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"E' tua. Marcella non l'aveva lasciata, la stringeva nella sua piccola mano di cera, vicino al suo cuore che non batteva più."

Lo presi, ne sollevai lentamente un lembo.

La spilla d'oro. L'ovale con Villa Lante. La girai. Sul retro era inciso: Bagnaia, e la data che sarebbe rimasta nel mio cuore e nella mia mente anche dopo la mia morte.

V

Entrai di nuovo in una scuola, in una classe. Incontrai volti nuovi. Seguitavo a percorrere il mio tunnel.

Sentivo di suscitare più curiosità che interesse.

Questo accadeva dovunque.

Nella casa di mia zia, che aveva messo a disposizione di mio padre e mia una camera nella quale dormivamo e avevamo riposto le valige del ritorno, non erano mai andate tante amiche e conoscenti a farle visita.

Volevano vedere il nipote coinvolto nel naufragio dove aveva perduto la madre, e che aveva vissuto tra i selvaggi, tra gli zulù. 'Gesù' -dicevano- 'povero figlio.' E se ne andavano contente, come se avessero visto un fenomeno da baraccone.

Per questo cercavo di stare in casa il meno possibile e di trovare mille ragioni per rimanermene nella camera buona per tutti gli usi.

A scuola era lo stesso.

Venivano dalle altre classi, con una scusa, per vedermi.

Decisi di frequentare le lezioni saltuariamente e, in quelle occasioni, di starmene all'ultimo banco, per conto mio.

Studiavo solo le materie che m'interessavano. Delle altre non acquistai neppure i libri. Sul libretto delle giustificazioni facevo la firma di mio padre meglio dell'originale. Problemi di quattrini non ne avevo.

Ogni mattina mi davano una somma: per il tram di Napoli, perché per quello provinciale avevo l'abbonamento; per la colazione e per mangiare qualcosa, all'uscita dalla scuola, in quanto sarei tornato a casa abbastanza tardi, specie quando c'era anche lezione nel pomeriggio.

Ricevevo più del necessario, e bastava sapersi regolare per disporre di quanto poteva servire per qualche passeggiata in barca, o per il cinema. A Napoli, certe sale aprivano alle dieci del mattino.

Il primo tema in classe chiedeva di parlare di una vacanza.

Dissi della mia lunga vacanza in Etiopia, del tragico viaggio d'andata, dell'incredibile fine della mia compagna di banco, Marcella, del mio imperioso volere, adesso, andare in barca sul mare, sull'acqua che odiavo, che mi perseguitava fin da bambino, quando ero costretto a villeggiare in riva al mare.

Il professore, un Sardo meraviglioso, lesse in classe il mio tema. S'interruppe più volte, commosso. Molti compagni mi guardarono cogli occhi lucidi. Alla fine della lezione, Rosetta, la bella bionda del primo banco, mi venne vicino, mi tese la mano, mi chiese:

"Le volevi bene, vero?"

Feci di sì con la testa.

"Quando non vieni a scuola, dove vai?"

La sua voce era calda. Non era curiosità, la sua.

"A spasso per la città al cinema, in barca a Mergellina."

"Perché non vieni a scuola? Vorremmo averti con noi."

"Noi chi?"

"Io!"

"E allora, vieni tu a passeggio con me."

"Non posso, mio padre é vice questore, molti agenti mi conoscono, potrebbe esserne informato. E poi, chi mi firmerebbe la giustificazione?"

"Dopo la prima ora puoi dire di non sentirti bene e che devi tornare a casa. Provaci domani."

Rimase silenziosa, a testa bassa.

Stava entrando la professoressa di tedesco, un'austriaca che parlava sempre del fratello farmacista. La materia non era tra le mie preferite. Andai alla cattedra, salutai educatamente, dissi all'insegnante che dovevo uscire perché stavo male. In effetti, non davo l'impressione d'essere in perfetta salute. Tornai al banco a prendere i due libri che avevo portato quella mattina. Passai vicino a Rosetta. Feci finta di leggere qualcosa sul suo quaderno e le sussurrai pianissimo:

"Domani, dopo la prima ora. All'ingresso principale del Museo. T'aspetto."

Uscii.

* * *

Rosetta camminava con aria sbarazzina, sorridendo. Mi vide subito. Mi salutò con la mano. Era senza libri, come me.

"Ho detto al vice preside che dovevo andare dal dentista. I libri li ho dati a Mariella che me li porterà sotto casa quando esce dalla scuola."

Assunse un'espressione misteriosa, come stesse cospirando.

