L'arco Nelle Nubi

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"Vorrei che questo viaggio durasse in eterno."

Se abbandonò ancora di più, si fece sentire ancora più vicina. Spostai in avanti la mano che le tenevo sotto l'ascella. Le baciai i capelli.

Al portone, Fiorenza mi salutò raccomandandomi di non ridere troppo e dicendomi che se avessi voluto sapere la trama del film me l'avrebbe raccontata. Corse avanti, per le scale. Entrai con Rosetta. Mi carezzò il viso, mi baciò sulle labbra. Tenne a lungo le sue mani tra le mie.

"Grazie!" Disse, e scappò via.

Mi piaceva stare con Rosetta.

Era bella, dolce, affettuosa, gentile, premurosa. Mi guardava coi suoi grandi 'occhi di cielo' e mi perdevo nell'infinito della loro profondità. Mi sfiorava con l'oro dei suoi capelli, col velluto del suo viso, con l'ardore delle sue labbra. S'abbandonava tra le mie braccia con la tranquilla serenità di chi si sente sicura, protetta.

Un pomeriggio incontrammo mio zio, a Rettifilo, vicino l'università.

"E' Rosetta" -dissi presentandola- "la mia compagna di classe."

La domenica successiva zio venne a trovarci, al paese. Mi prese da parte, come se ci fosse un segreto tra noi, e sorridendo compiaciuto mi disse:

"Bellissima e fine ragazza la tua compagna di classe. Veramente di classe."

Certo non poteva paragonarsi alle 'signorinelle' che venivano dalla zia, con aria annoiata, ostentando la presunzione che fondavano sul loro patrimonio familiare.

* * *

In primavera dovemmo studiare molto. In effetti era Rosetta che studiava molto. Io l'aiutavo nei compiti, le preparavo gli appunti per il 'ripasso', le 'sentivo' le lezioni per l'indomani. Ero spesso a casa sua. Evidentemente, le informazioni raccolte dal padre continuavano a favorirmi. Fiorenza aveva smessa l'aria canzonatoria dei primi tempi. La mamma era gentilissima e consentiva di 'fare un giretto', ma sempre con Fiorenza al seguito. Come quando si andava al cine.

Quel giorno la mamma di Rosetta mi disse che la figlia stava preparandosi, sarebbe venuta tra poco. Ne profittava, disse, per chiedermi qualcosa che avrebbe voluto domandarmi da tempo, ma non lo aveva fatto per tema di urtare la mia suscettibilità. Mi considerava serio ed educato, mi assicurò, e lei credeva di potermi trattare come un proprio figliolo, con sincerità, senza infingimenti. Le sarebbe piaciuto, dunque, sapere perché io, che scrivevo i temi per Rosetta, che le facevo i compiti di matematica, che le rendevo più facile lo studio della altre materie, mi comportavo, a scuola , in un modo che mi faceva rischiare di essere respinto. Cosa mi ripromettevo di fare, in avvenire?

Rimase a guardarmi, in attesa d'una risposta che non credeva di avere. E, invece, le risposi. Serenamente, sinceramente.

Quello che studiavo, quello che facevo, era solo perché mi piaceva farlo, era per me. La scuola non mi interessava. Certo che mi avrebbero respinto, anche se in alcune materie i voti erano ottimi. Nella scuola gli insegnanti si preoccupano solo delle risposte alle interrogazioni, dei compiti in classe, anonimamente, aridamente, non s'interessano degli alunni in quanto esseri umani. Cosa avrei fatto in futuro? Non lo sapevo. Alla peggio, c'erano sempre le forze armate che offrivano l'arruolamento. Non ambivo neppure i gradi. Tutto ciò lo avevo già detto a Rosetta.

"Allora" -disse gelida- "non t'interessa neppure Rosetta."

Era il colpo basso che aveva tenuto in serbo.

Rimasi in silenzio per qualche istante. Speravo che Rosetta venisse a trarmi d'impaccio, ma era evidente che attendeva un segnale della madre, per entrare. Volevo rispondere, perché non credesse d'avermi messo in difficoltà. Ero certamente rosso in viso, più di quanto avessi voluto. Ma riuscii a non modificare il normale tono della voce quando le dissi:

"Rosetta mi ha perfettamente compreso e mi ha accettato così come sono. Lei m'interessa tanto, così com'é. Anzi, null'altro m'interessa, al di fuori di Rosetta. E le sono grato per come mi considera e mi tratta. Se, però, Rosetta ha sbagliato, se non merito la sua cordialità, se la deludo, se vi deludo, se vi spaventa il fatto che io sia respinto, a scuola, scusatemi. Non lo sapevo. Comunque non posso dire cosa farò domani, perché non lo so, perché forse non ho domani, e per me tutto finisce oggi."

