L'arco Nelle Nubi

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Nel contempo, studiavo intensamente perché, senza averlo ancora detto a nessuno, intendevo recuperare l'anno perduto.

C'erano, poi, le passeggiate e il cinema con Frida, le sempre più audaci carezze, il sempre più condiviso desiderio di fare l'amore. C'erano le piacevoli, appaganti e liberatorie visite a Livia.

* * *

Il diploma fu conseguito con voti lusinghieri.

Mi accorsi, allora, che non c'erano motivi validi per restare in quella città. Non era lì che volevo lavorare, e volevo iscrivermi all'università. Un programma ambizioso nel quale, però, non c'era posto per Frida.

Livia, invece, me la volevo tener buona per le volte che sarei tornato in famiglia, anche per questo le feci un bel regalo, e le promisi che sarei tornato spesso, proprio per lei, e che la distanza avrebbe acuito il desiderio e reso ancora più belli i nostri appassionati incontri.

Frida, in attesa di fare la maestra rurale in una frazione del suo paese, era assistente in una colonia estiva.

Con tanti aiuti e un po' di fortuna trovai un posto nella città che sognavo e mi iscrissi all'università.

Dopo appena una settimana, Livia venne a trovarmi, e passammo la notte nella modesta camera d'un alberghetto, nei dintorni della stazione. L'aveva trovato lei, appena scesa dal treno, prima di presentarsi al mio ufficio. Aveva messo il vestito che le avevo regalato io. Aveva inventato una scusa, alla madre, le aveva detto che doveva andare a vedere perché non le aumentavano l'assegno di sussistenza. Fu più scatenata che mai, una vera piovra, insaziabile. Non volle che l'accompagnassi al treno perché qualcuno avrebbe potuto vederci insieme. Volle pagare tutto lei. Prima di lasciarci, alla stazione, mi disse fremente che sperava di restare incinta, avrebbe voluto un figlio da me, "come voi", concluse, "e non m'importa della gente". Non mi aveva mai dato il 'tu'.

Ho incontrato ancora l'esuberante Livia, sempre più decisa a voler concepire il 'figlio d'un signore', ma l'ooforite l'aveva resa sterile dopo la nascita della seconda bambina.

Dal giorno che andai nella grande città non ho più smesso di lavorare.

A un certo punto la Patria in guerra decise che dovessi servirla, mi chiamò e disse che ero 'volontario'. Misi poche cose nella valigia, in tasca la spilla di Marcella, e viaggiai verso la caserma che sorgeva ai bordi d'una vasta distesa d'acqua.

* * *

Erano trascorsi tanti anni da quando ero entrato in quella caserma. Anni durante i quali la guerra era passata come un vento distruggitore, su tutta la penisola, su gran parte dell'Europa.

Tante cose non c'erano più. Tante persone non rispondevano all'appello. Scomparsa la casa dove avevo abitato prima di andare in Etiopia. Scacciati gli Italiani dall'Africa. Eliminato il regime che aveva governato per oltre vent'anni. Scacciata la monarchia. Minati i campi intorno alla scuola rurale di Frida. Scomparso il marito di Livia. Sparpagliati in cimiteri di guerra e in altre sedi i miei compagni di scuola, i miei compagni d'arme, i miei soldati.

Ricostruiti i paesi diruti, restituiti alle messi i campi devastati. Distribuita qualche medaglia al valore, anche a chi la meritava veramente.

* * *

Era la mia prima visita alla sede di Firenze della società della quale ero a capo da alcuni giorni.

Nell'incontro coi dirigenti locali, i programmi che avevo esposto erano piaciuti, e le persone s'erano dichiarate liete d'essere coinvolte nella loro realizzazione.

Uscendo dalla grande sala dell'antico palazzo patrizio, mi sembrò di scorgere, nell'ufficio di fronte, attraverso la porta socchiusa, qualcosa che mi faceva fare un lungo salto indietro nel tempo. Ma forse era solo immaginazione. Erano passati tanti anni.

Mi avvicinai piano, spiai dentro. Era con la testa china su un voluminoso incartamento e, con la matita colorata tra le dita affusolate della mano delicata e curata, andava sottolineando qua e là. Lo stesso colore di capelli, la stessa linea del volto. Alzò il viso verso me. Sorrise. Lo stesso sorriso, gli stessi 'occhi di cielo'. Credetti sognare.

"Rosetta!?"

