Aqua

Informazioni sulla Storia
Water, always water.
20.2k parole
5
9.6k
1
0
Storia non ha tag
Condividi questa Storia

Dimensione del Font

Dimensione Carattere Predefinita

Font Spaziatura

Predefinito Font Spaziatura

Font Face

Carattere Predefinito

Tema di Lettura

Tema Predefinito (Bianco)
Devi Login o Registrati per salvare la tua personalizzazione nel tuo profilo Literotica.
BETA PUBBLICA

Nota: puoi modificare la dimensione del carattere, il tipo di carattere e attivare la modalità oscura facendo clic sulla scheda dell'icona "A" nella finestra delle informazioni sulla storia.

Puoi tornare temporaneamente a un'esperienza Literotica® classica durante i nostri beta test pubblici in corso. Si prega di considerare di lasciare un feedback sui problemi riscontrati o suggerire miglioramenti.

Clicca qui
ULISSE
ULISSE
18 Seguaci

Non ricordo con esattezza il mio primo lavoro. Intendo un lavoro per il quale si é pagati, non un lavoretto affidato da genitori o parenti, spesso per giustificare un regalino, per insegnarti a guadagnare, o per tenerti occupato e non farsi infastidire. Mi riferisco a un lavoro vero, retribuito, a tempo o a risultato.

La mia prima attività lavorativa fu a carattere artigiano, inquadrabile nel settore della 'rigenerazione'.

Frequentavo la prima elementare, al 'Vittorino da Feltre', in via delle Carine. Vicino al portone sostavano due vecchietti: uno vendeva castagnaccio, l'altro mostaccioli e bruscolini. Un giovani in bicicletta, invece, portava 'bombe' calde calde e 'maritozzi' appena sfornati.

Il sabato si andava in divisa, Balilla e Piccole Italiane, ma solo dalla terza elementare, perché allora non avevano ancora inventato i Figli della Lupa. All'uscita, accompagnati dalla maestra, Elisabetta Bracatini Assemini, sfilavamo dinanzi al 'gagliardetto' che veniva messo nell'ingresso e tenuto da un alunno grandicello, maschio o femmina, affiancato da altri due, sempre in divisa. Salutavamo romanamente, col braccio teso e la mano aperta, all'altezza dell'occhio destro, le dita unite e il palmo rivolto verso il basso.

Il Direttore, Maroncelli, stava lì, senza muoversi, a sorvegliare che tutto andasse bene, che tutti salutassero, che scendessero in ordine le scale in fondo alla quali erano in attesa le mamme e qualche domestica. Per me c'era Franceschina, che se non mi vedeva subito andava a chiedere al custode:

"Usciò lu signurino mio?"

I banchi di legno, dove sedevamo a due a due, avevano, sul piano, una scanalatura per poggiarvi penne e matite e due fori, in ognuno dei quali era inserito una specie di vasetto, bianco o grigio, di ferro smaltato, il calamaio. Il bidello passava con qualcosa che sembrava un annaffiatoio senza la cipolla e riempiva i calamai con un liquido nerastro e acquoso che spesso 'spandeva' sulla carta del quaderno, specie se avevi comprato quelli a buon mercato.

Quand'era la stagione si riusciva sempre a catturare qualche mosca scampata alla 'guerra' che il Regime aveva loro dichiarato. L'insetto veniva delicatamente privato delle ali e, dopo un bagno nell'inchiostro, deposto sul foglio bianco del quaderno dove realizzava avveniristici ghirigori.

Quando finì il tempo di scrivere con la matita, passammo alla penna. Ve n'erano di tutti i tipi e di svariati prezzi. Alcune erano di legno grezzo, altre lucide, ben verniciate. Anche il posto dove si inseriva il pennino era diverso, a seconda della spesa. Comunque, appena giunti in classe, il rito era sempre lo stesso: prendere la penna dall'astuccio, o svolgerla dalla carta di giornale nella quale era stata conservata, infilarvi il pennino, se già non c'era, bagnare il pennino nell'inchiostro e provarlo.

Anche di pennini v'era una nutrita varietà. I più diffusi erano 'a lancetta', il più elegante e costoso era il 'perry'. Se il pennino, malgrado ripetute prove e relativi asciugamenti nel 'nettapenne', o pezzo di giornale, non scriveva, era indispensabile sostituirlo. Il vecchio pennino veniva buttato o, più spesso, ceduto per un pezzettino di pizza o per una castagna secca, una 'mosciarella'. Pennini usati o guasti erano la materia prima per la mia attività. Luogo dello scambio: la classe o il gabinetto.