"E' la prima volta che faccio una cosa del genere," -proseguì- "la prima volta. Ma andiamo via da qui, c'é troppa gente. Andiamo a Mergellina, in barca..."

"No!" -l'interruppi, spaventato- "No, tu in barca no!"

Si rattristò in volto.

"Scusa, non dovevo dirlo, hai ragione, ma tu mi hai detto che spesso ci vai in barca."

Le presi la mano, cercai di sorridere.

"Scusami tu, perdona se sono stato brusco. Sono sempre così teso... Io vado in barca, sì, ma é una sfida, e una speranza. Un odio imbevuto di tristezza. Odio il mare, l'acqua, la barca. Sono i simboli del mio tormento, che mi riportano alla mente le persone fino ad oggi più care della mia vita. Questa mattina sento che s'apre un nuovo cammino per me. E' una giornata piena di sole, che ne diresti di andare alla Floridiana?"

Mi strinse la mano, sorrise deliziosamente, con i suoi meravigliosi 'occhi di cielo' che mi fissavano, velati di commossa tenerezza.

"Si" -disse- "andiamo alla Floridiana, e non m'importa se qualcuno mi vedrà con te, a quest'ora."

Andammo verso Port'Alba. Da una piccola pasticceria usciva un profumo tentatore.

"Io ho fame" -le dissi- "non puoi farmi mangiare da solo."

In mente mi venne una frase letta non ricordo dove: 'ed essi si divisero il pasto':

Rosetta mi guardò con aria canzonatoria.

"Sono golosa anch'io. Altro che fame."

Le sfogliatelle furono deliziose.

Attraversammo Piazza Dante e proseguimmo per la Funicolare di Montesanto. Ci portò vicino al parco dal quale si dominava Napoli.

Sembrava come se ci conoscessimo da sempre. Si mise sottobraccio, mi parlò della sua famiglia. Una sorella frequentava il ginnasio, il fratello le elementari. Erano di Firenze, dove lei era nata, e stavano a Napoli da oltre sette anni perché suo padre era stato trasferito a quella Questura. Si sentiva un po' napoletana, ma soprattutto fiorentina.

Eravamo sul grande terrazzo. Il cielo era limpido, dal Vesuvio a Posillipo.

Mi prese la mano.

"Teniamoci così, fissiamo un punto qualunque, contiamo, e al tre, insieme, diciamo quale."

Cominciò: "Uno... due.. tre..."

Dicemmo insieme: "Capri!"

Mi strinse forte la mano, senza voltarsi proseguì sottovoce:

"Amare non é guardarsi l'un l'altro, ma guardare entrambi nella stessa direzione. Lo dice Antoine Saint Exupéry. Credi che sia vero?"

Rimasi con gli occhi che carezzavano il confine tra cielo e mare. Assentii con la testa, senza parlare.

Si avvicinò ancor più, poggiò la testa sulla mia spalla, coi lunghi capelli biondi che mi coprivano il braccio. Mi chiese piano, con la sua voce calda e carezzevole.

"Cosa farai oggi?"

"Non lo so."

"Studierai?"

"Non ne ho voglia."

"Domani c'è compito in classe di matematica, verrai?"

"Credo di si."

Le cinsi la vita. Era bellissimo stare con lei.

"Dimmi tu quando dobbiamo tornare." -dissi- "Dove abiti?"

"Possiamo rimanere ancora un po' qui, sto benissimo. Non m'ero mai sentita così, leggera, serena, avvolta in una nuvola magica.

Abito vicino alla scuola, in via Duomo.

Tu sei dai tuoi parenti, vero? In un paese a pochi chilometri. Mio padre m'ha detto che sono persone importanti, che tuo zio é un 'pezzo grosso' della politica. Vero?"

La guardai sorpreso. Aveva un aspetto incantevole.

"Hai parlato di me con tuo padre?"

"Si, gli ho detto che nella nostra classe era venuto un nuovo compagno. Ha voluto sapere come ti chiami, che aspetto hai, come ti comporti. Il solito interrogatorio di poliziotti..."

"E che aspetto ho, come mi comporto?"

Sorrise maliziosamente, stringendosi al mio fianco.

"Gli ho detto la verità, che sei un orso. Ma non gli ho detto che sei un bell'orso."

"Quindi formiamo la classica coppia: 'la bella e la bestia'."

"Al Circo Gleich c'era un orso che abbracciava teneramente la ragazza che... lo teneva al guinzaglio."

" E tu, l'hai portato il guinzaglio?"

"Anche se lo avessi non credo che con te funzionerebbe. Lo strapperesti con un morso e fuggiresti lontano, anche da me. "

Divenne seria.

