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ULISSE
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I saluti tra la mamma e me, al piccolo treno azzurro che doveva portarmi nella capitale, davano l'impressione che stessi partendo per un pericoloso fronte di guerra. Baci e abbracci, occhi lustri, e tutto un tirare sù col naso. Non ero al mio primo allontanamento da casa. Ero andato, da solo, a trovare gli zii ad oltre ottocento chilometri di distanza. Ora c'erano anche gli altri compagni, l'ufficiale che ci accompagnava. Ma compresi tutto, e un nodo mi serrò la gola quando la mamma mi disse che, partito anch'io, lei restava completamente sola, per tutto un mese. Avrebbe chiesto alla nonna di venirle a fare compagnia, però non era la stessa cosa.

Marcella era lì, con gli altri. Mamma la chiamò con la mano. Quando fu vicina, le disse:

"Vieni, Marcella, salutiamolo insieme e attenderemo insieme il suo ritorno, vero? Vienimi a trovare, t'aspetto:"

Marcella portò il fazzolettino al naso e assentì con la testa. Mi tese la mano, e restammo così, guardandoci negli occhi, senza parlare.

Letizia arrivò trafelata, proprio nel momento che stavo per salire in vettura. Salutò la mamma, mi baciò sulle guance, con naturalezza. Il treno cominciò a muoversi lentamente. Dal finestrino vedevo la mamma sorridermi, Marcella salutarmi con la mano ma con una strana espressione sul volto infiammato, sentivo Letizia che gridava di mandarle una cartolina, e forse si sarebbe messa a correre a fianco del convoglio se non avesse calzato quelle anacronistiche scarpine nere, col tacco altissimo.

III

Era la seconda domenica che trascorrevo al campo.

Uno degli allievi del corpo di guardia venne a dirmi che mia cugina m'attendeva nella tenda dell'ingresso, dovevo vestirmi per la libera uscita e presentarmi all'ufficiale di picchetto.

Strano, la mia unica cugina che abitava a Roma aveva quattro anni.

Non appena entrai nella tenda, Letizia si precipitò verso di me, abbracciandomi e baciandomi, con esuberanza, dicendo ad alta voce che il suo cuginone stava veramente bene, che dovevamo sbrigarci perché a casa ci attendevano tutti, che suo padre, mio zio, era stato chiamato al Ministero, benché fosse domenica. Per questo non era venuto lui. Era stata sua mamma, mia zia, a telefonare al Comando del corso per ottenere il permesso per me. Fino all'ora del silenzio. Aveva parlato tutto d'un fiato. La guardavo stordito.

"Prima di uscire" -dissi- "devo prendere una cosa nello zaino, torno subito."

L'ufficiale di picchetto mi sollecitò a sbrigarmi. Lui, una cugina così non l'avrebbe lasciata neppure per un istante. Letizia sorrise civettuola.

Andai a prendere i soldi, i miei risparmi, quello che rimaneva dopo aver pagato le scarpine regalatele. Ma non era pochissimo.

La storia che Letizia mi raccontò, mentre andavamo verso il capolinea del tram, aveva del romanzesco. A casa aveva sostenuto di dover incontrare la Direttrice dell'Accademia d'Orvieto che era con alcune allieve allo stadio dei cipressi, alla Farnesina. Il padre, di turno, era bloccato in ufficio. Il fratello era impegnato dallo studio e dal giornale. La madre non ci pensava proprio ad affrontare tutto quel caldo. Lei sarebbe partita col primo treno del mattino e tornata in serata, con quello che arrivava alle dieci e mezzo. Se l'andavano a prendere alla stazione avrebbero saputo subito le novità.

Appena giunta a Roma, dal bar del Piazzale Flaminio aveva telefonato al Comando del Corso, spacciandosi per mia zia. Chiedeva scusa se non era il marito a rivolgere personalmente quella preghiera, ma l'Eccellenza lo aveva convocato al Ministero. Poi, aveva preso il tram fino a Ponte Milvio e aveva fatto la non breve scarpinata, molto lentamente, per non giungere sudata, perché la cosa non avrebbe fatto fine.

Avevamo dieci ore da trascorrere insieme.

No, non le interessava visitare Roma. Era venuta per me, non per Roma. Aveva anche un po' di soldi.

"Sai" -disse- "dal treno ho visto un laghetto tanto carino, poco più di uno stagno, ma con un boschetto verde e tante canne intorno. Poco discosta c'é una casetta con dei tavoli fuori, forse é un'osteria. E' a sole tre fermate da qui, perché non ci andiamo? Questa sera, da quella stessa stazioncina riprenderemo il trenino; io per casa, tu per il campo. Purtoppo..."