A casa li mettevo in una vecchia tazzina rotta e li lavavo accuratamente. Li asciugavo con carta di giornale e, quindi, iniziava l'intervento artigiano. Li osservavo attentamente, con una vecchia lente d'ingrandimento, per accertare la ragione per la quale non scrivevano più. In genere erano 'zoppi', una delle punte era più corta dell'altra; 'aperti' quando le punte erano divaricate; 'gobbi' se avevano le punte ricurve. Il lavoro, quello vero, cominciava adesso. Si trattava di ripristinare la parità delle punte, di riavvicinarle o raddrizzarle, affinché l'inchiostro, scorrendo dal centro, non si fermasse dove una punta era più corta dell'altra o dove iniziavano a divaricarsi o ingobbirsi. Per scrivere, il pennino doveva avere punte della stessa lunghezza, a distanza giusta e non curve.

L'orologiaio che aveva lo sgabuzzino-laboratorio in cortile, m'aveva regalato un pezzetto della moletta smeriglio che gli si era rotta per sbadataggine, e quello era divenuto l'attrezzo principale per limare, un minuscolo martello serviva per raddrizzare, la pinzetta dismessa dall'orologiaio era usata per riavvicinare le punte.

Se al primo collaudo l'inchiostro non scorreva bene, si seguitava fino a che il pennino riprendeva a scrivere sulla carta, senza raspare più. Il prodotto finito, rigenerato, era pronto per la vendita o per il baratto. Si vendeva a un soldo il pennino a lancetta e a due soldi il 'perry'. Meno della metà del nuovo. L'usato era garantito: sarebbe stato cambiato se avesse presentato difetti non dipendenti da incuria o mal uso da parte dell'acquirente. Le controversie fiorivano, ma si concludevano quasi sempre a favore del cliente. Per non perdere il mercato. Era uno dei primi esempi del 'S.U.S.', sistema usato sicuro. Erano accettati baratti con pezzi di pizza, castagnaccio o altro. Il ricavato della vendita per contanti era, in genere, destinato all'acquisto di castagnaccio o farina di castagne, quella che se non stavi attento s'infilava nel naso o ti andava di traverso, nella gola, facendoti tossire così tanto che la maestra se ne preoccupava, fino a quando ne scopriva la causa, e allora ti puniva.

Questa era un'attività 'minore', e quindi riservata ai piccoli.

Alla terza elementare si lasciava la maestra e si veniva affidati a un maestro. Il nostro si chiamava Francesco Sele, abitava in Via Napoleone III.

Contemporaneamente si abbandonava la rigenerazione dei pennini e si cercava un'attività più remunerativa. Non era facile.

Il maestro di violino, Paolo Loquenzi, mi propose di andare a 'girare i fogli' al cinema Nazionale, quello all'angolo dell'omonima Via, all'angolo delle Tre cannelle, dove lui suonava il piano durante le proiezioni, allora mute. In compenso, avrei potuto vedere lo spettacolo, sia pure stando proprio sotto il telone. La cosa durò pochissimo. Non solo non mi interessava, ma erano più le volte che mi distraevo e non voltavo la pagina che non quelle in cui svolgevo con cura il compito affidatomi. E poi, avevo bisogno di soldi, non di film.

Di fronte alla casa in cui abitavo, v'era un meccanico che riparava un po' tutto e gestiva una pompa di benzina. Cominciai a gironzolargli intorno, lo avvertivo quando giungeva un'auto per fare rifornimento, manovravo la pompa, che allora non era elettrica, sia pure con qualche difficoltà. Chiesi di aiutarlo a riparare le gomme di bicicletta. Il sor Cesare mi lasciava fare, anche se diceva che quello non era un lavoro per me, perché io dovevo seguitare gli studi che, forse, potevo diventare perfino ragioniere. Un giorno feci forza su me stesso e, dopo aver finito i compito per l'indomani, restai a casa. Da dietro il vetro della finestra, vedevo il sor Cesare che cercava di dividersi tra auto da riparare, gomme da rappezzare e chi doveva rifornirsi di benzina. Quando tornai da lui, inventai che la mia assenza era dovuta alla necessità di fare qualche soldo per il gelato o per il cinema, così, dissi, ero andato ad aiutare il ciclista di via del Colosseo.

Il sor Cesare sorrise e mi porse una gomma da riparare, dicendomi che qualche soldo me lo avrebbe dato anche lui. Da aggiungere a quanto già mi dava la famiglia, sottolineò. E io misi tutto il mio sapere in quella 'pezza', raschiando alla perfezione e attendendo che il mastice fosse al preciso momento di massima presa.

