Aqua

BETA PUBBLICA

Nota: puoi modificare la dimensione del carattere, il tipo di carattere e attivare la modalità oscura facendo clic sulla scheda dell'icona "A" nella finestra delle informazioni sulla storia.

Puoi tornare temporaneamente a un'esperienza Literotica® classica durante i nostri beta test pubblici in corso. Si prega di considerare di lasciare un feedback sui problemi riscontrati o suggerire miglioramenti.

Clicca qui
ULISSE
ULISSE
18 Seguaci

La generosa scollatura della blusetta, ora, poneva in evidenza il contrasto tra il bianco della pelle non esposta al sole e la tintarella . Quando era presente papà, le occhiatacce della mamma ottenevano una maggiore abbottonatura, ma anche significative alzate di spalle. Per fortuna, io ero ancora 'piccolo', specie per la mamma, e lo spettacolo non mi era sottratto. Tanto, pensava la mamma, non mi avrebbe certo turbato. In ogni caso, le tette di Franceschina erano veramente belle, e attraenti. Spesso, quando non andavo in spiaggia cogli altri, il mio mal di stomaco si calmava quando Franceschina mi prendeva in braccio e mi teneva con la testa sul suo seno. Mi cullava lentamente, cantandomi una dolce nenia del suo paese.

Domani si parte.

"A casa" -disse mio padre- "troverete una macchina per scrivere ultimo modello. Dobbiamo sganciarci dalla copisteria. Dovremo imparare ad usarla. Tu" -proseguì rivolgendosi a me- "mostrerai alla mamma e a me come fare per cavarcela e intanto, se ne sei capace, inizierai a copiare qualche lettera dalle minute che scriveremo."

E così cominciai a collaborare nell'azienda familiare.

Era il secondo lavoro di mio padre. Mia madre provvedeva ad inviare gli ordinativi alla fabbrica produttrice e ad evadere le richieste dei clienti. Mio padre curava i contatti con fornitori e clienti, e seguiva la parte amministrativa. Romolo era addetto alla ricezione e consegna della merce. Franceschina pensava a tenere in ordine la casa. Per un certo periodo di tempo ci fu anche una vecchia cuoca, Linda, che si vantava di illustri esperienze culinarie, certamente offuscate dal tempo se si giudicava da quello che realizzava per noi.

Poiché per il mio lavoro a macchina non c'era 'corrispettivo economico', dovetti ricorrere agli appunti scolastici, fatti in più copie con la carta carbone, per raggranellare qualcosa. Ma questo fu solo all'inizio dell'anno scolastico. Quando divenimmo amici non potei pretendere compensi dai compagni di classe. Attraversai un lungo periodo di difficoltà economiche. Per guadagnare, fui costretto ad andare, di nascosto, e non troppo spesso, a tagliare la legna dolce che serviva ad avviare l'accensione, presso un grande vapoforno poco distante da casa. La Parrocchia, inoltre, m'incaricò di vendere i biglietti per lo spettacolo cinematografico domenicale. Una lira a biglietto e un biglietto gratis ogni dieci venduti. Solo che sul 'biglietto-compenso' c'era scritto omaggio, e io non riuscivo a venderlo, neppure con lo sconto.

Poi, per ragioni che non seppi mai, forse per la crisi del settore, l'attività commerciale dei miei genitori cessò. Cambiammo città. Mia madre riprese l'insegnamento.

Io rimasi... disoccupato.

II

Non eravamo da molto tempo nella nuova residenza, quando lessi, su un giornale del nord, che un notissimo calzaturificio cercava persone ben introdotte in ambienti seri e solventi, per affidare loro la vendita, anche a rate, dei loro prodotti. Scrissi, logicamente a macchina, a nome di mio padre, e dissi che l'ambiente in cui era introdotto (aggiunsi autorevolmente) era una struttura statale con giurisdizione sull'intera provincia, e spiegai che si poteva far conto su una valida organizzazione affiancatrice: il Dopoloavoro di categoria.

La risposta giunse in pochi giorni. La lettera era, logicamente, indirizzata a mio padre, ed io me l'ero fatta dare dal postino che avevo sempre atteso ansiosamente. Prima di consegnare la busta a mio padre, gli feci leggere quanto avevo scritto... a suo nome. La 'nota ditta' era interessata e si dichiarava disposta all'invio di un buon numero di 'campioni vendibili'. Specificava prezzi, condizioni di vendita, modalità di rateazione, compenso. Il solo onere a nostro carico sarebbe stato quello riferito allo spazio che avrebbe occupato la merce in magazzino.