Quando giungemmo alla stazione, il treno azzurro stava per partire. Comprammo i biglietti e salimmo sull'ultimo vagone. Era quasi vuoto. Sedetti al suo fianco, vicinissimo a lei, e sentivo il prepotente desiderio di abbracciarla, di baciarla, di toccarla. Le presi la mano e la tenni tra le mie.

"Sei contento di vedermi? che sono venuta a trovarti?"

"Non immaginavo di incontrarti qui, a Roma. Non ti nascondo che lo desideravo tanto ma sapevo di illudermi. Ho pensato che per te non significo nulla, che hai certamente un ragazzo, che alla tua età alcune donne stanno per sposarsi, che sono troppo giovane per te."

"Allora, sono vecchia?" -disse maliziosamente- "Ti senti a disagio ad andare con una vecchia?"

Divenne seria.

"La differenza di età che ci divide" -continuò- "non é evidente. Ma anche se si nota, a me non interessa, non sento di dovermi rimproverare perché ti amo, perché é così ti amo! Nei miei pensieri e nei miei desideri ci sei tu e solamente tu. Vorrei tanto essere in quei paesi, che molti considerano incivili, dove potremmo già vivere insieme, per conto nostro. L'unico mio incubo é il timore di esserti indifferente. Quanto é accaduto tra noi, per me ha segnato la scoperta della vita. Si, alla mia età c'é chi si sposa, e anche chi é già madre, per questo il mio amore per te non é una sentimento superficiale, una 'questione da ragazzini', ma é qualcosa di molto serio e importante, di maturo, di essenziale. E' la ragione della mia vita.

Se ho sbagliato, dimmelo per favore. E quando arriveremo alla stazione del laghetto io non scenderò con te, proseguirò fino a casa."

La mia presunzione di avere una mente adulta si dimostrava infondata. Non riuscivo a intendere completamente quel discorso. Quelle parole mi facevano capire quanto fossi impreparato ad ascoltarle. (O avevo paura di comprenderle?) Non leggevo romanzi sentimentali, non conoscevo il linguaggio giusto, cosa avrei dovuto rispondere per dirle quello che avrei voluto farle sapere. Ma quella, indubbiamente, era la 'donna' che mi faceva sentire 'uomo', che mi aveva trasformato senza che me ne accorgessi.

Anche mamma aveva detto che ero l'uomo di casa.

Forse non c'é un'età per divenire uomo, per comportarsi da uomo.

Mi immaginai unito a Letizia, per sempre, in un paese lontano. Non ero stupito, e ancor meno spaventato.

Forse, però, sarebbe stato più bello se al posto di Letizia ci fosse stata Marcella.

Letizia avrebbe scacciato Marcella dai miei pensieri?

Marcella non mi aveva mai parlato così. Del resto, come avrebbe potuto fare, Marcellina. Ogni nostro timido accenno al futuro, al nostro futuro, si riferiva a tempi che sarebbero giunti tra tanti anni. Letizia parlava del presente, di oggi. Era qui, era venuta per me.

Di fronte a noi non sedeva nessuno. Le poggiai la mano sul grembo caldo.

"Stiamo per giungere al laghetto" -disse- "prepariamoci."

* * *

L'osteria era abbastanza affollata, ma sul retro, dalla parte della cucina, c'era ancora un tavolo libero. La padrona fece cenno di sederci là, sarebbe venuta subito.

"Allora, belli giovani" -disse allegramente- "cosa ve porto? Li giovani devono da magnà, vero? E voi lo sete giovani, caspita! Ce so' le fettuccine ar sugo e er pollo allo spiedo, vinello fresco e gazosa ar ghiaccio. Ve va bene?"

Non attese risposta e s'allontanò verso la cucina.

Avevo tolto la giubba, sperando di sembrare più vecchio.

Letizia sedette dando le spalle alla cucina e disse di mettermi di fronte, perché voleva vedermi sullo sfondo della campagna, dove alte canne si muovevano appena prima degli alberi frondosi.

Mi tornò alla mente la scena di un film: lui e lei, poco più che adolescenti, in campagna, cercavano d'appartarsi, di sfuggire gli altri, per dirsi il loro amore. Questa volta, però, il protagonista ero io.

Letizia allungò la mano, attraverso il tavolo, e l'appoggiò sulla mia.