Si alzò e mi vene incontro, come faceva allora, come se ci fossimo lasciati ieri. La strinsi con infinita tenerezza tra le braccia, sentii la sua guancia sul mio volto.

La stessa voce.

"Sapevo che eri tu il nuovo grande capo. L'ho appreso subito. Ho letto la tua lettera di saluto e buon lavoro a tutti. Ne ho riconosciuto lo stile, lo stesso dei temi che scrivevi per me. Ho chiesto in giro, a chi era venuto da te, dell'amministratore delegato, ed ho avuto la conferma che eri tu, sempre tu, il mio 'orso', ma non ti sono venuta a cercare. Oggi, ho volutamente disertato il meeting. Perché rivederti se non sei più mio? Ho anche pensato di chiedere il trasferimento in un altra società del gruppo."

"Rosetta. Incontrarti. Il più bel dono che abbia mai avuto."

"Più della spilla che portavi sempre con te?"

"E' tutto diverso, Rosetta. Se riuscissi a spiegarmi, a farmi comprendere, accetteresti la spilla che ho sempre con me, e la terresti tu, da ora in poi, per sempre.

Mi accorgo d'essere egoista. Dico cose che interessano solo me, Avrai una tua famiglia, non sei come me. Io ero e sono restato l'orso solitario della Floridiana."

"Non ho nessuno, orso. I miei genitori sono stati scavati dalla macerie dopo giorni e giorni di ricerca. Fiorenza insegna a Padova, Mio fratello é negli Stati Uniti."

"E dove abiti?"

"Ho una piccola villa ad Arcetri. Una donna la tiene pulita e cura i miei fiori. Io passo le mie serate tra i libri. Perché non vieni a vederla? Ma già, tu sei abituato agli alberghi di gran lusso..."

Bussarono alla porta. Rosetta disse di entrare. Entrò il Direttore di Firenze.

"Dottore, vogliamo andare a colazione? Vedo che lei ha avuto occasione di conoscere la nostra brillante e preziosa 'esperta finanziaria', la nostra Rosetta che ha disertato il primo incontro con lei. Mi auguro che l'abbia giustificata."

"La conosco da anni, ingegnere, eravamo compagni di classe, e non ci vedevamo da allora. Spero che vorrete comprendermi e scusarmi se vi prego di andare voi, a colazione. Ci incontreremo qui domattina, per concludere i nostri lavori, ai quali parteciperà certamente anche Rosetta. A domani."

Falsetti era una persona discreta e gentilissima.

"A domani, dottore. E buon ritorno ai ricordi d'un tempo."

Uscì e chiuse la porta dietro di sé:

* * *

Rosetta guidava calma. Io dovevo farmi forza per non toccarla, stringerla a me, carezzarle i capelli. Il tempo non sembrava trascorso per lei. La giovane studentessa s'era trasformata in una donna ancor più splendida, sulla quale gli anni erano scivolati come un balsamo vivificante. "E' veramente una donna di classe", aveva detto mio zio. Quasi non credevo che potesse essere Rosetta, era troppo giovane, forse era sua figlia. Glielo dissi.

"Se avessi avuto una figlia non poteva essere che la tua, orso."

La guardavo ammaliato, incantato.

Condusse l'auto presso l'antico ristorante, lasciò le chiavi al ragazzo che le venne incontro, salimmo al piano superiore, sedemmo al tavolo vicino alla finestra dalla quale si dominava la valle.

"Ti affidi a me?" E mi carezzò la mano.

Senza attendere risposta ordinò il mio piatto preferito. Non aveva dimenticato nulla.

"Parlerò io" -proseguì- "perché so bene quanto non ti piaccia parlare , e so anche che non ami quelli che parlano troppo. Mi domando, però, come fai nelle riunioni a convincere tutti, a incantare tutti, quasi senza dire motto."

E mi raccontò i suoi studi, le sue ricerche. Gli 'occhi di cielo' mi fissarono intensamente quando parlò della sua scelta di restare sola, di non aver mai accettato neppure una parola galante.

"Tu mi comprendi" -disse- "ma io non avevo neppure una spilla da stringere, e la collana di corallo, quella che mi volesti regalare a Torre del Greco, é restata sotto le macerie."

* * *

La villetta era molto bella, tenuta con la massima cura.

"Se vorrai tornare in albergo ti accompagnerò io. Ma questa sera ceni con me, poca cosa. Ti preparerò una pizza come quella che mangiavamo insieme, da Mattozzi. Forse sarà meno buona."

Ero sul divano a fiori, le tesi la mano, l'attirai sulle mie ginocchia.