Accettammo tutto, e dopo quindici giorni, una domenica mattina, nei locali del Dopolavoro presentammo delle ottime calzature, solide, eleganti, a prezzi veramente convenienti. Sconto tre per cento per pagamento in contanti, o rateazione in sei mesi, con impegno scritto e autorizzazione all'amministrazione di appartenenza di saldare le rate eventualmente insolute, trattenendole sullo stipendio. Forse questa autorizzazione non era del tutto regolare, ma serviva certamente come deterrente. Un impiegato non avrebbe voluto far sapere ai superiori di essere moroso per aver acquistato scarpe di un certo livello qualitativo. Tutta la merce fu venduta in poche ore, e si raccolsero anche molte prenotazioni.

La mia attività riprendeva, e questa volta con precisi accordi familiari. Io mi sarei interessato di tutto, sotto la guida della mamma, e avrei avuto una piccola parte del guadagno da poter spendere liberamente.

Alle scarpe, presto, si affiancarono le stoffe, e poco dopo anche articoli di Murano, da variopinte collane a splendidi lampadari. Ma di questi ultimi se ne vendettero pochi. Fu un periodo florido, per me.

Ho dimenticato di dire che, intanto, la famiglia era cresciuta di numero, perché era nata Carla.

Gli anni trascorrevano.

A scuola andava tutto bene, e io ero sempre abbastanza ambizioso.

Una certa esteriore spigliatezza non faceva trasparire una profonda e triste timidezza venata di presunzione.

Frequentai il corso per Caposquadra degli Avanguardisti, fui brillantemente promosso, ma non partecipai alla festa in occasione della consegna dei gradi, che andai a ritirare successivamente, perché mia madre non volle darmi i soldi della quota e io non intendevo intaccare il mio piccolo gruzzolo.

Andavo molto d'accordo coi miei compagni di classe, con Alberto, Armando, Renzo, Radio, ma soprattutto con le compagne, Ada, Giulia, Marcella, Vera. Per loro ero uno che veniva dalla capitale, in più ero sempre disposto ad aiutarle, a far copiare i compiti. Marcella sedeva nel mio stesso banco, e spesso dimenticava a casa qualche libro o non aveva fatto un compito. Allora, per leggere nello stesso volume o per copiare più agevolmente, s'accostava a me -i banchi avevano un unico lungo sedile- e distrattamente premeva la sua coscia contro la mia. Quel contatto tiepido mi ricordava Franceschina. Chissà cosa faceva a Poggio Umbricchio.

Nella Biblioteca comunale, nello stesso edificio del Dopolavoro, avevo trovato un libro che parlava diffusamente della città. Conteneva una pianta dettagliata e in fondo, in appendice, un breve riassunto ricordava i luoghi principali legandoli agli eventi storici e statistici più importanti. Il riassunto era in Italiano, Francese, Inglese, Tedesco. Ebbi il libro in prestito. Al Dopolavoro presi alcune matrici del ciclostile e mi feci prestare il liquido correttore. A casa mi misi a copiare a macchina quei riassunti, sulle matrici. Ci vollero lunghe ore, specie per le lingue straniere, per cercare le lettere non comprese nell'alfabeto italiano, le dieresi, la cediglia, e per non fare errori. Ogni tanto mia madre veniva a vedere cosa facevo e scuoteva la testa. Su un foglio di carta vergatina copiai accuratamente la pianta della città, nelle sue linee generali, indicando luoghi e monumenti importanti. Ma era ancora lontano da quello che avrei voluto realizzare. Ne parlai con Marcella, molto brava in disegno. Mi disse che anche i disegni potevano riprodursi a ciclostile, usando, sulla matrice, una penna speciale, quella che serviva per le firme. Era necessaria, però, l'apposita tavoletta sulla quale poggiare la matrice. Don Alceste ne aveva una della grandezza desiderata. Decidemmo di incontrarci all'Oratorio, il pomeriggio. Sapendo dove andavamo, le famiglie non si sarebbero opposte.

Don Alceste, che curava tante belle e utili pubblicazioni, anche per ragazzi, ci ascoltò con molta attenzione. In effetti, gli esponemmo solo il programma culturale, non quello economico. Si dichiarò disposto ad aiutarci, mettendo a nostra disposizione, senza alcuna spesa, matrici, penne incisorie, tavolette, inchiostro, carta, ciclostile. Marcella copiò la pianta in modo perfetto.

