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ULISSE
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Mamma comprese il mio stato d'animo. Mi consolò dicendomi che la nostra assenza sarebbe durata solo un paio d'anni, che due anni passano in fretta, che al ritorno sarei stato un vero uomo, a tutti gli effetti. Intanto, mi diceva, avrei fatto un'esperienza preziosa, avrei conosciuto terre nuove dove, volendo, potevo tornare per svolgervi la mia attività professionale, per veder crescere la mia famiglia. Mi fu di aiuto, anche se non mi convinse, perché usai le sue argomentazioni, con Marcella.

"E' come se andassi a fare il servizio militare un po' lontano."

Ma lei scuoteva la testa.

Marcella ed io non facevamo nulla sulla spinta degli impulsi. La nostra intesa era perfetta. Sapevamo sempre cosa volevamo e perché.

Lo decidemmo insieme.

"E' la nostra prima volta" disse Marcella, serenamente, con molta calma- "e non può accadere che tra noi. Lo desidero, sono pronta. Sento che non facciamo nulla di male, perché nulla di male può esserci nell'amore, in quello vero, quello che ci unisce. Non temo niente, né per oggi né per il futuro. Sono cosciente di tutto.

Ho un appoggio preziosissimo, insperato, inimmaginabile, Marisa, mia sorella. C'inviterà a pranzo nella sua villa di Bagnaia, di domenica. Nel pomeriggio andrà a Soriano, col marito, e noi saremo soli.

Non credevo che avrebbe condiviso la mia decisione, che potevo contare sul suo aiuto. Immaginavo che mi avrebbe trattata da 'poco di buono' e mi avrebbe dato anche qualche ceffone. Mi ha abbracciata, mi ha detto che sì, certe cose bisogna farle con chi si ama per non rischiare di doverle subire dalle circostanze. Marisa non ha sposato per amore quel panzone di Amulio."

Al convento di Santa Rosa chiesi una di quelle scatolette argentate che usavano per mettere piccoli pezzetti della tonaca che era stata a contatto col corpo della Santa. Una scatoletta vuota. Mi fu facile averla, con una piccola bugia, anche perché le suorine mi volevano bene. Io avevo fatto tanti piccoli lavori, per loro. Avevo scritto e ciclostilato tante cose.

Quando partii per Addis Abeba, in quel piccolo reliquiario conservavo un minuscolo ciuffo bruno.

IV

La lettera di Marcella fu la prima a giungermi.

Alcune parole erano sbiadite dalle lacrime.

"Se per te sono solo una piccola parte di quello che tu sei per me, puoi comprendere quanto il mio dolore sia simile al tuo. Ricorda che non sei solo, non lo sarai mai. Vorrei esserti vicina, per tentare di dimostrarti quanto e come vorrei riempire il vuoto che ha lasciato in te la perdita della tua adorata mamma. Rabbrividisco nel rileggere la tua descrizione dell'incidente. Ricorda, amore, quando sedevamo vicini, nel banco, il mio primo tentativo di baciarti al tuo ritorno da Roma, il Bulicame. Ricorda Bagnaia, i momenti che attendo ardentemente di rivivere. Stringi sul tuo cuore la scatolina che contiene una piccola parte di quella che é stata e sarà per sempre la tua Marcella."

No, Marcella, non ho più nulla con me, é tutto in fondo al lare, al mar Rosso, anche quella scatolina. Mi resta solo la profonda tristezza del presente, l'incognita del futuro. I miei ricordi sono sbiaditi come se fossero trascorsi secoli, come se l'acqua che col suo scrosciare ha invaso la nave ferita, squarciata, li avesse scoloriti. Devo sforzarmi per rivivere Bagnaia. Mi sembra d'essere ubriaco. Nulla é come prima, e nulla potrà mai più esserlo. Devo curare Mario e Carla. Sì, c'é l'attendente, il personale di colore, ma sono io che li accompagno alla Consolata e poi torno a casa, solo, nel grande autobus vuoto. C'é la notte che non passa mai. Non sogno più. Non so neppure se sono vivo, se quello che mi circonda é reale.

Non scrissi niente di tutto ciò, mi limitai a dirle che tutto sarebbe stato diverso se lei fosse stata con me. Ma era vero?