Il rapporto tra me e il sor Cesare s'era perfezionato.

Studiavo sempre più in fretta e con la massima concentrazione, perché non potevo demeritare, a scuola, in quanto avevo molti 'lodevole' e miravo all'assegnazione di qualche medaglia d'argento in profitto.

A casa non vedevano di buon occhio quel mio attraversare la strada per andare a fare il 'ragazzino del benzinaro'. La più contraria era mia madre. Mi diceva che avrei potuto dedicare il tempo libero alla lettura, a qualche compito a casa di mia iniziativa. Ma non insisteva troppo, perché ero il primo della classe, divoravo libri d'ogni genere e scrivevo, a modo mio, racconti fantastici. Anzi fu proprio questo a suggerire ai miei di farmi 'saltare' la quinta e presentarmi direttamente agli esami d'ammissione al successivo ciclo di studi. Allora non c'era la media unica, e dopo le elementari ci si poteva iscrivere senza esami alle 'complementari' o all'avviamento al lavoro. Per accedere al ginnasio, o agli altri istituti, era richiesto il superamento d'un esame d'ammissione.

La giornata, anzi la settimana, era abbastanza faticosa. Scuola al mattino, subito dopo pranzo compiti e per l'indomani; martedì e giovedì a casa del maestro che mi preparava agli esami d'ammissione; lunedì e mercoledì lezione di violino; studio del violino e per il salto della quinta; lettura di avvincentissimi libri d'avventure; qualche annotazione sullo speciale quaderno che conservavo accuratamente e tenevo ben nascosto e, infine, il lavoro dal sor Cesare. Il sabato pomeriggio dovevo andare 'a dottrina' a San Cosma e Damiano, la domenica mattina c'era 'adunata' all'ONB (opera nazionale balilla) di via Cimara. Un'attività frenetica per chi non aveva ancora dieci anni.

Romolo, il fattorino di mio padre, che mi accompagnò la prima volta all'ONB, mi informò che in via Cimara c'era un 'casino', e mi disse che non si riferiva alla sede dell'opera balilla, ma a una casa, controllata dai medici e sorvegliata dai questurini, dove c'erano donne che 'facevano marchette'. Non aggiunse altro e mi fece giurare che non avrei detto nulla di quella conversazione, altrimenti mio padre l'avrebbe licenziato. Io non ci capii niente, ma tenni fede al giuramento anche perché di mezzo c'erano le guardie.

A casa andai subito a consultare il 'novissimo dizionario della lingua italiana' cercando la parola 'casino', e poiché quello di via Cimara non era certo una 'casa di campagna piccola e graziosa', si doveva trattare di un 'luogo di ritrovo, con sale di lettura e da giuoco'. Di donne non si faceva cenno. Dunque, Romolo aveva inventato tutto. Perciò aveva preteso il silenzio. Il dizionario, del resto, é la massima autorità in materia di significato delle parole. In effetti, io ero stato in una 'piccola e graziosa' casetta di campagna, quella di mia zia, che si chiamava, appunto, il 'Casino de Martino'.

Gli esami furono brillantemente superati, e ne fui superbamente fiero. Non per molto, però, perché mi dispiaceva lasciare i compagni coi quali avevo trascorso quattro anni, quella scuola, il maestro Sele. Non avrei più incontrato, nei corridoi, la maestra Assemini. Della mia classe, solo Martinelli aveva fatto il 'salto', come me, ma avrebbe seguitato in un'altra scuola.

Quando partii per le lunghissime, noiose, penose vacanze, che i miei ostentavano come una brillante affermazione di status, il saluto al sor Cesare ebbe tutto il sapore d'un addio. Il sor Cesare m'abbracciò e mi regalò cinque lire d'argento. Le dovevo considerare un anticipo sul compenso che mi avrebbe dato allorché avrei curato i suoi conti, una volta ragioniere.

"Che t'ho detto" -mi disse- "che saressi diventato raggioniere? lo vedi che vai al Leonardo da Vinci?"

La casa al mare, a metà strada tra la stazione ferroviaria e la spiaggia, per me era uno schifo.