"Perché sei così lontano da tutto e da tutti?"

"Non sono lontano da nessuno, perché non ho nessuno. Sono solo. Questo non lo tiene presente il tuo autore francese?"

"Sei solo anche in questo momento?"

"No."

"E' così, non sei solo. E non lo sarai mai, ricordalo. Io sono con te dal primo momento che sei apparso sulla porta della classe. Sono con te sempre. Anche quando non stiamo insieme. Non immaginavo di provare questo sentimento e ancor meno di rivelarlo."

"Forse é pietà."

Si staccò da me, mi strinse il braccio con forza, mi guardò con occhi di fiamma, rossa in viso.

"Orso, non capisci niente, o non vuoi capire niente."

L'abbracciai. Poi, con la mia mano sulla sua spalla, andammo lentamente verso l'uscita. Sulla strada, si mise di nuovo sottobraccio.

Tornammo a Piazza Dante, Piazza Cavour. All'angolo di via Duomo ci salutammo. Che sguardo sognante, pieno di dolcezza, quello di Rosetta. Mi tese la mano.

"Grazie!" Disse. E s'avviò verso casa.

Feci un tratto di Forìa. Tornavo a casa. Scesi verso Porta Capuana, verso la piccola stazione delle vicinali. Non mi fermai alla solita pizzeria. Dovevo avere una strana espressione perché qualcuno si voltava a guardarmi. Forse muovevo le labbra quando nella mente ripetevo: "Sono solo, Marcella, solo..."

Forse non ero sincero.

* * *

Il professore di matematica salì faticosamente sulla predella trascinando la sua gamba di legno. Si accomodò nella larga poltrona, batté sulla cattedra il bastone col puntale di gomma. Guardò in giro. Mi vide.

"Ah" -esclamò- "oggi abbiamo l'onore della presenza del libero discente dell'ultimo banco."

Mi alzai, abbozzai un inchino, sedetti.

Mi aspettavo un coro di risa e sghignazzi. Non fiatò nessuno.

"Lo sa la primula nera che oggi abbiamo compito in classe?"

Mi alzai di nuovo e sventolai il foglio di carta commerciale che avevo portato.

Proseguì sarcastico, impietoso.

"E' stato veramente fortunato nell'ultima interrogazione. Ha indovinate le risposte, ma erano domande molto facili. Vedremo cosa saprà fare oggi."

Mi fece cenno, col bastone, di sedere. Chiamò Soriani, gli dette un foglietto e gli disse di copiarlo sulla lavagna. Era il compito. C'erano due ore di tempo, s'era fatto cedere l'ora di religione.

Strappai un foglietto dal quaderno e vi scrissi, rapidamente, le soluzioni, complete di procedimento e calcolo. Era passata solo mezz'ora. Piegai il foglio grande, quello commerciale, sul quale avevo copiato quanto era scritto sulla lavagna, e vi scrissi nome e cognome. Mi alzai. Passando dinanzi al banco di Rosetta le chiesi di prestarmi il libro di storia e intanto lasciai cadere il foglietto con le soluzioni. Mi avvicinai alla cattedra e consegnai il foglio, in bianco.

"Non lo so fare" -dissi- "posso uscire un momento, per favore?"

Annuì con la testa.

Rientrai quando il professore, col fascio di compiti sotto braccio, arrancò fuori della classe.

Tornai al mio posto. Molti si misero a parlottare tra loro. Qualcuno mi guardava. Rosetta venne a sedere vicino a me.

"Perché ti sei comportato in quel modo?"

"Così potrà mettermi zero, e sarà contento. Voglio farlo felice, poverino. Questa volta, il suo odio verso il prossimo lo ha riversato su di me. Lo sento come se mi avvolgesse materialmente. E' come se volesse incolparmi di essere causa della sua mutilazione. Me lo immagino, brandire la matita blù e mettere un grosso zero, sottolineato, sul foglio che gli ho consegnato."

Entrò l'insegnante di storia, Rosetta andò al suo banco.

"Vediamo se c'é qualcuno che vuole dirci i motivi per cui Colombo ottenne il finanziamento del suo primo viaggio verso le Indie occidentali."

Tolse i piccoli occhiali di metallo e rimase in attesa.

Mi alzai, mi fece cenno di andare vicino alla cattedra.

"Allora?" Mi chiese.