La scuola che avrei dovuto frequentare non era stata istituita. Ne sari stato l'unico alunno. Dovevo studiare per conto mio e sperare in una speciale sessione d'esami. Ma non avevo libri, Tutto era stato ingoiato dall'acqua. Cercavo d'imparare la lingua locale. Era abbastanza agevole parlarla, ma molto difficile scriverla. Mi aiutavo con una grammatica in caratteri latini.

Il non far niente mi faceva rimuginare continuamente lo stato delle cose. Restavo solo, a casa, con la compagnia di Lebèn e di Finfìn, la coppia nera che cercava di aiutarci nei lavori di casa, e di Ancì, la loro figlia dodicenne.

Finfìn si chiamava così perché, appena nata, la madre l'aveva lavata nelle acque cade di Finfinni.

Leggevo, sul rozzo divano di cuoio sulla veranda, qualche testo scolastico reperito qua e là, qualche libro di narrativa, la grammatica amarica, ma soprattutto le lettere che Marcella mi faceva pervenire due volte la settimana. Mi raccontava dettagliatamente le sue giornate, mi diceva quanto le mancavo. Si soffermava sui particolari perché, diceva, voleva che io vivessi con lei, com'era stato nel passato. A scuola, per la strada, a Bagnaia. Sembrava come se avessimo trascorso insieme tutta la vita. In effetti, da quando avevamo capito di vivere eravamo stati sempre uniti.

Quegli scritti, però, non colmavano la distanza che ci separava: infinita.

Erano voci e pensieri che mi giungevano da un mondo lontanissimo. Mi chiedevo se la città dalla quale partivano quelle lettere esistesse davvero, se vi avessi realmente vissuto, se Marcella fosse realtà o frutto della mia fantasia, interlocutrice inventata per non sprofondare nella più disperata solitudine. E questo mi faceva rispondere, anche lungamente, senza riuscire, però, a dirle quanto intensamente ricambiavo il suo profondo sentimento. Le parlavo della terra dov'ero, della gente che incontravo, dei poverissimi neri che poco o nulla avevano compreso degli avvenimenti in cui s'erano trovati coinvolti, delle loro misere capanne. Ma forse erano felici così, certo più felici di me, che ero senza futuro.

Marcella rispondeva che lei era il mio futuro e io il suo.

Non le avevo detto, certo, il modo col quale Ancì aveva creduto di potermi consolare, vedendomi così triste e avendone saputo il motivo. Era entrata, silenziosa come un gatto d'ebano, nella mia camera, mentre dormivo, aveva fatto cadere lo sciamma sul pavimento e s'era infilata nel mio letto, prufumata di selvaggio, con la pelle di seta, appena uscita dal caldo corso del Finfinni, un cui rivolo scorreva nel nostro giardino. Mi diceva cose che non capivo, forse le stesse che Marcella mi aveva scritto nella sua prima lettera: se ti fossi vicina .....

* * *

Ugo Roberti non riusciva a trovare chi gli disbrigasse il lavoro di segreteria. Il personale locale non conosceva l'italiano e tanto meno la macchina per scrivere. Spedire un telegramma era per loro un'operazione sconosciuta. Far venire dall'Italia elementi di modesto livello impiegatizio era antieconomico. Era la maglia debole nella struttura tecnico-commerciale, dell'industria che forniva la quasi totalità dei mezzi di trasporto all'AOI.

Fui accolto con speranzoso scetticismo poi venni festeggiato come il salvatore. Quell'attività fu la mia droga. Riusciva a farmi dimenticare la realtà, per qualche ora. Ma non mi rese più socievole. Ce la mettevo tutta, ero disponibile e pieno di buona volontà. Il mio tratto fraterno col personale indigeno me ne fece acquistare la loro piena fiducia. Bahalà Debòc, 'Baccalà' per gl Italiani, il capo della maestranza di colore, che parlava un ottimo francese, cercava in ogni modo di dimostrarmi la sua simpatia. Lo stipendio era superiore a quello che in Italia guadagnava un preside. Osservavo un regolare orario d'ufficio.

Un pomeriggio, all'uscita, venni fermato dal proprietario-autista di un autocarro. Era disperato, aveva urgente necessità di una serie di iniettori. In sede gli avevano detto che, anche ordinandoli telegraficamente e facendoli venire per via aerea, ci voleva almeno una settimana per riceverli. Avrebbe perduto lucrosi viaggi, sarebbe stato un grosso danno. Chiedeva il mio aiuto.