Dopo una settimana avevamo la 'Guida della Città', in quattro lingue, in fascicoletti separati, Sulla copertina era scritto: 'a cura di M.& P.'

Don Alceste si congratulò con noi. Herr Professor Draken disse che era un lavoro ben fatto e gradì anche la copia in Inglese. Mademoiselle Amalie sgranò i suoi occhioni bizzarri e, sorridendo, disse che noi formavamo 'une couple formidable'. I compagni indagavano sugli 'altri rapporti' che, oltre a quelli societari, intercorrevano tra me e Marcella. Le compagne mi chiedevano cosa mai trovassi di interessante in quella smorfiosetta, e si offrirono per altre e ancor più interessanti iniziative.

Ogni domenica, Marcella ed io giravamo per i luoghi turisticamente più importanti, con una cartella di copie ciclostilate, offrendole ai visitatori ai quali chiedevamo un'offerta libera. Furono tanto generosi che potemmo regalare a Don Alceste una intera scatola di matrici, senza incidere troppo sugli incassi.

In autunno, dopo la raccolta delle olive, Quirino ed io ci mettemmo in giro per i frantoi, armati di bottigliette. Chiedevamo un 'assaggio' da sottoporre ai nostri genitori che avrebbero dovuto acquistare la provvista d'olio per l'intero anno. Il capo frantoio riempiva la boccetta e raccomandava di assaggiare l'olio su una bruschetta calda di pane sciapo. Dovevamo subirci la descrizione delle qualità di quell'olio, le ragioni per cui dovevamo preferirlo, perché il prezzo era uguale per tutti, sette lire al 'boccale', due litri. Noi trasferimmo gli assaggi in una bottiglia da litro e ci illudemmo di poterne riempire molte, da vendere ai genitori, sia pure a prezzi concorrenziali. La 'campagna assaggi', però, fu umiliante, faticosa, e fruttò pochissimo. Un'esperienza da non ripetere.

* * *

Il padre di Letizia era un quasi collega di mio padre, un po' più vecchio di lui, e si radeva una parte dei capelli per mostrare una fronte alta, segno d'intelligenza. Anche il Duce, del resto, aveva la fronte alta.

La moglie assumeva pose da fatalona, sgranava occhioni trasognati e sbatteva ostentatamente le ciglia. Fumava in lunghissimi e sottili bocchini.

Il figlio frequentava il secondo anno d'università. Un tipo molto sconclusionato, girava tutto solo per la strada, a passo svelto e sempre con un giornale sotto braccio. Credo che fosse tutte le volte lo stesso.

Letizia, diplomatasi maestra quell'anno, aspirava all'Accademia d'Educazione Fisica.

Suo padre aveva il volto sempre stanco e preoccupato. Viveva di straordinari e di piccoli prestiti. La famiglia lo prosciugava.

Letizia era molto bella, prosperosa, con lunghi capelli neri, ben curati. Per me era una 'grande', aveva quasi diciotto anni. Mi richiamava alla mente le tette di Franceschina.

Quel giorno sembrò incontrarmi per caso, mi fermò tutta allegra, con la sua solita esuberanza che mi metteva a disagio. Di solito m'abbracciava, mi schioccava un forte bacio sulla guancia, non importava dove stavamo e chi fosse presente, e mi chiamava il suo Rodolfo Valentino.

"Senti Rodolfo" -mi disse- "io so che quando tuo padre é assente sei tu che hai le chiavi della stanza dove sono le scarpe. Perché non me ne fai provare un paio molto elegante? Andiamoci subito."

E mi prese per un braccio, avviandosi.

Non era possibile, non avevo la chiave con me, dovevo tornare a casa per il pranzo.

"Va bene" -aggiunse- "verrò oggi, alle quattro, al Dopolavoro. Adesso ti accompagno per un tratto, faccio la stessa strada."

All'angolo della via dove abitavo, mi dette un bacione più forte e sonoro del solito, e s'allontanò con quel suo modo di camminare per il quale l'avevo soprannominata, ma non lo sapeva, la 'pantera nera'. (Renzo insisteva che più che pantera, era una topona nera.)

Le quattro del pomeriggio, in quel mese faceva caldo, non era un'ora normale per uscire senza valido motivo. Dissi alla mamma che avevo preso un appuntamento al Dopolavoro, per le scarpe. Mi raccomandò di non rientrare tardi. Non le specificai che si trattava di Letizia perché le era fortemente antipatica e mi ripeteva che era un tipo da evitare.

