Ca' De Do'

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ULISSE
ULISSE
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M'accorsi d'essere in ginocchio, sul tappeto, col volto tra le sue gambe.

Mi passò la mano tra i capelli. Mi strinse forte a sé. Mi prese il volto tra le mani, dolcemente, si chinò su di me e mi baciò delicatamente, chiudendo gli occhi. Poi mi guardò. Col gesto che ormai conoscevo mi fece cenno di sederle accanto.

Mi sussurrò nell'orecchio:

- E' il mio corpo, Giorgio. Hai visto?

Prese il lobo del mio orecchio tra le labbra e cominciò a sfiorarlo lentamente con la lingua. Mi passò un braccio dietro la schiena. Con l'altra mano cominciò a sbottonarmi i pantaloni. Mi fissava. Le narici dilatate. La voce bassa, gutturale, affannata...

- Adesso io devo conoscere te.

Insinuò le sue dita affusolate nei pantaloni, nell'apertura delle mutandine, afferrò il mio sesso che balzò fuori, irrompente, in tutta la sua spasmodica erezione.

Sempre guardandomi, sgranò gli occhi, interrogandomi con lo sguardo, sorpresa, poi si volse a ciò che teneva ben stretto nella mano, come temendo che potesse sfuggirle.

- Madona benedeta cossa ti gà. Xelo maestoso, imenso! Blistav! Golem! Bajan!

Si chinò coprendolo coi capelli, lo pose sul palmo di una mano e con l'altra lo carezzò lentamente. Lo strinse, serrando le labbra. Si chinò ancora. Lo baciò a lungo.

- Che beo, che spetacolo, che incanto, xe il re, e mi go' la so' regina, da kralj... da kraljica...

Si alzò con fare incantato. Si avvolse nella vestaglia e si avviò alla porta. Si voltò.

- Sutra, div... sutra... domani

E uscì.

* * *

Avevo fatto scorrere l'acqua fredda sul collo, sul volto, sui polsi. Avevo bevuto a piccoli sorsi. Scuotevo la testa, come a volervi scacciare qualcosa che stava sopra, dentro. Sedetti sul bordo della vasca e mi asciugai lentamente.

Stava passando.

Erano stati momenti terribili.

M'ero alzato dal letto per fermarla, per afferrarla, per fare qualcosa pur non sapendo cosa e come. Mi sentivo travolto da un gorgo al quale non riuscivo a salvarmi. Non sapevo nuotare!

Avevo preso l'asciugamano ed ero corso nel bagno.

L'acqua fredda aveva un po' spento quel violento bruciare dei sensi che stava divorandomi.

Dovevo scappare da quella casa. Mi avevano accolto per farne il loro zimbello. L'indomani sarei andato via.

Quando uscii dal bagno per tornare nella mia camera, la signora Katia era in cucina. Non avevo sentito che era rientrata. Avevo la testa sotto l'acqua.

Venne sull'uscio e mi rivolse uno smagliante sorriso.

- Buona sera, eccomi di ritorno. Quando vado da mia sorella si fa sempre un po' tardi.

Mi scrutò da capo a piedi. In effetti ero vestito in modo strano. Stivali, pantaloni sbottonati, camicia aperta sul petto, capelli bagnati, spettinati.

- Scusate -bofonchiai- non sapevo che eravate tornata, non vi ho sentito. Ho mal di testa e sento che non riuscirò a dormire.

Mi venne incontro. Mise la mano sulla fronte.

- Siete fresco, non avete febbre. Volete un bicchiere di latte, una camomilla?

- No, grazie, mi servirebbe un sonnifero.

- Quando si è soli serve spesso un sonnifero, a chi lo dite! Andate a letto, vi porterò una pillola e un bicchiere di latte tiepido. Andate, sembrate sconvolto.

E rimase ad assicurarsi che tornassi in camera.

Entrai in camera. Sfilai gli stivali Mi spogliai, indossai il pigiama, misi la camicia sulla spalliera della sedia, sulla giubba, il resto lo appesi all’attaccapanni. Sedetti vicino al tavolino nella attesa della signora Katia.