La donna s'alzò, mi venne vicino e mi passò la mano sui capelli, s'avvia verso il corridoio. Sull'uscio si fermò, si voltò, mi disse, sorridendo:

"Rosetta ti vuole bene, la capisco. Viene subito."

Chissà se Rosetta era al corrente di quanto la madre aveva deciso di fare, se era d'accordo.

Nella mano, in tasca, stringevo la spilla che portavo sempre con me.

Che ne dici, Marcella?

Marcella mi parlò con voce calma, incolore, senza il vibrare della sua passionalità, della sua possessività. Mi rassicurò. Rosetta non ne sapeva niente. Rosetta mi voleva bene. Non quanto lei, però.

* * *

I risultati scolastici non fecero notizia. Nessuno se ne interessò. Solo Rosetta piangeva, singhiozzava, come se la respinta fosse stata lei. Era disperata: non saremmo stati più nella stessa classe.

Non sapevamo ancora che non saremmo stati più nella stessa scuola, nella stessa città. Prima dell'inizio del nuovo anno scolastico le nostre strade si sarebbero divise, allontanate.

Mio padre si risposava, e ci trasferivamo nella residenza della sua consorte, cercando di ricostituire la famiglia.

Suo padre era stato destinato a Firenze, come questore.

La famiglia di Rosetta sarebbe andata a passare qualche giorno con la sorella della madre, a Pisa

Quando ci salutammo eravamo convinti di rimanere divisi per due settimane, e ci sembrava un'eternità.

Ci rincontrammo ventotto anni dopo.

VI

I documenti scolastici dicevano chiaramente che ero 'ripetente'. Eravamo in due ad esserlo, ma io ero 'quello nuovo' che veniva da un'altra scuola.

Fui accolto con cordialità, con calore, dagli altri nove compagni di classe e dall'unica ragazza, Elisa, veramente bruttina.

I professori erano simpatici, ci trattavano con familiarità. Tutti sapevano la mia storia. Mio padre l'aveva raccontata al preside e lui, certamente, ne aveva parlato cogli altri.

Forse s'erano messi d'accordo tra loro, ma tutti gli insegnanti mi chiamarono a conferire, per accertare, dicevano, il mio grado di preparazione.

"Ditemi cosa ricordate." Aveva detto la professoressa di matematica.

La pregai di farmi delle domande. Alla fine si dichiarò meravigliata che mi avessero dato un pessimo voto nella sua materia. Insufficienza che aveva concorso all'essere respinto. (All'epoca con tre insufficienze si ripeteva l'anno.)

La stessa cosa capitò anche con qualche altro insegnante.

La mia assoluta ignoranza del tedesco non fu scoperta, perché in quella scuola non v'era scelta per la seconda lingua straniera, si insegnava l'inglese ed io lo conoscevo discretamente avendolo studiato per mio conto.

Gli alunni venivano da tutta la Provincia, qualcuno era 'interno' presso il locale Convitto Nazionale, altri erano 'a pensione' od ospiti di parenti. Ci si vedeva spesso, tra di noi, per studiare, per passare il tempo. Si andava a casa di qualcuno o ci si dava appuntamento lungo il Corso principale. A casa mia c'era sempre qualche compagno. Sì, tornavo ad avere una casa, una vera casa, e sentivo che la moglie di mio padre (non l'ho mai indicata come matrigna per il valore negativo che si attribuisce a tale nome) ci voleva veramente bene, come fossimo suoi figli. Era lei che ogni domenica mi dava qualcosa per le mie spese personali. Soldi che m'era difficile spendere: qualche giornale illustrato, un gelato quando il clima lo consentiva. Ai cinema non pagavo, perché lei ne era comproprietaria.

Il vivaio delle studentesse, e per giunta delle più carine, era l'Istituto Magistrale, che sorgeva all'altra estremità del Corso. L'incontro con le ragazze avveniva a metà strada, dopo che s'era usciti dall'edificio della propria scuola. Le più abbordabili erano le 'pendolari', che venivano dai Comuni viciniori e quelle che stavano 'a pensione', anche perché erano le meno controllate.