"T'amo e ti voglio bene."

La guardai interrogandola con gli occhi.

"Ti amo come una donna ama il suo uomo, ti voglio bene come la mamma vuole bene a suo figlio."

Feci di sì con la testa, ma c'era qualcosa che non capivo bene.

* * *

Il pranzo fu ottimo e abbondante, ed ebbe l'accoglienza di due giovani, sani e robusti, che avevano trascorso diverse ore dal precedente pasto.

Volli pagare io, assolutamente, e dovetti risentirmi dire che ero il tipico 'maschio prepotente'.

"Andiamo verso il lago. E' bello. C'é aria, vedi come si muovono le foglie degli alberi, come ondeggiano le canne."

Era piena di luce, negli occhi. Mi prese per mano e s'avviò verso il viottolo che conduceva al laghetto.

Le canne lambivano l'acqua e giungevano fin dove iniziava il boschetto. La vicinanza dell'acqua consentiva all'erba d'essere verde brillante. Gli alberi ombreggiavano il terreno. Il silenzio era percorso dal lieve bisbigliare delle foglie e dal discreto sussurrare delle canne.

Stesi sull'erba la mia giubba. Letizia mi guardò con gli occhi socchiusi. Vi si sedette sopra e mi fece cenno, con la mano, di mettermi accanto a lei. Si sdraiò e poggiò la testa sulle mie gambe. Si sollevò strofinandosi la guancia.

"E' ruvido, pizzica."

Prese dalla borsa un piccolo foulard bianco e azzurro, lo aggiustò sui miei pantaloni. Tornò a posarvi il volto, guardandomi con un leggero sorriso. La carezzai lievemente, le passai le dita sulle labbra. Prese la mia mano, baciò le dita, le mordicchiò, le tenne pressate sulla bocca, e s'addormentò. Così.

L'alzataccia per dover prendere il primo treno, la lunga camminata per giungere al campo e tornare al capolinea del tram, la stanchezza, il pranzo, il vinello fresco e invitante...

Il volto era sereno, esprimeva rilassata contentezza, il seno s'alzava ritmicamente in un respiro regolare e profondo.

Non fu facile ritirare, piano, senza farla svegliare, la mano che tenevo vicino alle sue labbra, e ancor fu più difficile alzare il foulard dove poggiava il viso e deporlo lentamente sulla giubba. Si mosse appena, portò un pollice in bocca e continuò a dormire.

Pensai di andare sulla riva del laghetto, ma poi decisi di rimanerle vicino. Mi sdraiai accanto a lei, avvicinai il viso ai suoi capelli, le poggiai la mano sul seno...

Non so quanto tempo dormii. Quando mi svegliai Letizia dormiva ancora. S'era rannicchiata tra le mie braccia. Sotto la sua testa la mia camicia era bagnata di sudore, come la sua blusa, sul seno, dove le mie dita sentivano il turgore del capezzolo.

In quel momento si svegliò. mi guardò teneramente.

"Abbiamo dormito insieme, é il mio sogno di sempre."

Si mise su me e prese a baciarmi il volto. Piccoli baci, rapidi, sulla fronte, sugli occhi, sulla bocca, sul collo. Sentivo il suo peso, il suo calore, il suo muoversi, il suo carezzarmi con tutto il corpo, sempre più freneticamente, quasi con violenza. E restò così, col respiro affannoso. Poi scivolò, piano, al mio fianco. Il sangue pulsava nelle mie tempie, ero eccitato come non m'era accaduto mai, neppure nei miei sogni erotici.

"Vieni vicino a me" -sussurrò- "ti sento, amore, e ti voglio anch'io. Ma per ora non si può. Vieni qui, mettilo tra le mie gambe. Sta attento, però, a.... 'non andare oltre', anche se lo desidero tanto. Non dobbiamo, per adesso. Ma... se... non sei d'accordo... sono pronta a fare quello che tu vuoi."

Fu una cosa bellissima, che mi travolse, e fu arduo non perdere il controllo. Strinsi i denti, tremando, per 'non andare oltre'. Le mie dita si aggrapparono ai suoi capelli, la mia lingua cercò la sua.

Quando giacqui supino, lei prese il piccolo foulard e lo strinse tra le gambe.

"Qui ci sei tu, amore." -disse con voce affannata- "Lo porterò sempre con me."

* * *

Il ritorno a casa, dopo il corso, fu quasi un trionfo.