Un lieve bussare alla porta e, senza attendere risposta, entrò recando un piccolo vassoio con un bicchiere di latte e un piattino sul quale era una grossa pillola bianca. Mise tutto sul tavolino.

La voce bassissima, quasi inudibile, con quel suo tono roco e caldo.

- Parliamo piano, potremmo svegliare Roberto. Dovete mettervi a letto, adesso. L'effetto sarà più rapido. Ma alla vostra età e col vostro fisico non dovete ricorrere alle pillole per dormire. Su, mettetevi a letto, vi aiuto.

Osservò il letto alquanto disfatto. La coperta di cotone raccolta a piedi, il lenzuolo con i segni lasciati da qualcuno che vi si era seduto.

- Vi eravate sdraiato vestito?

- Si.

- Adesso metto in ordine.

Con le mani distese bene il lenzuolo, riportò la coperta a posto, l'aprì.

- Ecco, venite.

La seguii come un automa.

Sedetti sul letto. Lei si chinò, mi mise un cuscino dietro le spalle, aggiustò la coperta.

Prese il vassoio dal tavolo e lo portò sul comodino. Mi porse la pillola e il bicchiere. Sedette sul letto.

- Ecco, za uspavljivanje, per dormire.

Ai bambini si canta la ninna nanna... uspavanka... uspavanka...

A voce bassissima canticchiava.

Deglutii la pillola, bevvi il latte addolcito col miele. Restituii il bicchiere, che rimise sul vassoio.

La ringraziai.

Seguitava a canticchiare.

Si accostò a me, mi prese tra le braccia, col capo sul suo seno e cominciò a cullarmi.

- Uspavanka... uspavanka...

D'un tratto, sobbalzò come se uscisse da un sogno.

Sciolse quell'abbraccio, si alzò, rassettò il vestito, mi fissò a lungo negli occhi, intensamente, con un sorriso dolce, bellissimo.

- Scusate... scusate. Buona notte.

Le tesi la mano.

Vi abbandonò la sua sempre fissandomi. La portai alle mie labbra e la baciai delicatamente.

- Grazie ancora, siete gentilissima.

- Sono io che vi ringrazio -rispose, con gli occhi lucidi- non potete immaginare quanto sia felice che voi siate qui. Grazie, grazie ancora.

Si chinò su me, sfiorò le mia bocca con un bacio che non riuscì a nascondere il tremore delle sue labbra, e si avviò alla porta.

Si voltò di nuovo.

Chiuse la porta, piano.

* * *

Nel sogno qualcosa mi sfiorava il volto.

Una carezza leggera, insistente, affettuosa, appassionata, e una voce sussurrava: "Giorgio... Giorgio...".

Una voce nuova e nel contempo conosciuta.

Incalzante. "Giorgio... Giorgio...".

La carezza si soffermò sulle labbra, si allontanò, tornò ancora, ma diversa. Adesso era un fuoco che le lambiva, si insinuava, le dischiudeva, passava tra i denti, cercava la lingua...

Aprii lentamente gli occhi.

La signora Katia allontanò il suo volto dal mio.

- Tenente... è ora di svegliarsi. Ho portato il caffè, dopo la pillola di ieri sera ci vuole...

Mi porse la tazzina.

Indossava la vestaglia blu, la treccia sciolta, i capelli, lunghissimi, sulle spalle, fino a coprirle i fianchi.

Balzai a sedere, guardai la sveglia sul comodino. Non l'avevo sentita. Era già passata l'ora nella quale normalmente mi alzavo. La pillola aveva fatto effetto.

- Grazie signora Katia, ma come mi allontanate con quel "Tenente". Ve l'ho detto, mi chiamo Giorgio.

- Non fino a quando io sarò la "signora" Katia.

Allontanarvi, poi! E' la sola cosa che non farei mai. Anzi!

- Va bene, Katia, vi ringrazio. E adesso devo fare in fretta per non essere in ritardo.