Tornai in azienda, cercai Ceccarelli, il capo magazziniere, gli raccontai che un mio parente era fermo per mancanza di iniettori. Mi guardò in modo inquisitorio, ma ressi quell'occhiata indagatrice ed ebbi gli iniettori. Per dar maggior credibilità alla cosa, lo pregai di ordinarne telegraficamente un'altra serie, perché il mio parente aveva più automezzi e desiderava mettersi al sicuro da sorprese. L'indomani avrei pagato, in cassa, quelli che mi aveva dato.

Costantino, il proprietario-autista, m'aspettava, come d'accordo, vicino al caffè Armen. Gli avevo detto che non gli promettevo niente, ma avrei provato ad aiutarlo. Quando mi vide col pesante involucro, sorrise soddisfatto. Mi dette il prezzo di listino degli iniettori, vi aggiunse alcuni Talleri d'argento e mi regalò due bottiglie di 'triple sec'. Portai a casa il liquore. L'indomani pagai gli iniettori. Trattenni i Talleri.

Era iniziato il mio 'terzo mercato' dei ricambi.

La busta dello stipendio passava nelle mani di mio padre, che non mi chiedeva neppure se avessi bisogno di qualche spicciolo.

A Marcella scrissi su carta intestata della ditta. Le dissi di quell'occupazione, gonfiandone l'importanza e anche un po' la retribuzione, e aggiunsi che non avevo ancora deciso se continuare a studiare o dedicarmi totalmente al lavoro.

La risposta non si fece attendere. Per Marcella, io ero nato per lo studio e per un posto almeno da Direttore. Ma come, si chiedeva, ambizioso e presuntuoso com'ero, avrei deciso di non essere più 'comandante'? Possibile una simile trasformazione in così poco tempo? Avevamo scelto insieme la facoltà che avrei dovuto frequentare e la Banca di cui sarei divenuto Direttore per l'AOI. Lo avevo dimenticato? Se questo era il mio modo di mantenere i miei propositi e le mie promesse lei doveva essere veramente preoccupata! Concludeva: "Ti scrivo dalla villa di Marisa, a Bagnaia, ma tu non sei qui con me."

Bahalà s'incaricò di vendere i Talleri a un cambio superiore al corso ufficiale. Li avrebbero acquistati alcuni commercianti del luogo, poiché per loro era difficile procurarseli in banca.

Anche in questo settore cominciò un mercato parallelo.

Dall'ufficio partivano numerose e pesanti raccomandate. Il loro contenuto era della massima importanza, e si temeva che il fattorino di colore potesse perderle prima di arrivare all'ufficio postale. Decisi di andarvi personalmente, era anche una scusa per uscire un po', la mattina. Dal libro dei francobolli prendevo quelli che ritenevo necessari per l'affrancatura, li incollavo sulle buste. All'ufficio postale mi chiedevano una certa differenza, ma le somme indicate sulle ricevute comprendevano anche l'importo dei francobolli da me in precedenza attaccati. In cassa mi rimborsarono quanto indicato dalle ricevute, molto più di quanto avevo effettivamente esborsato.

Fornitura urgente di ricambi, traffico di Talleri, 'differenza' sulla spedizione delle raccomandate, mi consentivano guadagni non del tutto leciti ma consistenti.

Non mi piaceva fumare, ma ostentavo ogni tanto una 'Principe di Piemonte'.

Acquistavo molte cose nella rosticceria fiorentina, e le portavo a casa. Qualche volta mi fermavo al bar, a bere un liquore che penavo per mandar giù.

Mi venne l'idea di mandare delle somme a Marcella.

Alla Banca feci un 'assegno non trasferibile', intestato a lei. Le scrissi che comprendevo come le spese per l'affrancatura dovessero necessariamente comportarle la rinuncia a qualche piccolo capriccio, a qualche divertimento, a qualche giornale. Desideravo farle un modesto dono, qualcosa che le parlasse di me. Non potevo spedire nulla, però, da dove stavo, perché non c'era niente da inviarle. Avrebbe dovuto acquistare lei ciò che le piaceva, mi avrebbe fatto felice, mi sarei sentito vicino a lei.

"Quando ho aperto la raccomandata, dai fogli é caduto l'assegno che hai voluto inviarmi. Sono rimasta perplessa. Dapprima, anche se non ne comprendevo il motivo, mi sono sentita quasi offesa. Poi un nodo di pianto mi ha serrato la gola.