Parlai a lungo, senza essere mai interrotto. Descrissi la situazione politica ed economica dell'Europa, in quei tempi. Citai le esplorazioni geografiche dell'epoca, i conflitti, le ambizioni, la sete di guadagno, le conquiste sui mari. Sulle acque che inghiottivano uomini e cose, senza pietà. Ricordai che Colombo chiese alla popolazione locale dove fosse giunto, quando approdò alle Azzorre.

Mi ascoltarono tutti con molta attenzione.

Alla fine, il professore mi chiese dove avessi raccolto quelle notizie che non erano contenute nel libro di storia. Gli dissi che quando non andavo a scuola ed era cattivo tempo, passavo molte ore nella Biblioteca comunale.

"Non posso dirti bravo per le tue assenze, per il fatto che preferisci la biblioteca alla scuola, ma posso dirti 'bene', anzi 'benissimo', per la tua esposizione. Va pure a posto."

Rosetta mi tese la mano, quando passai vicino al suo banco.

Il professore vide e scosse la testa, sorridendo.

All'uscita, Rosetta mi disse che teneva dei biglietti per il Santa Lucia. Aveva chiesto al padre di poter invitare anche il suo nuovo compagno di classe. Le aveva risposto sì, ma doveva andarci anche con la sorella minore.

* * *

Io, solitamente, rincasavo in ore abbastanza strane, con la scusa che restavo a studiare in biblioteca. O anche senza scuse. Mai tardi, però.

Quella volta decisi di andare da mio padre, nel suo ufficio. Gli dissi che ero stato invitato al cine, da un compagno, e che di conseguenza sarei tornato a casa più tardi del solito. Chiesi il suo permesso e se, per favore, poteva portare lui, a casa, i pochi libri che avevo con me. Mi rispose che andava tutto bene. I libri dovevo lasciarli sul piccolo tavolo di fronte a lui.

Con Rosetta avevo appuntamento al portone della sua casa.

La sorella, Fiorenza, due anni meno di lei, era carina. Un volto sbarazzino, vivace.

Il Santa Lucia era abbastanza lontano.

Fiorenza propose di andarci a piedi, percorrendo Toledo, così poteva vedere le vetrine. Tanto, anche se ci mettevamo un'ora, non faceva niente. Lei lo aveva detto, alla mamma, che ci voleva tempo per andare, vedere lo spettacolo e tornare. Mise la sorella nel centro, e le strizzò l'occhio quando vide che la presi sottobraccio.

Mi piaceva sentire quel morbido tepore, così intimo.

Prima di giungere a San Ferdinando, c'era una famosa e rinomata pasticceria. Rosetta non voleva entrare, disse che lo avremmo fatto al ritorno, ma Fiorenza osservò che se, poi, avessimo preso l'autobus...

I 'Santarosa' furono squisiti.

Giungemmo al cine poco prima dell'inizio dello spettacolo. Rosetta affermò che lei vedeva meglio da lontano, Fiorenza avrebbe preferito le file a metà sala, ma quando la sorella le sussurrò qualcosa non sollevò più obiezioni.

Rosetta sedette alla mia destra, tra me e Fiorenza.

Appena spensero le luci, ancor prima dell'inizio del documentario, prese la mia mano e vi appoggiò la guancia, con delicata tenerezza, con dolce gentilezza. Sentire le mie dita sul suo volto e farmi percepire il suo calore. Avvicinò le labbra al mio orecchio.

"Lo senti che non sei solo, orso?"

Una dichiarazione, non una domanda.

Le sue labbra mi sfiorarono appena, quasi un bacio. Mi voltai e le nostre bocche s'incontrarono. Le nostre dita s'intrecciarono. Era bellissima, col capo sulla mia spalla, gli 'occhi di cielo' che guardavano lo schermo, senza vederlo. Non mi saziavo d'ammirarla.

'E' meraviglioso, Marcella, ma non dovrebbe esserlo.'

Lacrime silenziose scorrevano sul mio viso.

Rosetta mi guardò, avvicinò le sue labbra ai miei occhi, bevve le mie lacrime, unendole alle sue.

Quando si riaccese la luce, Fiorenza ci guardò con aria provocante:

"Dovete aver riso da matti. Comico, il film, vero?"

Comprai le caramelle. Rosetta ne dette alla sorella.

"Mangia, così terrai la bocca chiusa."

Al ritorno prendemmo l'autobus. Molto affollato.

Ero dietro Rosetta che, per mantenersi in equilibrio, si poggiava su me, quasi fosse senza forze, trasmettendomi deliziosamente i sussulti della vettura. Le bisbiglia nell'orecchio:

"Vorrei che questo viaggio durasse in eterno."

Se abbandonò ancora di più, si fece sentire ancora più vicina. Spostai in avanti la mano che le tenevo sotto l'ascella. Le baciai i capelli.