- Grazie Giorgio, così va bene. Ho scaldato l'acqua per il bagno. Cinque minuti non vi faranno far tardi. Alzatevi. Mi sono permessa di tenere in caldo un accappatoio. E' nuovo, non lo ha mai indossato nessuno. Bevete il caffè, alzatevi, venite.

Sapete che anche Iela ha mal di capo? Nessuno può comprenderla più di me.

E non se ne andava. Anzi, scoprì il letto e s'abbassò a infilarmi le pantofole. Mi prese per le mani e mi tirò su.

- Andiamo, altrimenti farete tardi davvero.

Mi condusse per mano fino al bagno. Aprì i rubinetti e fece scendere l'acqua. Sullo sgabello accanto alla vasca mise spugna e sapone, sul tubo dello scaldabagno un bianco accappatoio, un lenzuolino, un asciugamani. Per terra un tappetino.

- Io vado a prepararvi una robusta colazione.

Non avevo troppo tempo. Una veloce insaponata, una sciacquata ed ero appena uscito dalla vasca, grondante, quando la porta si socchiuse.

- Posso esservi utile?

Restò sull'uscio, a guardarmi, con una mano sulla bocca socchiusa. Sorpresa, meravigliata, ammirata, compiaciuta.

- Bog moj, mio Dio.

Non si decideva a richiudere, ad andarsene.

Indossai il caldo accappatoio.

Entrò, prese l'asciugamano, cominciò a strofinarmi i capelli.

- Attento a non prendere freddo, pulcino bello, krasan pilence. Torna in camera, andiamo.

Mi parlava col tu.

Mi sospinse fuori, aprì la porta della mia camera, mi fece entrare, entrò anche lei, chiuse la porta.

Riprese ad asciugarmi la testa, poi gettò l'asciugamano sulla sedia, adesso passava le mani sull'accappatoio, sulla schiena, giù sui fianchi.

- Seduto, che asciugo le gambe.

Mi spinse sulla sedia. Si inginocchiò e prese ad asciugare i piedi, i polpacci.

La vestaglia si muoveva, s'apriva sul petto, mostrava il seno sodo e bello.

Le sue mani salivano sulle cosce, tornavano giù, salivano ancora. Non più col vigore di prima, ed avevano abbandonato l’asciugamano. Mi guardava con occhi splendenti, con labbra e nari frementi.

- Spetta che prendo il talco.

Si alzò agilmente, uscì dalla camera e vi tornò, dopo pochi istanti, con un barattolo di talco.

- Sul letto, presto.

Ubbidii senza parlare.

Sparse il talco sulle gambe, sui piedi. Cominciò a massaggiare, anzi a sfiorare, piedi e gambe. Sollevò l'accappatoio e salì ai quadricipiti. Quelle dita mi eccitavano. Non volevo, ma era così. Non c'era da meravigliarsi pensando alla sera precedente. Cercai di porre fine a tutto ciò, ma senza mostrare scortesia verso tanta premura. Le sorrisi.

- Grazie. Ora devo proprio alzarmi, per non far tardi.

Le sue mani salirono ancora, lentamente, fino a incontrare la mia evidente eccitazione, indugiarono lievi, poi, molto lentamente, uscirono dall'accappatoio.

- Si, devo finire di preparare la colazione. Vado.

Tornò in cucina.

IV

A metà mattino chiesi al capitano il permesso di allontanarmi per una mezz'ora.

In piazza v'era un negozio che appariva ben fornito. Avevo deciso di acquistare una vestaglia da camera.

Già, nella casa delle vestaglie forse ero io l'unico a non averne.

Quando entrai mi venne incontro, gentilissima, una signora, non giovanissima ma molto piacente, elegante.

- Buon giorno. Cosa comanda, sior tenente?

- Buon giorno. Vorrei una vestaglia da camera, per me.

La donna si voltò verso il fondo del negozio, dove una tenda nascondeva il retrobottega.

- Lenka, vien qua, c'è da servire un signore. Vestaglie per uomo.

Rivolgendosi a me, sorridendo:

- Viene subito. Accomodatevi pure.