Hai spedito a me, a me tesoro, parte del tuo guadagno. Sono stata invasa da una dolce tenerezza, da un brivido, come se tu mi carezzassi, e più cocente é stato il dolore d'esserti lontana. E' un gesto meraviglioso, che mi fa sentire la tua donna.

Ma sono troppi soldi, però. Se dovessi usarli tutti per i francobolli, significherebbe che non ti vedrei mai più.

Avevo deciso di serbarli, di attendere te e di andare insieme a comprare il dono che vuoi farmi. Poi, ho riletto la lettera. Mi dici che devo comprarmi qualcosa, per farti felice. E io non desidero che renderti felice. Mi scrivi che t'ho donato tutto e tu nulla hai donato a me. Non puoi immaginare, amore mio, la gioia che ho provato nell'offrire a te ciò che mai più, a nessuno, potrò dare. Vorrei sentirti sempre con me, in me. Vorrei essere nella piccola teca che hai con te, che contiene solo qualcosa di me, ma che é tutta me stessa. Quante cose vorrei.

Ancora una volta ho interrogato Marisa, le ho detto quello che hai scritto tu e cosa penso io. Mi ha risposto che devo fare quello che vuoi lui. Siamo andate da Caporossi, l'orefice. Sono stata fortunata: una spilla ovale, un medaglione bellissimo, semplice, elegante, con incisa la facciata di Villa Lante. Dietro vi ho fatto scrivere Bagnaia, e una data.

Marisa ha ritirato la spilla, poi é venuta a casa e ha detto alla mamma che l'aveva comprata per sè ma che, a guardarla bene, non le piaceva troppo e preferiva regalarla alla sua sorellina.

E' sempre con me, giorno e notte.

Mentre dormivo, la spilla s'é aperta e mi ha punto il seno, a sinistra. Una piccola goccia ha arrossato la bianca camicia che indossavo. E' meraviglioso: sei tu che hai fatto gemere quella stilla vermiglia. Non la toglierò più. Ho nascosto la camicia in un luogo sicuro, vicina al mio diario, alle tue lettere."

Al di fuori del lavoro il tempo scorreva, perché ero condannato a vivere.

Erano giunte dall'Italia un paio di ragazze, mie coetanee. Abitavano poco distante dal nostro chalet. Avevano sorelle e fratelli più piccoli, e qualche volta Mario e Carla andavano da loro. Io restavo a casa, sul piccolo divano di cuoio, col piccolo gattopardo che faceva le fusa ai miei piedi, e Ancì, gelosissima di quel gattone selvatico.

Nel taschino della sahariana i soldi aumentavano.

Era logico che quella situazione non potesse durare a lungo. Fu deciso il rimpatrio. Ma dove andare? Dove stabilire i resti di quella che era stata una famiglia?

Proposi di tornare nella città da dove eravamo partiti.

Mio padre scosse la testa. Saremmo stati circondati da ricordi dolorosi, ad ogni passo, senza risolvere il gravissimo problema dovuto alla mancanza della mamma.

Si tornava in Italia. Per il momento saremmo stati ospitati dagli zii, a pochi passi da Napoli. Poi si sarebbe visto cosa fare.

Informai subito Marcella: "Non scrivermi più, torno in Italia, torno da te."

Il telegramma, inatteso, fu aperto da mio padre. "Ti aspetto contando i minuti. Marcella"

"Già" -disse papà- "Marcella, il motivo per cui volevi tornare nella precedente residenza. Capisco, ma non é possibile, almeno per ora. Non so cosa faremo..."

E uscì in giardino respirando profondamente.

* * *

Eravamo partiti dall'Italia con quintali di mobili, masserizie, effetti personali, infiniti oggetti. Tornavamo con qualche valigia semivuota.

Leben scuoteva la testa, sul marciapiede della stazione. Appena il treno, sbuffante, ansimante, cominciò a muoversi, lo inseguì correndo, fino a quando poté, seguito da Ancì col gattopardo al guinzaglio.

Poi il Nuovo Fiore scomparve alla vista.

* * *

Fu come in un film che avanzava a scatti. Il treno, il lungo viaggio. Gibuti e la difficoltà di alloggiare, perché eravamo Italiani. La nave al largo, la risalita del mar Rosso, il Mediterraneo, l'accoglienza dei parenti. I vestiti neri. Per tutti.

Consegnai a mio padre parte dei soldi che avevo da parte. Non mi chiese nulla. Il resto lo divisi in due piccoli gruzzoli, uno sempre in tasca e l'altro in fondo a una valigia. Quest'ultimo fu trovato dalla zia che lo prese, 'per conservarlo' -disse-, pronta a restituirmelo a poco a poco, a mano a mano che mi fosse servito.