Letizia era già in attesa, nella penombra del grande portone. Indossava camicetta bianca e gonna azzurro scuro. Ai piedi, sandali bianchi. Salimmo le scale. La porta del Dopolavoro era ancora chiusa, ma io avevo le chiavi. Entrammo. Era molto scuro, quasi non ci si vedeva. Andammo verso la stanza dov'erano le scarpe, aprii la porta e mi diressi a spalancare i vetri della finestra, lasciando socchiuse le persiane. L'odore del pellame era quasi piacevole. Letizia sedette sul divano verde, presso la finestra.

"Allora" -disse- "cosa c'é di molto elegante?"

Presi alcune scatole e le misi per terra, vicino a lei.

"Fammene provare qualcuna, ma ci vorrebbe un po' di talco per far entrare il piede nella scarpa. Fa caldo, sono sudatissima."

Sbottonò la blusa bianca, mostrando il reggiseno, che copriva poco o nulla. Si accorse che la stavo guardando.

"E' un modello carioca, molto alla moda. Ti piace?"

Si alzò, aprì completamente la camicetta, piroettò su sé stessa.

Era più bella di Franceschina. Glielo dissi.

"Sei bellissima..."

"Ma io parlo del reggiseno, Valentino..."

"E non chiamarmi Valentino, non chiamarmi mai più così, io ho il mio nome..."

Lo avevo detto in tono serio, deciso. Mi guardò sorpresa, si avvicinò a me, mi prese la testa tra le mani e mi baciò sulle labbra, forte, a lungo.

"Sei proprio un maschio prepotente. Come piace a me."

In silenzio, cercai il barattolo del borotalco. Lei era tornata a sedere sul divano. Mi avvicinai per porgerle il talco, ma mi fece segno di sedermi sul divano, al suo fianco. Poi tolse i sandali, si girò un po' e poggiò il piede nudo sulle mie gambe, guardandomi fisso negli occhi. Misi un po' di polvere nella mano e la passai piano, sotto le dita del piede, sulla pianta. Ebbe un brivido.

"Mi fai il solletico."

La sua voce non era la solita. Non era squillante, allegra, quasi canzonatoria.

Presi una scarpa, nera, elegante, col tacco alto, leggera. L'aiutai a calzarla.

"Anche l'altra, per favore."

Chiese con voce bassa, roca, e mise l'altro piede sulla mia gamba, facendolo scivolare come una carezza.

Presi ancora il talco e questa volta passai la mano anche sul dorso, tra le piccole dita, sorreggendo alta la gamba. Salii verso la caviglia. Quasi a controllare che tutto fosse in ordine, alzai il suo piedino all'altezza dei miei occhi. La gonna le si sollevò quasi del tutto, scorgevo le mutandine, bianche come il reggiseno. Letizia non mi sembrava più una 'grande', era tutto nuovo e diverso. Lasciava fare senza dire nulla. Si teneva con ambo le mani aggrappata al divano, forse temendo di scivolare. Le faci calzare anche l'altra scarpa, sempre tenendo ben in alto la sua gamba e guardando il merletto delle mutandine.

Mi venne in mente di dirle una cattiveria. Almeno così credevo.

"E' un modello carioca anche quella?"

E indicai sotto la gonna alzata.

Fece un cenno affermativo con la testa, senza dire nulla.

Si alzò e andò al grande specchio per vedere come le stavano le scarpe.

"Mi stanno bene, vero?"

Cercava di essere normale, cordiale, ma aveva perduto la sua spavalderia.

Ero rimasto sul divano. In effetti le scarpe sembravano disegnate per lei, glielo dissi. Mi guardò con un lieve sorriso sulle labbra. Venne verso me, lentamente, mettendo un piede innanzi l'altro, come in una sfilata di mode. Quando mi fu di fronte, alzò la gonna e si mise sulle mie gambe, a cavalcioni. Era qualcosa che non avevo mai provato prima, neppure immaginato. Quel calore, quel profumo, quel seno... Avvicinò le sue labbra alle mie, sentii le sua lingua penetrare nella mia bocca, cercare la mia lingua, carezzarla. Non sapevo bene cosa stessi facendo, mi accorsi che con una mano le stringevo il seno e con l'altra salivo lungo le sue gambe, scostavo le mutandine, sentivo il palpitare d'un batuffolo di seta che si schiudeva accogliendomi in un meraviglioso tepore...