Il piano terreno comprendeva una vasta cucina, con i fornelli a carbone; il lavandino che riceveva acqua dal cassone che stava sulla terrazza; la ghiacciaia, che era uno scatolone di legno foderato di zinco con un rubinetto per far defluire l'acqua dovuta allo sciogliersi del ghiaccio che ogni giorno portava l'uomo col carretto; un grosso tavolo, una credenza che prendeva tutta una parete. L'altro vano era chiamato 'tinello'. C'era un 'buffet' dove stavano posate, piatti, bicchieri, tovaglie ed altro, un lungo tavolo con otto sedie intorno, un tavolino con un portafiori vuoto, un vecchio divano. Nell'angolo, una porticina dava in un gabinetto 'alla turca', con un piccolo lavandino, e un finestrino che s'apriva e chiudeva tirando lo spago legato allo scatto. Una scala interna portava al piano superiore. Qui, sul lungo pianerottolo illuminato dal balcone, s'aprivano le porte di due immense e squallide camere da letto, mobiliate con vecchi, alti e cigolanti letti di ferro, monumentali armadi, alquanto rudimentali, e una specie di comò sovrastato da quello che doveva essere uno specchio. Sempre sul pianerottolo, su un'altra porta c'era, forse per evitare equivoci, una targa bianca, di ferro smaltato, con la scritta, in nero brillante 'WC'. Dentro, oltre al lavandino e alla 'tazza', un lungo tubo attaccato alla parete e terminante con una cipolla bucata, di metallo, veniva pomposamente chiamato 'doccia'. L'acqua della doccia, appena intiepidita dal sole, scorreva verso il centro del pavimento e spariva in una griglia d'ottone che ingoiava tutto. Il bidè portatile, comprato a Roma, completava l'arredamento di quel vano.

La padrona di casa, la vedova dell'avvocato Ripi, abitava l'altra metà della villetta.

Un appartamento come quello che fittava, solo che al posto del tinello v'era lo studio: una vecchia scrivania con poltrona, una libreria, un tavolino con macchina per scrivere, alcune sedie. L'avvocato durante le vacanze riceveva qualche cliente locale e ci teneva a tenere uno studio, sia pure modesto.

Rosa Ripi, da signorina Porfiri, viveva i mesi invernali nella vecchia casa di piazza Mazzini, a Roma, con la sorella, vedova dell'ammiraglio Vigliardi, e una domestica abbastanza anziana. Appena il primo sole di primavera intiepidiva l'aria, le tre donne si trasferivano al mare, e vi restavano fino ad autunno inoltrato, facendosi aiutare da Teresa, una prosperosa ragazza bruna, sempre allegra.La signora Rosa mi voleva bene -ormai era il quinto anno che tornavamo in quella casa- e si complimentò con me per il superamento degli esami.

"Vedrai" -mi disse- "avrai anche tu uno studio come quello del mio povero marito."

Ancora una volta mi condusse nella stanza piena di mobili vecchi e polverosi, lo studio. Ne profittai per chiederle il permesso di scrivere a macchina. Mi sarebbe tanto piaciuto imparare, sia pure senza insegnante, un po' di dattilografia. La macchina mi attirava.

"Puoi venire quando vuoi" -rispose- "senza neppure avvertire. La porta finestra dello studio é aperta sempre, é appena accostata. Entra e lascia socchiusi gli scuri. La macchina é in piena luce, ma se non bastasse vi é un braccio a snodo, uno di quelli stile 'liberty', con una lampada a luce azzurrina, detta 'solare'. La puoi accendere se ti é necessaria. Nei cassetti del tavolino troverai quello che serve: libretto con le spiegazioni, la mascherina e le gomme per cancellare eventuali errori, nastri di ricambio, e tanta carta per scrivere. Puoi adoperare tutto."

Fu l'inizio d'una consuetudine mai più abbandonata, forse d'un vizio, d'una intesa, d'un condizionamento. Era un completamento reciproco: la macchina sarebbe rimasta inerte, senza il tocco delle mie dita; il mio pensiero non sarebbe stato narrato senza i segni di quella macchina.

Era una vecchia Olivetti, col nastro nero e rosso, coi tasti che dovevi pestare con una certa decisione affinché la lettera marcasse il nastro e apparisse sul bianco della carta. Il carrello sussultava ad ogni battuta, ad ogni spazio. Il 'drin' del campanellino avvisava che stavi per giungere al termine del rigo. Cominciai, libretto alla mano, con l'introduzione del foglio, posizionamento, definizione dei margini, uso del tasto 'maiuscolo' e della spaziatrice. Cercai di fissare nella mente la disposizione delle lettere e dei segni d'interpunzione sulla tastiera. Chiudevo gli occhi, e con un dito mi proponevo di toccare un determinato tasto. Provai a lungo, per giorni. Le istruzioni suggerivano di esercitarsi usando almeno sei dita. In effetti, non sono mai riuscito a superare le quattro, e non sempre. Neppure in seguito, con l'ausilio dell'elettronica.