- Grazie, preferisco restare in piedi.

Dalla tenda uscì una ragazza, forse non ancora ventenne, con un grazioso vestitino a fiori, le braccia scoperte. Abbastanza alta, con un personale che dava certamente dei punti alle modelle. Era più "vero", più proporzionato. Portava delle grosse scatole che mise sul bancone. Volto allegro, sorridente. Mi guardò.

- Eccomi. Buon giorno. Spero che vi sia quello che cercate.

Mi ero avvicinato al bancone.

- Buon giorno. Vorrei qualcosa di non troppo pesante, ma adatta anche per quando farà fresco. Un colore non vistoso.

Apriva i coperchi delle scatole a mano a mano che le andava allineando sul piano di legno.

- Ecco, è tutto qui.

Le chiesi consiglio.

- Voi con quale mi vedreste meglio?

Ammiccò maliziosamente, si sporse verso di me, sussurrò:

- Con nessuna... Voglio dire che tutte vi starebbero bene, ma senza stareste meglio.

- Grazie, signorina, ma...

- Sono Lenka. Lenka e basta. Avete sentito come mi ha chiamato la mamma? Chiamatemi Lenka.

- Grazie, Lenka. Io sono Giorgio...

- Lo so, il tenente Giorgio Santin, che abita alla "Ca' Do'", in casa di Iela e della sua mamma, la Katia, che, poarete, le xe lontane dai so' omini. Vero?

- Tutto vero, siete informatissima. Ma lo dite con un certo tono!

- Naturale, io sono sempre un po' invidiosa!

- E di che?

- Via, tenente Santin...

- Sono Giorgio, ve l'ho detto.

-Via, Giorgio, è una grazia del cielo, di questi tempi, avere in casa un ufficiale, e se è come voi la grazia è doppia.

- Quale grazia?

- Ma siete proprio così o sapete recitare bene? La casa e le donne hanno un uomo, sono protette, hanno quello che loro mancava da tempo, e forse di più. Scusate se mi sono permessa queste chiacchiere, questo pettegolezzo.

Comunque, per tornare alla vestaglia, io vi vedrei bene con questa. Prima che... ve la togliate.

E tornò a sorridere.

- Benissimo. La prendo. Pago subito e manderò l'attendente perché me la porti a casa.

Pagai. E mi avviai per uscire.

- Grazie e arrivederci.

La mamma salutò.

Lenka mi raggiunse sulla porta.

- Arrivederci, spero. Io sono sempre libera, quando voglio, specie il pomeriggio, la sera. Mi piace passeggiare e andare al cinema. A casa ho una bella collezione di dischi. Sapete, mi viziano, sono figlia unica. Mio padre è sempre alle prese con la sua farmacia e per non avere noi tra i piedi ha aperto questo negozio e lo ha affidato a noi. Abitiamo nella villetta, Villa Lenka, sul viale della stazione, dopo il bivio. Arrivederci?

- Certo, Lenka, e presto.

Salutai e mi avviai verso il Comando.

Il pomeriggio sarei stato libero, perché l'indomani m'aspettava la pattuglia.

* * *

Quando rientrai, dopo la mensa, la casa era silenziosissima, sembrava disabitata. Solo la porta della cucina era aperta. Iela, seduta vicino al tavolo, come mi vide s'alzò. Un sorriso aperto, gioioso. Mi venne incontro. Con le mani dietro la schiena, si levò appena sulla punta dei piedi e strofinò le sue labbra sulle mie, lambendole, nel contempo, con la punta della lingua. Mi guardò con aria di sfida per vedere la mia reazione. Cominciai a sfilarmi i guanti. Mi prese sottobraccio.

- Vieni, hanno portato la tua vestaglia, è bellissima. Voglio vedere come ti sta.

- Ma io non ho detto ancora nulla all'attendente.