Frida era ospite della sorella sposata. Non tornava spesso al paese, anche se non distava troppo dal capoluogo, perché era un piccolissimo centro di montagna senza nessuna attrattiva se non paesaggistica, e lei di quel panorama ne aveva a sufficienza.

Era con le altre sue compagne vicino alla bella fontana del giardino dinanzi al Municipio. L'esercizio di matematica che dovevano fare per l'indomani le preoccupava. Lo avevo sentito chiaramente.

Mi accostai a loro e mi offrii di aiutarle.

"Perché, tu lo sai fare?", chiese Frida.

"Certo" -risposi senza sapere di cosa si trattava- "datemi il libro, faccio l'esercizio e ve lo riporto nel pomeriggio. Adesso devo andare a casa, mi aspettano per il pranzo."

Si consultarono tra loro, poi Frida mi porse il suo libro.

"Mi chiamo Frida, ti aspetto qui alle tre e mezzo."

"Io mi chiamo..."

Frida m'interruppe.

"Lo sappiamo come ti chiami. Sei quello che viene da Napoli. So anche dove abiti, perché é vicino a casa di mia sorella, dove abito io."

E mi disse l'indirizzo.

Per fortuna l'esercizio non era difficile, ci misi poco tempo a farlo, a copiarlo bene su un foglio a quadretti. Dissi che andavo a portare un libro a un compagno. All'ora stabilita giungemmo contemporaneamente al bordo della vasca. Mi salutò sorridendo, in quel suo modo particolare. Un sorriso che partiva dagli occhi. Guardò il foglietto che avevo messo nel libro.

"Hai una scrittura molto chiara, si legge benissimo. Grazie."

La fissai incuriosito.

"Lo dici spesso 'grazie'?"

"Certo, sono abbastanza educata, e quando mi si fa una cortesia uso ringraziare. Perché, tu non lo fai?"

In effetti, la mia domanda era stupida. Cercai di rimediare.

"No, é che mi ricordi un amico che mi diceva 'grazie' ogni volta che ci separavamo."

La mia spiegazione doveva sembrarle più sciocca della domanda.

"Io vado al cinema" -aggiunsi- "vuoi venire?"

Quasi scoppiò a ridere, poi mi guardò con fare canzonatorio.

"Ma che, scherzi. Al cinema con te, a quest'ora? A parte che non ho un centesimo, ma lo sai che qui al cinema insieme non ci vanno soli neppure i fidanzati 'ufficiali'? Noi non ci conosciamo neppure mi proponi di andare al cinema con te. A quest'ora!"

Le feci cenno con le mani di star calma.

"Andiamo con ordine" -risposi- "A quest'ora perché é il primo spettacolo e poi si può andare a studiare. Soldi non ne servono perché al cinema io non pago e neppure chi mi accompagna. Ho il palco di famiglia. Il resto é discutibile. Comunque, facevi più presto a dire chiaramente che al cine non vuoi venirci. Punto e basta."

"E invece no" -disse con foga- "non posso, perché a me piacerebbe venirci:::"

"Con me?"

Fece sì con la testa, e non c'era ironia sul suo volto.

"Va bene" -proseguii- "niente cinema per adesso. Si va a studiare. Possiamo fare un pezzo di strada insieme, visto che andiamo dalla stessa parte, o ci sono altre regole da rispettare e limitazioni in proposito?"

Alzò le spalle.

"Quanto sei antipatico. Hanno ragione le mie amiche: antipatico e scostante. Andiamo insieme fino a dove la strada é uguale per entrambi."

Al momento di salutarci le dissi:

Senti, Frida, domani é sabato. Ci incontriamo, tra amici, a casa di Lucio. Ci sarà anche qualche ragazza. Ascoltiamo i nuovi dischi. Vieni anche tu, e fa venire con te qualche tua compagna. Lucio abita in via Chiari, appena all'inizio, primo portone a destra. Alle quattro del pomeriggio. Ti aspetto."

Me ne andai senza attendere risposta.

* * *

Lucio aveva spostato in un angolo il tavolo, e coperto col pesante tappeto scuro, che di solito era al centro della stanza, vi aveva poggiato sopra un grammofono portatile, a manovella, una scatola di puntine, dei dischi.

Incontrai Nick davanti al portone, con due dischi americani, avuti per vie traverse dai suoi cugini di Rochester, io avevo comprato delle paste. Nino ci aveva preceduto, con una bottiglia di liquore 'casareccio', Luigia e Viviana avevano fatto i biscotti alle mandorle. La mamma di Lucio aveva preparato il latte alla portoghese. C'erano anche Gigino ed Emilio.