L'inizio fu più impegnativo di quanto immaginassi. Velocità e precisione non andavano d'accordo. Poi, a poco a poco, gli errori di battuta cominciarono a diminuire. La signora Rosa lodava compiaciuta i fogli sui quali avevo copiato pagine e pagine tratte da Ventimila leghe sotto i mari, da I figli del capitano Grant.

La noia di quel soggiorno, specie dei lunghi pomeriggi, andava scomparendo. Quando tutti riposavano, mi ritiravo nella fresca penombra dello studio e mi mettevo a scrivere quello che mi passava per la testa. Lentamente, con molta difficoltà, le righe si riempivano. Era una specie di diario. 'Lunghi giorni d'una villeggiatura senza fine'. Una lettera quotidiana a Giovanni, il mio migliore amico, quello che abitava al piano superiore, il fratello di Luisa, la bambina dai lunghi boccoli neri.

Franceschina, quando aveva finito di rigovernare e mettere tutto a posto, si 'aggiustava la testa', come diceva, e veniva a farmi compagnia. Si metteva dietro di me, guardando incantata i segni che si allineavano sul foglio, li fissava, si abbassava per vederli meglio, come se sapesse leggere. Il suo petto, che sembrava dover esplodere da un momento all'altro dalla camicetta, premeva sulla mia nuca, caldissimo. Nel sentirlo, lo immaginavo pieno di fragrante latte tiepido. E tenevo la testa ben alta, per sentire quel contatto, quel profumo di sapone alla lavanda. Franceschina mi prendeva la testa fra le mani e mi baciava sui capelli dicendo 'ma quanto sì bravo'. Facendo finta di nulla, con aria distratta, voltavo il viso, senza staccarmi da lei, e sentivo sulla guancia il turgore del suo capezzolo.

La macchina per scrivere divenne strumento di lavoro.

Teresa doveva inviare una domanda al Podestà. Le avevano detto che ci voleva un permesso, mi sembra sanitario, per vendere i prodotti della terra. Chiese alla signora Rosa di scriverla lei. Io ero presente e proposi di usare la macchina. Avrebbe fatto più bella figura. Teresa comprò la carta formato bollo, dal tabaccaio. La signora Rosa scrisse la brutta copia, io misi tutto in bella, a macchina. Il giorno dopo Teresa mi informò che al Municipio si erano compiaciuti con lei, e mi regalò due pesche.

La notizia che nello studio del povero avvocato Ripi la signora Rosa scriveva le domande e un ragazzo le batteva a macchina, fece il giro del paese. E cominciò un viavai di persone, tutte con cestini pieni di prodotti del suolo e del pollaio, che chiedevano l'opera della signora Rosa, della sorella, che era stata maestra, e...mia.

I miei avevano visto qualche 'copiato' dai libri d'avventura. Mio padre aveva annuito con la testa, mia madre s'era limitata a stringere le labbra, Franceschina, che stava apparecchiando, non seppe trattenersi dal dire 'siete visto la bravità?' guardandomi con ammirato compiacimento.

Era stato deciso il rientro in sede.

Mio padre avrebbe finito il suo pendolarismo settimanale.

Si tornava a casa. Finalmente.

Il mare aveva avuto ottimi effetti su mio fratello Mario, almeno così sosteneva la mamma. Il piccolo aveva fatto lunghe dormite sulla spiaggia, respirando aria iodata, aveva mangiato con appetito e digerito benissimo, il camminare sulla sabbia aveva rinforzato i muscoli delle sue gambette.

Il grande -ero io- aveva fatto i soliti capricci d'ogni anno: accusando mal di testa e di stomaco per non andare sulla spiaggia, mangiato poco, e aveva detto di essere sempre stanco. Quest'anno, inoltre, s'era aggiunta la 'fissa' della macchina per scrivere, in ciò appoggiato dalla vedova Ripi e strenuamente difeso da Franceschina.

Quella benedetta ragazza, poi, così prosperosa, s'intestardiva a non indossare il reggiseno. Meno male che le poche volte che era stata sulla spiaggia aveva saputo tenere bene a posto le spalline del costume di lana. Un costume nero, d'una misura più piccola del necessario, che sembrava dipinto addosso quando usciva dall'acqua, mostrando un personale che non s'indovinava, certo, sotto le vesti non eleganti della contadinella di Poggio Umbricchio.

ULISSE
ULISSE
18 Seguaci