- Infatti, l'ha portata Lenka. Ha detto che si trovava di passaggio. Chissà dove andava, non me lo ha detto. Lei abita dall'altra parte del paese. Lo sai che hai fatto colpo su di lei? Mi ha detto che vi rivedrete, è vero? Perché, ti piace? Sai, era nella classe dopo la mia. Bellina, certo, ma smorfiosa. E accaparratrice. Peccato che le sue arie, e non so come possa giustificarle, non la rendano molto attraente e socievole. Vero?

Eravamo entrati nella mia camera.

La vestaglia era dispiegata, sul letto.

- Allora -dissi- vediamo di ricapitolare.

Assunsi un tono scanzonato.

- Ho piacere di aver fatto colpo su di lei. Forse ci rivedremo, ma dipende da tante cose. Non potrebbe non piacere, è una bella ragazza. A me non sembra smorfiosa né che si dia delle arie. Con me non lo ha fatto, ma forse è la sua tattica... accaparratrice. Come hai detto tu. Spero di aver risposto a tutto. Soddisfatta?

Iela mi guardò aggressiva. Era restata sottobraccio a me. Passò con forza le sue unghie sulla mia mano.

- Hai deciso di cominciare da lei? Ma non sai che io graffio?

- Si, ma anch'io posso graffiare.

- Lo so bene, ma io ti taglierò sempre le unghie, e tanto, così non te ne rimarranno per... le altre.

Su, prova la vestaglia.

Mi aiutò a togliere cinturone e giubba.

- Via anche il resto. Non vorrai indossare la vestaglia restando con gli stivaloni. Aspetta che prendo il cavastivali.

Lo prese, lo mise vicino ai miei piedi, attese che togliessi gli stivali, mi face calzare le pantofole che aveva preparato.

- Forza, restano pantaloni, cravatta e camicia.

La guardai indeciso.

- Forza bello che te conosso, so' ben come ti xe, ostrega se lo so! Mi son sta a sanjati de ti tutta la notte.

- Sanjati?!

- Si, sognare. Ma non mi piace che io sogni e gli altri godano la realtà. Capìo? Razumjeti? Capire?

Mi strinsi nelle spalle. Forse temevo che quello che capivo non era vero. O forse, in effetti, non capivo.

Ero in mutandine e maglietta. Mi porse la vestaglia e mi aiutò a indossarla. Annodò elegantemente la cinta. Arretrò d'un passo.

- Sei una visione! No, sei una realtà. Io sono qui, e tu sei qui. Io ti tocco, ti bacio...ti voglio.

Mi gettò le braccia al collo, andava baciandomi avidamente, sulle labbra, sugli occhi. Si stringeva a me. Aderiva a me, come una ventosa, col ventre, sollevandosi sulla punta dei piedi, sentiva il mio eccitamento, se ne compiaceva, lo stimolava.

- Non ti sono insensibile. Lo sento. Ho spostato l'armadio. Tu chiuditi dentro, questa sera, verrò a trovarti. Sarà qualcosa che non dimenticherai mai, mai. Devo andare. Non voglio sciupare tutto adesso. Aspettami. Capito?

Mi lasciò nel momento che qualcuno stava rientrando.

Era Katia.

Iela aveva lasciato la porta aperta.

- Come mai in casa così presto? E che bella vestaglia. Elegante. Sta benissimo.

- Grazie, sono di riposo prima di un servizio esterno.

- Pericoloso?

- No, solo delle scartoffie da consegnare fuori paese.

- Lontano?

- Non molto.

- Io faccio il caffè. Lo prendiamo insieme?

- Volentieri.

- Allora, mi cambio in un momento e lo servirò nel soggiorno. Questa mattina l'ho pulito a fondo. Si sta bene. Vedrete. Anzi, aspettatemi lì.

- D'accordo, mi cambio anch'io.

- No, restate così, siete elegantissimo. Sarà più intimo... volevo dire più familiare.

- Obbedisco.

Andò nella sua camera. Di fronte.