Bussarono alla porta. Fremevo dal desiderio di sapere chi fosse, ma non mi mossi. S'udì la voce della mamma di Lucio: "Entrate, entrate, sono tutti qui."

Sulla porta apparve Frida con una delle ragazze che erano con lei presso la vasca del giardino, Elda.

Indossava un abito semplice e molto elegante, o era lei a farlo apparire così. Blu, con piccoli risvolti di merletto ecru sui taschini, una cinta leggermente più chiara, dello stesso colore delle scarpe. Le labbra appena truccate.

Elda era in celeste, a sottolineare i suoi capelli chiari.

Ci conoscevamo tutti, almeno di vista.

Andai incontro a Frida, le presi una mano e la feci girare su sé stessa.

"Sei uno splendido figurino, una 'signorina grandi firme'."

"Sono un'aspirante maestrina rurale."

Rispose, con quel suo particolare modo di sorridere.

Lucio aveva messo uno slow, e qualche coppia cominciava a ballare. Frida mi guardava, certo aspettando che la invitassi. Eravamo nel vano della finestra. Le poggiai la mano sul fianco, come se volessi ballare, ma restai fermo.

"Non so ballare" -dissi- "e non mi piace ballare, non voglio farlo solo per aver modo di abbracciare una ragazza, una qualunque. A me interesse tu, non le altre. Se vuoi, però, balla pure. Non posso impedirtelo. Resterò a guardarti, seduto su quel divano, nell'angolo."

Divenne improvvisamente seria, si accostò a me per dirmi qualcosa anche con quel contatto, qualcosa molto importante, essenziale. Poggiò la mano sul mio braccio.

"Io vorrei che tu me lo impedissi, puoi farlo, devi solo dirmelo. E resterò anch'io a guardare gli altri, su quel divano nell'angolo. Vicina a te."

Era tesa, la sentivo irrigidirsi, stringermi il braccio, le labbra serrate, gli occhi come impauriti.

Cingendole la vita, la condussi verso il divano. Sedemmo vicini. Mi guardò con occhi illuminati, sfavillanti, raggianti.

"Ho capito" -bisbigliò- "non vuoi chiedere, agisci senza parlare, deciso, sicuro."

Allungai il braccio sulla spalliera del divano, vi appoggiò la testa e rimase così, con gli occhi chiusi. Le carezzai i capelli. Voltò il viso verso me.

"Mi sento strana" -disse- "una voce, ma solo una debole e timorosa vocina, mi dice che sono più le cose che ci dividono che quelle che possono farci credere di unirci. Mi dice che la ragazza di montagna sta illudendosi. Mi invita alla realtà del presente, a immaginare il futuro. Mi sembra di naufragare, ma il naufragar m'é dolce in questo mare.

Ritirai bruscamente il braccio da sotto la sua testa. Mi guardò spaventata. Cercai di sorriderle.

"Scusa" -dissi- "ma la parola naufragio mi sconvolge: mia madre é morta in un naufragio e una mia compagna di classe é affogata in un lago..."

Le si riempirono gli occhi di lacrime, scosse la testa, sconsolata.

"Sbaglio sempre, riesco sempre ad allontanare da me ciò che, invece, desidero avere vicino. Te l'ho detto, sono una rozza montagnola."

Era bellissima. La strinsi forte a me.

"Devi scusarmi tu la reazione che non sempre riesco a controllare. Tu non sbagli. Non so cosa volessero dire le tue parole, ma a me non capita di 'allontanare' chi desidero avere vicino. Vedi, non ti faccio allontanare, ma ti avvicino ancor più a me."

Gli altri seguitavano a ballare.

"Perché non andiamo a comprare le sigarette?" Proposi.

"Ma tu non fumi."

"Non importa, andiamoci lo stesso."

Ci alzammo.

"Ehi gente" -dissi al gruppo- "andiamo a comprare le sigarette."

Appena scendemmo l'ultimo gradino, la luce a tempo si spense e fummo avvolti dalla penombra dell'immenso portone. La sorreggevo per un braccio. Prima di aprire il battente mi voltai verso lei e la strinsi tra le braccia, la baciai. Ricambiò con dolcezza, deliziosamente spontanea, appassionata, dopo un istante d'indecisione che era solo l'incertezza dell'attesa.

* * *

I miei giorni scorrevano regolari, pur sempre improntati da una certa agitazione interiore che pur riuscivo a non far trasparire. Non era possibile dimenticare il passato, ma il mi presente mi offriva una casa comoda, tranquilla. Ero circondato da premurose cure, affetto.