Vennero ad attenderci alla stazione, parenti, amici, un reparto della GIL. E tutti insieme andammo a festeggiare i gradi d'oro che luccicavano sul berretto alpino, alla Casa del Fascio.

Mamma mi salutò, "Ciao, comandante", e mi serrò forte al suo cuore. Marcella abbozzò un impacciato abbraccio, rossa in viso, sfiorandomi il volto con le sue labbra di fuoco. Le cinsi la vita e la strinsi a me.

Non vidi Letizia, ma non domandai nulla.

La GIL mi regalò dieci biglietti per Lo Stabilimento termale e per l'autobus.

Riuscimmo ad organizzare una gita. Marcella e un'amica convinsero i genitori a dar loro il permesso di andare alle Terme insieme alla professoressa di educazione fisica. In effetti, l'insegnante vi andava quasi tutti i giorni, a istruire sul nuoto, e trovò naturale 'dare un'occhiata alle ragazze', tanto raccomandatele dalle mamme.

Quando Marcella apparve sull'uscio dello spogliatoio, non fui il solo ad ammirarla, a restarne colpito, a seguirla con lo sguardo, ma fui il solo ad essere felice, perché veniva verso me, sorridente, radiosa, col suo andare morbido e flessuoso.

Anche Giulia era bella, ma non quanto la mia Marcella, il cui splendore non traspariva in tutta la sua meravigliosa essenza dagli abiti d'ogni giorno.

Era diversa da Letizia, Marcella, meno aggressiva, meno violenta, meno spettacolare, meno popolare. Era bellissima, elegante, raffinata in ogni suo gesto, classica, statuaria, aristocratica. Eppure così passionale.

"Sei più bella di Venere." Le sussurrai.

Mi sorrise e spalancò gli occhi, per dirmi che era felice di piacermi.

Andai a prendere tre coni-gelato. Li gustammo in silenzio, sul bordo della piscina da dove si levava forte l'odore dello zolfo.

"A proposito" -disse Giulia, fissandomi- "sai che Letizia é stata quasi per morire, a causa del tifo? Non te l'ha detto Marcella?"

Seguitai a mangiare il gelato, senza apparente emozione.

"No, non glielo ho detto." Intervenne freddamente Marcella.

"Adesso, come sta?" Chiesi.

Giulia, notando la mia indifferenza, aggiunse, acida, che 'quella' aveva sette spiriti come i gatti e che da un momento all'altra sarebbe tornata in circolazione.

Rimasi a guardare l'acqua azzurrognola e calda.

Letizia era stata 'per morire'. Quel corpo splendido, palpitante, pieno di vita, di slanci, di passione, che fremeva alle mie carezze, dunque 'poteva morire'. Un pensiero che non m'aveva mai sfiorato. Quel seno meraviglioso, che ammiravo affascinato, che vedevo sollevarsi nel ritmare del suo respiro, poteva restare inerte. Il battere tumultuoso del suo cuore, che avevo percepito con le mia dita, poteva arrestarsi, per sempre. Ero sgomento. E questo poteva accadere anche a Marcella, anche a me. Tutto poteva scomparire, ogni persona, ogni cosa che ci circondava. Per sempre. O, mio dio, poteva accadere. Finire tutto, irreversibilmente.

Presi la mano di Marcella, la strinsi forte. Mi sorrise, dolcissima.

Cosa avevi fatto, Giulia! Mi avevi costretto a pensare, per la prima volta, che anche i giovani possono morire. Ma mi avevi anche spiegato l'essenza del carpe diem.

"Noi andiamo a bagnare i piedi nel ruscello."

Lo avevo detto a Giulia, senza guardarla. Mi alzai dal bordo, sempre tenendo per mano Marcella e mi avviai verso il varco della siepe.

Giulia alzò la testa.

"Se, per caso, viene Letizia, posso dirle dove siete?"

Marcella rispose prima di me: "Certo, mandala da noi."

Il ruscello d'acqua calda era dietro l'edificio principale. In alcuni tratti era contenuto da un muretto di tufo, dove sedemmo lasciando che l'acqua ci sfiorasse i piedi. Misi un braccio intorno alla vita di Marcella e lei appoggiò il capo sulla mia spalla.

'Come dal Bulicame esce ruscello....', cominciò a declamare, ma si fermò di colpo.

"Noi non moriremo, vero?" Mi chiese stringendosi a me.

V'era una nota di paura nella sua voce. Una domanda che non attendeva risposta o, forse, voleva l'unica risposta impossibile.

La baciai sugli occhi.