"Non tornerò in albergo, Rosetta, voglio restare qui. Mi accontenterò di questo divano. Fammi restare qui."

Le labbra di Rosetta erano infuocate, le sue dita mi carezzarono il volto. S'alzò, salì al piano superiore. Dopo un po' mi chiamò: Era dinanzi alla bella porta di legno che portava nella vasta camera appena illuminata da una morbida luce che filtrava dai lumi sapientemente disposti. Fuori della finestra il cielo era scuro, carico di nuvole.

L'imponente letto di ottone aveva le coperte rivoltate, da entrambi i lati. Su una poltroncina, ai piedi del letto, era poggiata una candida e vaporosa camicia da notte; sull'altra una elegante vestaglia rosso bordeaux.

"Mai nessuno ha dormito tra queste lenzuola" -disse Rosetta- "mai nessuno ha indossato quella camicia. Quella vestaglia ti attende da sempre."

L'amavo pazzamente e desideravo sentirla mia. Sì, é così, tra un uomo e una donna non c'é completo amore senza sesso.

Rosetta guardò il letto, in silenzio. Volse la testa verso la finestra, dove il cielo andava sempre più incupendosi, mi guardò con profonda tenerezza.

"Mai nessuno ha mai dormito con me, orso. Fino a questa sera."

* * *

Al mattino, ancora presto, sentimmo bussare insistentemente al portoncino d'ingresso. Picchiavano con la mano, col battente di bronzo.

Cercai di accendere la luce, la lampadina restò spenta.

"Rosetta" -le sussurrai nell'orecchio, baciandole i capelli- "c'é qualcuno alla porta. Manca la luce. Posso andare io a vedere chi é."

Si voltò sorridendo, ancora presa dal sonno che era durato troppo poco. Stava ricordando.... ebbe un bagliore nei suoi splendidi 'occhi di cielo'... lo percepii anche se la camera era quasi buia. Mi baciò forte sulle labbra, stringendosi a me col tepore della sua pelle.

"Grazie, amore, grazie."

Cominciò ad alzarsi, svogliatamente. Splendidamente nuda nella penombra della camera.

"Indosserò la tua vestaglia. Torno subito. Aspettami, non alzarti. Dopo indosserò la camicia da notte e tu vi appunterai la spilla che porterò sempre con me. Aspetta, amore."

Sentii scricchiolare la scala di legno, l'aprire della porta, e una voce, alterata, spaventata, che gridava: "l'Arno é straripato, Firenze é invasa dall'acqua, c'é pericolo che scompaia, l'acqua sta cancellando tutto..."

L'acqua....

* * *

MRIGI

Regina di Gaya

1

Era sempre in compagnia di un'altra ragazza.

Alta, capelli lunghi, nerissimi con qualche colpo di sole, un contrasto forte ma piacevole. Occhi grandi, grigi, luminosi, con riflessi antracite. Mani lunghe, dita affusolate, unghie lievemente colorate con l'henna. Pelle dorata, serica, come appena uscita da sapienti cure cosmetiche. Labbra piccole, deliziosamente disegnate in un ovale perfetto, spesso in movimento per quel suo masticare betel.

Il corpo si poteva solo immaginare, sotto l'ampia e lunga gonna, e nella blusa dalle larghe maniche.

Grossi orecchini d'oro ai lobi delle piccole orecchie, un vistoso ciondolo alla massiccia collana, anch'essa d'oro, che aveva al collo. Braccialetti dello stesso tipo della catenella. Nulla alle dita.

Sostavano sempre allo stesso posto, all'angolo della strada, all'ingresso del lungo porticato, poco lontano dal bar.

Mi veniva incontro con passo flessuoso, armonico, un sorriso enigmatico sulle labbra. Tendeva le belle mani. La voce calda, suadente. Parlava un buon italiano, con accento forestiero. La voce, un po' gutturale, velata, pronunciava alcune vocali strette e corte. Mi guardava con gli occhi metallici.

"Ti leggo la fortuna..."

Le porgevo un biglietto di piccolo taglio, facendo in modo di sfiorarle la mano.

Dopo qualche giorno si limitava a dire: "... la fortuna...". Prendeva la moneta, avvolgendo la mia mano tra le sue lunghe dita che stringeva appena e poi ritirava lentamente, con una carezza leggera, che mi piaceva credere complice, e uno sguardo felino.