Avevo scritto a Marcella che non potevo darle un indirizzo preciso, ci muovevamo in continuazione. Ma sarei andato da lei molto presto.

Appena a Roma, dissi che andavo a salutare i miei vecchi compagni. Non mi rispose nessuno, come se non avessi parlato.

Partii da Termini, la stazione vicina al nostro alloggio, presso parenti.

Scesi a Porta Romana e mi avviai verso Fontana Grande. Poco prima di giungervi, scorsi Giulia che mi veniva incontro. Il volto triste, gli occhi pieni di lacrime. Certo, in quella stagione, a quell'ora, uno tutto vestito di nero, non poteva destare altro sentimento. Non s'era ancora fermata che scoppiò a piangere: "Che disgrazia, che destino infame..." Non riusciva a dire altro.

"E Marcella?" Chiesi.

"Ti aspettava come il deserto attende la pioggia..."

"Mi aspettava?" -interruppi- "Perché, adesso non mi aspetta più?"

Giulia mi guardò cogli occhi sbarrati, gridò:

"Allora non lo sai, non sai nulla, non sai che Marcella é morta. E' morta domenica scorsa!"

Non credetti di aver compreso bene. La fissai in silenzio.

"Si" -seguitò a gridare- "Marcella é morta! affogata! Nel lago!"

Era come se una potente mazzata si fosse abbattuta sulla mia testa. E' così che si uccidono i vitelli.

Andai a sedermi sulle scale della fontana, Giulia venne vicino a me, rimase in piedi, tirava su col naso, si asciugava le lacrime. La voce rotta dai singhiozzi.

"Era andata coi genitori, Marisa, il cognato e altri amici a fare una gita sul lago. Lei voleva restare a casa, perché ti aspettava sempre, ti attendeva da un momento all'altro. Da quando le avevi scritto che saresti venuto non si staccava dalla finestra.

Sul grande barcone, che poteva trasportare tante persone, era stato preparato il pranzo. Avevano deciso di mangiare in barca. Avevano già consumato il pasto e stavano tornando dall'isola. Qualcuno dormiva, qualcun altro canticchiava o giuocava a carte. Nessuno s'era accorto del temporale che stava rapidamente sopraggiungendo. Le acque divennero improvvisamente livide, le onde s'ingrossarono sotto la rabbia delle raffiche impetuose del vento. Marcella se ne stava tutta sola, a prua. La barca ebbe un violento sobbalzo, Marcella perse l'equilibrio, tentò di aggrapparsi all'ancora, ma fu sbalzata fuori. La corda dell'ancora l'avvolse e la trascinò sul fondo. Altri due caddero in acqua ma furono subito soccorsi dalle barca che erano andate in aiuto. Lei é stata ripescata il giorno dopo. Sembrava dormire, bella più che mai. Va a trovare Marisa, vuole vederti."

Mi rialzai, facendo 'sì' con la testa.

Giulia mi prese per mano.

"Andiamo, io e mio fratello ti accompagneremo. Ci porterà lui, con la sua auto."

La seguii come un automa, sempre annuendo col capo.

Lo studio del padre, dove lavorava anche il fratello, era poco distante. Non volli salire. Fabio scese subito. Mi fece sedere accanto a lui, Giulia si mise dietro. In pochi minuti fummo alla villa di Marisa. Ci venne incontro, mi abbracciò stretto, piangendo. Amulio, come al solito, non c'era.

Entrammo in casa, sedemmo intorno al tavolo del tinello.

Il racconto di Marisa fu dettagliato, atroce, con particolari che non avrei mai dimenticato, che vivevo come se fossi presente alla sciagura. Era ancora l'acqua a strapparmi quanto avevo di più caro. L'acqua per la quale era morta mia madre, nella quale la piccola teca, con una minuscola parte di lei, aveva preceduto Marcella.

Volevo scappare, andar via al più presto, per sempre.

No" -disse Marisa- "devi tornare, i miei vogliono vederti, oggi sono a Roma, dal medico, per la mamma. Ma devi tornare. Aspetta un momento."

Si alzò e andò alla scala che conduce al piano superiore.

Tornò do poco. Aveva in mano un fazzoletto orlato con un antico merletto. Mi venne vicino, mi tese il piccolo involto.

ULISSE
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