lui, e ancor più insisté nel giuoco che avrebbe voluto prolungare all'infinito. Gli occhi socchiusi, il capo lievemente rovesciato, lo sentì così prepotentemente vicino che le sembrò di riceverlo in se. Terminata la musica, si staccò lentamente, con un ultimo sussulto del grembo, lasciando che il giovane, rosso e a disagio, tornasse rapidamente a sedersi.

"Sa che lei sembra nato per ballare il tango, Giorgio? Spero che non sia l'unico ballo che mi fa fare."

In quel momento entrò Eugenia, sorridente e fresca, e gli andò incontro con la mano tesa. Lui si alzò a fatica.

* * *

Quando tornò dall'Università, dove frequentava lettere, Eugenia andò nel tinello a salutare la mamma intenta a ricamare qualcosa che non finiva mai.

"Hai visto Giorgio?"

Chiese Elena.

"Si." E abbassò gli occhi, un po' imbarazzata.

"E' un bel ragazzo, vero?"

"Si."

"E non dici altro? Ti piace? C'é qualcosa tra voi?"

"Mamma, é un vero e proprio interrogatorio! Giorgio ed io ci vediamo qualche volta, quando lui viene all'Università. In genere sta all'ospedale. Tutto qui."

"Eugenia, sentirsi attratta da un ragazzo, credere di volergli bene, é cosa naturalissima. Bisogna pensare molto, però, anzi moltissimo, prima di stabilire se si tratta di un sentimento solido e non di una fugace simpatia, o anche d'una infatuazione. Può capitare. In queste cose non ci si può concedere capricci che sempre più spesso, e scusami la crudezza, finiscono in affrettate nozze riparatrici tra due esseri che si tradiranno e odieranno per il resto della vita."

"Mamma, stai facendo un romanzo..."

"Nulla é più romanzesco della realtà, Eugenia, ma voglio finire quello che intendo dire, come madre e come donna: qualsiasi sentimento possa legarci, ci si deve sempre comportare seguendo il principio che tutto deve avvenire nel matrimonio e quindi dopo il matrimonio. Lo voglio ribadire in termini chiari e solenni, non solamente accennare come ho spesso fatto con te e con le tue sorelle. Il mio può essere giudicato, specie dai giovani, un atteggiamento da piccola borghese attaccata alle vecchie tradizioni, quasi a superstizioni, spesso considerate sciocchezze, anticaglie, o peggio. Bisogna saper controllare i propri impulsi, i propri sensi..." -annuì col capo, ripetendo a bassa voce- "i propri sensi."

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