"Tocca a tutti, Marcella, ma a noi capiterà quando saremo tanto vecchi e dopo aver vissuto pienamente la nostra vita, insieme."

Alzò le spalle, come a volersi rifugiare tra le mie braccia per sentirsi protetta. Aveva gli occhi pieni di pianto.

"Io voglio morire prima di te." Disse, e scosse la testa come a scacciare qualcosa che la turbava.

Le nostre bocche s'incontrarono. Un bacio lungo, appassionato e tenero, spontaneo, come se lo avessimo fatto sempre. Ed era la prima volta.

* * *

Tutto cambiò, da quel giorno.

Letizia era il proibito che si poneva al di fuori della regola. Non dovevo parlarne con nessuno, specie con la mamma. La sognavo, rivivevo il suo voluttuoso sbiancarsi nel volto mentre mi copriva di baci, avvinghiata a me. Rivedevo la sua mano stringere al grembo il piccolo foulard e poi portarlo alle labbra.

Marcella era l'ordine. La mamma mi aveva dato il permesso di invitarla a casa, qualche volta, per ripassare le materie, in vista della riapertura della scuola. Lei raccontava di me, ai suoi, del suo compagno di classe, il più bravo, di ottima famiglia, educato, che era anche Capocenturia... E non l'avrebbe smessa se la madre non l'avesse interrotta, con un sorriso, dicendole che aveva capito tutto perché, ormai, io ero l'unico oggetto della conversazione della figlia.

Marcella, però, non la sognavo mai.

Avevo cercato Letizia, feci in modo di incontrarla. Era smagrita, con grandi occhi nel volto pallido, i capelli non più simili alla seta, i vestiti larghi. 'Carioca' non doveva sforzarsi per accogliere quanto conteneva. Sarebbe andata da una zia suora, in un convento ai confini con la Svizzera, dove avrebbe trascorso un periodo di convalescenza. L'Accademia, almeno per l'anno in corso, era sfumata.

"Tornerò presto, amore" -sussurrò con un sorriso triste- "e andremo ancora sulla riva del laghetto, su quell'erba verde. Ti amo da morire, e ho temuto di morire perché non ti avrei più rivisto. Ti penserò continuamente. Guarirò per te, per noi."

Frugò discretamente nella blusa.

"Guarda, ti ho sempre con me."

E mi mostrò il piccolo foulard bianco e azzurro.

Senza curarsi dei passanti, mi sfiorò le labbra con le sue. Aride.

"Povera Letizia!" -disse Marcella, apprendendo che doveva rinunciare all'Accademia- "speriamo che riacquisti presto la salute, l'allegria di sempre, e che quando tornerà smetta di farfalleggiare e trovi un bravo ragazzo. Lei, ormai, é più in età di marito, che di Accademia."

Aprì il libro alla pagina dov'era l'esercizio da fare per l'indomani. L'anno scolastico era cominciato.

* * *

Pochi giorni dopo arrivò una voluminosa lettera da mio padre. Mia madre la lesse e rilesse, felice in volto ma piangendo. Pagine coperte da una grafia che, a quanto potevo sbirciare, diveniva sempre più irregolare, Mi porse la prima pagina, le altre le piegò accuratamente e le serbò nella scollatura del vestito.

La scorsi velocemente, saltando qualche parola, tornai a leggere con la massima attenzione. Restai bloccato, paralizzato, da un pensiero: 'Marcella'. E altri mille m'assalirono, confusi, contraddittori.

Prima della fine dell'anno avremmo raggiunto mio padre. La famiglia si ricomponeva. L'uomo e la donna si riunivano, ubi Gaius ibi Gaia, e con loro i loro figli. Un ricongiungimento biblico, quasi un esodo per noi, andavamo in una terra ricca di promesse.

Avrei lasciato la scuola, i compagni.

Avrei lasciato Marcella.

Un nuovo Paese, nuove genti.

Avrei vissuto coi miei genitori, con tutti e due. Era per questo che s'erano sposati, per vivere insieme, avere dei figli, formare una famiglia. Lo avevamo letto nell'ora di religione: l'uomo e la donna avrebbero lasciato padre e madre per vivere insieme la loro vita.

Come l'avrei detto a Marcella?

Fu il primo dei drammi della mia vita.

"Vado ad Addis Abeba" -scrissi a Letizia- "e posso portare con me solo dei ricordi. Neppure un foulard."

Non riuscii a versare una lacrima, né ad asciugare quelle di Marcella.

ULISSE
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