Uscii nel corridoio. La porta di Iela era chiusa. Proseguii, entrai nel soggiorno. Ampio, due luminosi balconi. A un lato, un tavolo quadrato con delle sedie e un mobile con oggetti d'argento. Dall'altra parte, un divano, nell’angolo un tavolino, due poltrone. Andai ad affacciarmi al balcone, quello che, girando intorno, andava fino alla cucina. A sinistra il balcone più largo, quello del salone comune, dove ero entrato il primo giorno. Sotto, la piazza basolata, il grosso portone tra due colonne.

Katia non tardò a entrare, col caffè.

- Ci sediamo sul divano. E' comodo, potremo poggiare le tazzine sul tavolino.

Aveva un vestito celeste, di taglio diritto, con una generosa e piacevole scollatura che mostrava il dorato chiarore del seno. Il vestito la snelliva, e faceva indovinare la morbida curva dei fianchi. I lunghissimi capelli quasi l'avvolgevano.

- Bel vestito. Nuovo?

- Grazie, è solo una cosina fatta da me, e non è nuova. Io, però, le mie cose le conservo bene, per cui sembrano sempre nuove. Sediamo.

Eravamo sul divano, Katia alla mia destra. Prese la tazzina, vi mise mezzo cucchiaino di zucchero, lo girò, me la porse.

- E' così che vi piace, vero?

Guardavo, interessato, nella sua scollatura.

- Si, mi piace cosi.

Poggiò la schiena sul divano e accavallò le gambe. Gli ultimi bottoni del vestito non erano nelle asole.

- Mi comporto stranamente, vero Giorgio?

Al tentativo d'un mio gesto, di una mia parola, proseguì:

- Certo, posso sembrare strana. Per un giovane, poi, posso essere ridicola. Una baba che agisce così! Per questo desidero parlare con voi, anzi con te. Ti annoio? Puoi, vuoi ascoltarmi?

Annuii con la testa.

- Grazie. Ti parlerò come mai ho parlato. Neppure col confessore. A lui dicevo i miei poveri, piccoli, ridicoli peccati, che spesso non ascoltava, mi assolveva, mi benediva, e mi lasciava come prima, peggio di prima.

Non voglio la tua pietà. No, soprattutto non voglio né pietà né compassione.

Spero solo che quando ti avrò detto tutto, tu possa comprendere, anche se non giustificare, il perché non sempre appaio controllata. In effetti è così, spesso non lo sono.

Vedi, io attendevo molto dalla vita, speravo che la coppia fosse il congiungersi di due corsi d'acqua, l'unirsi di due correnti per formare un unico fluire verso la foce in una unione che non avrebbe più tenute distinte le caratteristiche di ciascuno.

Non è stato così. Dario si è rivelato solo un greto arido, abbandonato. Anzi, neppure abbandonato, perché mai acqua, né limpida né torbida, ha lambito le sue pietre restate aguzze, le sue rive che non hanno mai conosciuto vegetazione. In lui vi sono solo idee maniacali, integraliste, egoistiche, indiscutibili. Il suo agire è scandito solo dai suoi tempi, irrispettosi degli altri. La sua è totale povertà di sentimenti, che lui chiama bontà, comprensione per il prossimo. E’ acidità che tenta di contrabbandare per dolcezza. Non ha mai dimostrato amore, affetto, neppure passionalità. Rare vampate di modesta sensualità e, una volta soddisfatta, ripiomba nel suo "credo di vita" che non ha mai abbandonato. Per lui è come aver sete, ed è naturale abbeverarsi alla solita fontana. Ci si torna, anche, ma non è che le si sia grati, o si pensi a lei. Si cerca quando si ha sete. Tutto qui. Io, invece, ero, e sono ancora, un torrente di montagna. La sorgente è in alto, pura, limpida, fresca, zampillante. Nasce come un piccolo rio, garrulo, saltellante tra ciottoli ben levigati, tra rive piene di verde, di fiori. Qualche rapida, qualche cascatella con spruzzi fatti di mille goccioline che divengono arcobaleno, al sole. Torrente che ha le sue magre, ma anche le sue piene tumultuose; che può travolgere, ma torna sempre ad essere il canto dell'acqua che saltella, che gorgoglia come la femmina nell'abbandono della voluttà.

ULISSE
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