Decisi di essere più generoso. Ma nel mio intimo v'era il desiderio di ringraziare per quella carezza, forse comprarla, e la speranza di un più lungo contatto con quelle dita deliziose. Quando scorse il maggior valore della banconota, il sorriso divenne bagliore di spada incandescente, e la mia mano fu accolta dalle sue, riunite, mentre chinava leggermente la testa.

Quella mattina era sola, senza la sua solita compagna.

Appena me ne accorsi, cambiai il biglietto già preparato con uno di ben più consistente importo.

Mi guardò diritta negli occhi.

Non ritirai la mia mano, ed ella non la lasciò.

"Sei sola?"

"Si, sorella è malata."

"Come ti chiami?"

"Mrigi."

Dovetti farmelo ripetere due volte. Le vocali erano sfuggenti, non si percepivano chiaramente. Provai a ripetere cercando di imitare la sua pronuncia.

"Mrg?"

"Si, bravo, proprio così, MRG."

Lasciò le mie mani e tornò al suo angolo.

L'indomani uscii in auto, la parcheggiai nella piazza dove iniziava il porticato. Avrei proseguito a piedi.

Mrigi era sola.

Appena mi vide mi venne incontro.

Lo stesso rito del giorno prima, ma invece di lasciare la mia mano la voltò col palmo in alto. La scrutò attentamente, la esplorò con le piccole dita. Senza abbandonarla, alzò il volto e mi fissò con aria tra gioiosa e inquieta.

"Cosa vedi?"

"Una cosa bella ma forse non buona per te."

"Cosa?"

"Non dirò adesso."

"Però me la dirai?"

"Insc'Allah!"

"Mrg, vieni a fare una passeggiata in auto con me?"

"No posso, devo leggere mano e guadagnare il giorno."

"Solo una passeggiata. Quando tornerai qui avrai il tuo compenso. Anzi, no, te lo dò prima."

Feci per estrarre il portafoglio.

"No, non così. Non posso salire qui, in tua auto davanti a tutti."

Si guardò intorno, prima di seguitare.

"Tu aspetta dietro via Mori, piccola via. Capito?"

"Capito."

Tornai all'auto. Mi allontanai lentamente dal marciapiede, e mi avviai verso la strada indicatami, una via stretta, semideserta anche nelle ore del giorno. E se vi avessi trovato un agguato? Mi avrebbero rapinato di quanto avevo e dell'auto. Mi strinsi nelle spalle e proseguii.

Non c'era nessuno, ma non potevo fermarmi a lungo perché avrei impedito il passaggio.

Mrigi comparve all'improvviso, dal nulla, come materializzandosi. Si avvicinò furtiva all'auto, aprì lo sportello posteriore, entrò, si accovacciò tra il sedile e gli schienali.

"Va, presto, prego. Dove non c'è gente."

Non capivo bene quello che stava accadendo, ma mi affrettai verso la periferia. Poi imboccai la strada che conduceva a un piccolo lago, poco distante.

Quando fummo fuori dell'abitato, Mrigi riemerse, con un balzo agile venne a sedere accanto a me. Aveva tolto gli orecchini e i vistosi ornamenti d'oro che portava al collo e ai polsi. Per la prima volta mi accorsi che aveva dei piedi snelli, eleganti, e belle scarpe.

Mi guardò sorridendo.

"Questo è scritto in tua mano e in mia mano. Lo sai rom?"

"Ma io non sono zingaro, non sono rom."

Sorrise in modo incantevole.

"Si, è vero, una etnia zingara è detta rom, ma rom, nella nostra lingua significa uomo."

"Cos'è scritto nella tua e nella mia mano?"

"Un incontro."

"Infatti ci incontriamo tutte le mattine."

"Non questo, incontro é conoscere."

"Allora mi presento. Sono Bruno Colli."

Sorrise, un po' divertita.

"Sposato?"

"Dovresti saperlo, hai letto la mia mano."

"Mano dice se vuoi bene a una donna, no se sei sposato."

"E io voglio bene a una donna?"

"Credo si, ma tu non ancora certo se bene o solo desiderio."

"E' vero. Parli molto bene la mia lingua, sei da molto in Italia?"

"Ho studiato in scuola italiana, poi sono stata lontano molto tempo, adesso sono tornata."

"Qual'è la tua lingua?"

"Romani cib, voi chiamate tzigano, come ungheresi che vanno girando, i cigany. Viene da un dialetto dell'India, del nordwest, poi ha preso tante parole dei paesi dove è stata la mia gente. Anche mio nome è dell'India, Mrigi è la cerva. Sono nata a Gaya, nel Bihàr. Tu sei Bruno?"