Al portone, Fiorenza mi salutò raccomandandomi di non ridere troppo e dicendomi che se avessi voluto sapere la trama del film me l'avrebbe raccontata. Corse avanti, per le scale. Entrai con Rosetta. Mi carezzò il viso, mi baciò sulle labbra. Tenne a lungo le sue mani tra le mie.

"Grazie!" Disse, e scappò via.

Mi piaceva stare con Rosetta.

Era bella, dolce, affettuosa, gentile, premurosa. Mi guardava coi suoi grandi 'occhi di cielo' e mi perdevo nell'infinito della loro profondità. Mi sfiorava con l'oro dei suoi capelli, col velluto del suo viso, con l'ardore delle sue labbra. S'abbandonava tra le mie braccia con la tranquilla serenità di chi si sente sicura, protetta.

Un pomeriggio incontrammo mio zio, a Rettifilo, vicino l'università.

"E' Rosetta" -dissi presentandola- "la mia compagna di classe."

La domenica successiva zio venne a trovarci, al paese. Mi prese da parte, come se ci fosse un segreto tra noi, e sorridendo compiaciuto mi disse:

"Bellissima e fine ragazza la tua compagna di classe. Veramente di classe."

Certo non poteva paragonarsi alle 'signorinelle' che venivano dalla zia, con aria annoiata, ostentando la presunzione che fondavano sul loro patrimonio familiare.

* * *

In primavera dovemmo studiare molto. In effetti era Rosetta che studiava molto. Io l'aiutavo nei compiti, le preparavo gli appunti per il 'ripasso', le 'sentivo' le lezioni per l'indomani. Ero spesso a casa sua. Evidentemente, le informazioni raccolte dal padre continuavano a favorirmi. Fiorenza aveva smessa l'aria canzonatoria dei primi tempi. La mamma era gentilissima e consentiva di 'fare un giretto', ma sempre con Fiorenza al seguito. Come quando si andava al cine.

Quel giorno la mamma di Rosetta mi disse che la figlia stava preparandosi, sarebbe venuta tra poco. Ne profittava, disse, per chiedermi qualcosa che avrebbe voluto domandarmi da tempo, ma non lo aveva fatto per tema di urtare la mia suscettibilità. Mi considerava serio ed educato, mi assicurò, e lei credeva di potermi trattare come un proprio figliolo, con sincerità, senza infingimenti. Le sarebbe piaciuto, dunque, sapere perché io, che scrivevo i temi per Rosetta, che le facevo i compiti di matematica, che le rendevo più facile lo studio della altre materie, mi comportavo, a scuola , in un modo che mi faceva rischiare di essere respinto. Cosa mi ripromettevo di fare, in avvenire?

Rimase a guardarmi, in attesa d'una risposta che non credeva di avere. E, invece, le risposi. Serenamente, sinceramente.

Quello che studiavo, quello che facevo, era solo perché mi piaceva farlo, era per me. La scuola non mi interessava. Certo che mi avrebbero respinto, anche se in alcune materie i voti erano ottimi. Nella scuola gli insegnanti si preoccupano solo delle risposte alle interrogazioni, dei compiti in classe, anonimamente, aridamente, non s'interessano degli alunni in quanto esseri umani. Cosa avrei fatto in futuro? Non lo sapevo. Alla peggio, c'erano sempre le forze armate che offrivano l'arruolamento. Non ambivo neppure i gradi. Tutto ciò lo avevo già detto a Rosetta.

"Allora" -disse gelida- "non t'interessa neppure Rosetta."

Era il colpo basso che aveva tenuto in serbo.

Rimasi in silenzio per qualche istante. Speravo che Rosetta venisse a trarmi d'impaccio, ma era evidente che attendeva un segnale della madre, per entrare. Volevo rispondere, perché non credesse d'avermi messo in difficoltà. Ero certamente rosso in viso, più di quanto avessi voluto. Ma riuscii a non modificare il normale tono della voce quando le dissi:

"Rosetta mi ha perfettamente compreso e mi ha accettato così come sono. Lei m'interessa tanto, così com'é. Anzi, null'altro m'interessa, al di fuori di Rosetta. E le sono grato per come mi considera e mi tratta. Se, però, Rosetta ha sbagliato, se non merito la sua cordialità, se la deludo, se vi deludo, se vi spaventa il fatto che io sia respinto, a scuola, scusatemi. Non lo sapevo. Comunque non posso dire cosa farò domani, perché non lo so, perché forse non ho domani, e per me tutto finisce oggi."