Il luogo dove vivevo. le usanze, le tradizioni, le superstizioni, non agevolavano la soluzione dei sempre più pressanti problemi propri della mia età. Ufficialmente, non si doveva parlare di attrazione sessuale, di rapporti sessuali al di fuori del matrimonio o del 'casino'. Ragazzi e ragazze si sentivano attratti sessualmente, ma ne parlavano poco, quasi per niente. Solo alcuni osavano lasciarsi andare a complicati e insoddisfacenti... ripieghi.

Non sapevo se era normale, ma per me sesso e amore erano cose del tutto distinte. Non avevo idee chiare, e cercavo di comprendere, di spiegare a me stesso il mio pensiero confuso. L'amore era la persona con la quale avrei voluto essere sempre insieme, giorno e, soprattutto, notte. Era Marcella. Ma che significava, allora, Bagnaia? Era amore anche quello? O forse tutto era accaduto perché non riuscivo a capire i miei sentimenti?

Frida mi piaceva, desideravo carezzarla, baciarla, sentirla vicina, passeggiare con lei, andare al cine con lei, avrei anche desiderato ripetere l'esperienza di Bagnaia. L'amavo?

Avrei voluto porre la domanda, ma a chi?

Avrei voluto chiedere, 'credo che non ci sia amore senza sesso ma che possa esserci sesso senza amore, é vero?'

* * *

Livia aveva qualche anno più di me, s'era sposata ancora adolescente. Aveva messo al modo due figli, a brevissima distanza di tempo. Poi il marito era stato richiamato alle armi, era andato lontano, oltremare. Arrotondava quanto riceveva dal Governo venendo ad aiutare la mia famiglia nel disbrigo delle faccende domestiche. Era una femmina giovane e bella, carne palpitante, fremente per l'insostenibile lunga vedovanza di fatto. Un corpo fiorente, il volto del desiderio, occhi lampeggianti, narici vibranti; fianchi e petto provocanti.

Nessuno era riuscito a portarsela a letto. Era troppo rischioso. Se si fosse risaputo in giro, sarebbe stata la fine per lei. Non era nemmeno facile organizzarli, i convegni dei quali lei soffriva indicibilmente la mancanza.

La cosa accadde una domenica mattina, mentre tutti erano fuori casa ed io ero rimasto pigramente a poltrire, semiaddormentato.

Livia indossava una specie di camice, abbottonato sul davanti, ed evidentemente non altro. Entrò nel mio letto come una furia. Non dovette fare molto per eccitarmi. E si scatenò senza curarsi di me, delle mie reazioni. Come chi, arso dalla sete, scorge una fonte e vi si getta sopra ingordamente, bevendo lunghe, golose sorsate, senza neppure riprendere fiato, senza pensare al dopo. Volle rifarsi del troppo lungo digiuno, divorandomi completamente. Quando, sfinita, si ravviò i capelli, si passò la lingua sulle labbra, si chinò a baciarmi voluttuosamente, facendo scendere la mano su di me, come volesse assicurarsi di qualcosa. Allargando le narici mi sussurrò:

"Dovete venire a casa mia, quando volete, dovete venire. Vi aspetterò sempre. Il pomeriggio sono sola, mia madre é al lavoro e i bambini sono all'asilo. Dovete venire, siete bellissimo, io vi voglio..."

Si alzò e si rivestì.

Livia fu, per me, la scoperta della donna, forse é più esatto dire della femmina. Mi piaceva vederla nuda, baciarle il seno, carezzarla, nascondere il mio volto nel tepore accogliente del suo grembo, sentirmi in lei, sentirla su me, gemere, perdere ogni controllo, abbandonarsi sfinita. Mi piaceva il suo respiro affannoso che andava acquietandosi pian piano. Mi piaceva come mi spogliava, come mi lavava, mi asciugava, mi rivestiva.

Ma non sentivo di amarla.

Forse era così anche per lei.

* * *

Non mi mancavano i soldi, ma cercai lo stesso di fare qualche lavoretto. Avrei realizzato qualche economia per l'estate, avrei fatto qualche regalino a Livia. Non mi fu difficile. Nelle ore libere, riordinai una biblioteca, collaborai con l'esattoria comunale d'un paese vicino, che mi dava del lavoro da fare a casa, riportai sui registri d'un ufficio pubblico i dati delle schede di rilevazione.

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