S'alzò di scatto.

"Basta, non possiamo, non dobbiamo, non l'ho mai fatto... Non immaginavo di poter mai... Basta!"

Riabbottonò la blusa, si chinò a baciarmi ancora. Fece scorrere le sue dita su di me, incontrò la mia eccitazione, mi strinse forte, fino a farmi male.

"Basta, andiamo via."

"E le scarpe?"

"Non posso prenderle, non ho i soldi per pagarle, sono troppo care per me. Mio padre non di darà la somma necessaria. Andiamo via,"

Questa volta fui io a sfiorarle le labbra che si dischiusero, golose, assetate, a stringere il seno con la mano, a carezzare il suo meraviglioso corpo, a soffermarmi tra le sue gambe. Fui io a stringere, lì, sentendola palpitare.

Presi le scarpe e le incartai in un foglio che era sul tavolo.

"Prendile, sono tue, te le regalo."

Regalo! Strani nomi si danno a certi gesti.

Da quel giorno, le mie amiche, le ragazze che abitavano nel mio stesso edificio, le vidi in una luce completamente diversa. Luciana, occhi di gatto, con le treccine, era una bella fanciulla bionda, con un personalino niente male. Liliana era veramente splendida, occhioni neri, profondi, meravigliosi, capelli corvini. Le scuse per andarla a trovare, al piano di sopra, aumentarono vorticosamente. E Lydia, anche lei una 'grande', non m'incuteva più soggezione, anzi! La salutavo con ostentata confidenza, quasi con superiorità, sbirciandole le tette.

Né m'ero mai accorto quanto era bella mia madre. Quanto le donava la tenue tristezza che le abbelliva il volto. Mio padre era stato costretto, per servizio, ad andare molto lontano.

Improvvisamente sentii di volerle un bene immenso, di comprendere le sue preoccupazioni, la sua pena per essere così divisa e distante dal suo sposo, con sulle fragili spalle la responsabilità dell'insegnamento, della casa, dei figli. Le sarei stato più vicino, le avrei dimostrato quale e quanto affetto aveva per lei il suo figlio maggiore. Per la prima volta mi sentivo orgoglioso di avere quella mamma. Quando rientrò dalla riunione della GIL, dove s'era parlato delle colonie estive, le corsi incontro, abbracciandola forte, baciandola con profonda tenerezza. Mi strinse al suo cuore, mi prese sottobraccio, s'incamminò lungo il corridoio dicendo, con dolcezza: "L'uomo della casa!"

Mi preparavo per andare a Roma, al corso per 'Capo Centuria'. Un mese in tenda. Lezioni teoriche ed esercitazioni pratiche. Avrei avuto un moschetto, vero, di quelli con baionetta ribaltabile. Avrei sparato, con pallottole vere. Avrei conseguito il grado che m'avrebbe posto al comando d'un reparto d'Avanguardisti, durante le adunate.

Detti alla notizia la massima diffusione e mi mostravo indaffarato per i preparativi che, in sostanza, si riducevano a mettere nello zaino un po' di biancheria, il maglione grigioverde e la tenuta da ginnastica.

Marcella era orgogliosa e nello stesso tempo dispiaciuta. Il suo compagno era stato scelto per quel corso, sarebbe tornato coi gradi d'oro, ma doveva restarle lontano per tutto un mese.

Marcella era imprevedibile, passava dalla dolcezza tenerissima all'acredine astiosa. Era stranamente generosa. A qualcuno avrebbe dato tutto quello che aveva, ad altri nulla, neanche ciò che per lei era superfluo. Era possessiva, voleva sapere tutto di tutti. A me domandava non solo cosa avessi fatto, dove fossi andato, perché, con chi, ma anche cosa stessi pensando. Aveva sempre da chiedermi qualcosa, sia pure una semplice informazione, specie se stavo parlando con un'altra ragazza. Io non dovevo preoccuparmi di passare gli appunti alle altre compagne, ci avrebbe pensato lei, ma poi dimenticava sempre il quaderno a casa. Facevamo lunghe chiacchierate e, con la complicità di qualche sua amica, riuscivamo a stare un po' vicini su una pachina di Pratogiardino, una di quelle nascoste dalle siepi. Qualche volta riuscivamo a sedere vicini al cinema. Era bella Marcella, e su di lei avrebbe fatto uno sconvolgente effetto la parure carioca.

ULISSE
ULISSE
18 Seguaci