"Si."

"Ma io più bruna. Vedi?"

E mostrò il braccio.

"Mrigi, perché hai accettato di venire in auto con me?"

"Perché scritto nella mano."

"Ma tu vieni al ristorante, con me, vestita così?"

"Se tu vai io vado. Questo vestito è originale, molto nuovo. E' per figlia di capo."

"Tu sei figlia del capo?"

Annuì vigorosamente con la testa, scomponendo i lunghi capelli.

"E perché chiedi l'elemosina?"

"Io non chiedo, offro lettura della mano."

"Non hai caldo con quel vestito?"

"E' lana finissima. Quello che ripara da freddo ripara da caldo."

"Sei sposata Mrigi?"

"No, ho ragazzo destinato."

"Da chi?"

"Da famiglie."

"Gli vuoi bene?"

"Questo non importa. Io, però, non faccio quello che lui dice."

"Sei contenta?"

"Lui lepre, io cerva, non è massimo."

"Che vuol dire?"

"Non conosci Kama?"

"No."

"Allora tu non sai che sei cavallo?"

"E tu come lo sai?"

"Letto mano."

"E' importante?"

"Certo."

"Perché?"

"Non posso spiegare adesso."

"Me lo spiegherai poi?"

"Insc'Allah."

Eravamo arrivati al lago, presso un grazioso ristorante. Scendemmo dall'auto.

"Posso bagnare piedi?"

"Certo."

Andò alla riva, tolse le scarpe, sollevò la gonna infilandone il lembo nella cinta che le circondava la vita, alla quale era legata una minuscola sacca dorata, rimboccò le maniche, slacciò due bottoni della camicetta.

Le gambe erano brune, come le braccia, ben tornite, snelle, con i muscoli che guizzavano sotto la pelle dorata.

Entrò nell'acqua fino alle ginocchia. Si voltò.

"Tu non vieni?"

Scossi la testa, negativamente.

Tornò verso la riva. Si fermò, si chinò per raccogliere un ciottolo bianchissimo.

La scollatura si schiuse e mostrò il seno, anch'esso scuro, con due piccoli capezzoli quasi viola.

Non indossava nulla sotto la blusa.

Allungò la mano per farsi aiutare.

"Aspetta Mrigi, ho qualcosa, in macchina, per farti asciugare."

Non attese, prese le scarpe e venne con me, verso l'auto, camminando leggera sulla ghiaia.

Le detti una grossa asciugamano che avevo nella sacca custodita nel portabagagli.

Sedette con le gambe fuori dell'auto. Cominciò ad asciugarsi. La gonna s'era raccolta completamente nel grembo. Alzò una gamba e vidi che neppure sotto la gonna indossava nulla. Oppure era la mia immaginazione.

Quando alzò l'altra gamba ebbi la conferma che non si trattava di fantasia.

"Andiamo a mangiare, Mrigi?"

"Va bene, se vuoi."

Si alzò, rassettò la gonna, venne al mio fianco.

Chiesi un tavolo al sicuro da sguardi indiscreti.

Il cameriere ci condusse in una saletta appartata, con un ampio balcone sul lago.

"Dove vuoi sedere Mrigi?"

"Donna tzigana sempre vicino a uomo."

Sedemmo allo stesso lato del tavolo.

Ci consegnarono le liste. Mrigi non l'aprì.

"Io mangio quello che tu mangi, bevo quello che tu bevi, e Allah misercordioso sarà buono con me."

"Ma tu non bevi vino."

"Io bevo quello che tu bevi."

Ordinammo la specialità della casa, ravioli alla salvia e trote in cartoccio. Vino bianco. Mrigi era seduta impeccabilmente, avrebbe voluto che il cameriere servisse prima me, poi accettò sorridendo di precedermi. Mangiava a piccoli bocconi, servendosi ineccepibilmente delle posate.

Quando le porsi la coppa del vino strinse un po' le labbra, poi ne bevve un sorso. Insistei perché ne bevesse ancora. E non fu necessario ripeterle di nuovo l'invito.

Chiedemmo di servirci il caffè sul balcone, dov'era un dondolo ricoperto di soffici cuscini.

Era al mio fianco.

Le cinsi le spalle, e la sentii accostarsi a me, premere la coscia, calda, contro la mia.

Scesi con la mano alla vita, carezzandola lentamente. Sfiorai il seno turgido.

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