L'Arrampicatore

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Il marito era uscito coi bambini, per condurli a vedere i preparativi della festa, le bancarelle con giocattoli, dolci, frutta secca, i mangiatori di fuoco, l'uomo 'forzuto' che si liberava dalle catene...

Io ero rimasto a letto, a poltrire, a leggere il giornale che Mimmo, il marito, mi aveva portato insieme a una fumante tazzina di caffè. Lo ringraziai e dissi di ringraziare anche la signora Bruna. Quando uscì dalla camera, il pensiero andò a quella famiglia, così cordiale.

Due bimbi –lei, la più grandicella, frequentava la prima elementare, lui, il discoletto, non sempre gradiva di andare all'asilo tenuto dalla suore.

Il giovane marito, capo-operaio in una delle più prestigiose imprese locali.

E Bruna, una donnina tutto pepe che non stava ferma un momento. Non molto alta, con belle gambe, seno e fianchi ben evidenti e ancor meglio fatti risaltare dai vestiti e dalle movenze.

Sarei stato ospite per pochi giorni, ma mi avevano accolto come uno di famiglia. Forse non avrebbero mai sperato di avere in casa loro uno che, in qualche modo, faceva parte delle autorità locali, anche se temporaneamente. Ma forse è solo mia immodestia.

La porta s'aprì e apparve Bruna, in vestaglia, coi lunghi capelli neri che le avvolgevano le spalle, e un trucco lievissimo sulle guance e sulle labbra. Mi guardò con uno strano sorriso, senza parlare, s'avvicinò al letto, lasciò cadere sul pavimento l'unico indumento che indossava, scostò la leggera copertina, s'infilò stringendosi a me, fremente. Con dita lievi sbottonò la mia giacca del pigiama, mi aiutò a toglierla, lo stesso fece coi pantaloni. Mi abbracciò stretto, e con la gamba sul mio ventre tormentava la testimonianza della mia eccitazione. Le carezzai la natica, si mise supina e accolse la mia mano intrigante che frugava tra le gambe. Fu lei a prendermi, con un misto di frenesia e languida dolcezza che le trasfiguravano il volto. Gli occhi socchiusi, il respiro pesante, roco, un lungo gemito che le sfuggiva dalle labbra, mentre mi cavalcava sempre più vogliosa.

E questo era solo un timido anticipo di come si sarebbe comportata nelle notti in cui Mimmo era di turno.

Il giorno che partii, mentre il marito era in fabbrica, mi accompagnò fino all'auto e, non so se per sconvolgermi od altro, mi disse di essere sicura, era incinta di me, felicissima, perché era quello che voleva, il ricordo per tutta la vita d'aver avuto un uomo che lei non avrebbe mai immaginato di poter avvicinare.

A suo tempo ricevetti una partecipazione di nascita: Romano era venuto al mondo.

Non risposi.

L'ARRAMPICATORE –II-

...l'eterno dubbio...

Ho seguitato a interrogarmi sul perché prediliga sempre più gli incontri occasionali, per le mie necessità sessuali, quando la comodità del talamo coniugale potrebbe pienamente appagarle. Ho anche considerato che preferisco relazioni non prolungate nel tempo. Non è mania di cambiare. In fondo, una donna vale l'altra per quella cosa li. Certo, deve rispondere alle mie esigenze estetiche e comportamentali, ma il mondo è pieno di splendidi esemplari femminili che hanno le mie stesse problematiche.

Sento subito chi mi domanda: "Ma allora, perché non con tua moglie?"

Perché un rapporto sessuale, almeno per me, richiede una certa atmosfera, la giusta tensione, la cosciente disposizione a compiere un atto che deve donare piacere, distensione, quello che si definisce relax, il riposo del guerriero, la pace dei sensi, la dolce soddisfazione del proprio desiderio. I cosiddetti 'preliminari, sono solo esercizio fisico per provocare o favorire una sempre più incontenibile bramosia di congiungersi sessualmente. Nessun 'preliminare' riesce ad attenuare le tensioni che troppo spesso si stabiliscono nella coppia, anche per i più futili motivi. Diciamolo in termini volgari, quando uno è incazzato con una persona non pensa certo a farle le coccole e a scoparla!

Con la compagna occasionale non hai avuto il tempo per creare tensioni, non v'è stato motivo per scontri di carattere, per divergenze, od altro. Le difficoltà relazionali sorgono, appunto, col prolungarsi della relazione. Quindi, basta darci un taglio in tempo utile.

La compagna occasionale non ti criticherà per come sei vestito, né ti rimprovererà perché pensi più al lavoro che a lei (salvo, poi, a pretendere da te ciò che solo il tuo lavoro può consentirle di avere), non ti perseguiterà con la solita cantilena che non la porti fuori, a divertirsi, con la frequenza che lei desidera. Non ti riferirà le pettegolate con le amiche, né i quotidiani conflitti con i vari fornitori.

Lo stesso autore della prima domanda, certamente aggiungerà che anche mia moglie, per motivi analoghi, potrebbe comportarsi come me.

Ne sono perfettamente cosciente. Quello che mi scoccia, soprattutto, è che comunque sono sempre io a doverla mantenere. Lei, certamente, con gli altri non sarà infastidente come con me, altrimenti l'altro la scaricherebbe a gran velocità.

Che bello quando non esistono complicazioni tra lui e lei che vogliono solo stare un po' insieme.

***

Per sfuggire ad una delle solite tiritere su non ricordo bene quale argomento, le dissi che sarei andato a fare un breve giro in auto.

Eravamo in montagna, in uno chalet ospitale e civettuolo, non lontano da uno dei più rinomati centri di villeggiatura.

Presi l'auto, mi avviai lentamente lungo la discesa che portava alla strada provinciale. Stavo girando a destra, quando, dal paracarro dov'era seduta, s'alzò una giovane ragazza, con un aderente maglietta e cortissimi pantaloncini, che allora si chiamavano 'hot pants'; ai piedi, con unghie leggermente laccate, eleganti e costosissimi sandali. Mi fece segno di fermare.

"Se vai in paese, mi porti con te?"

Tono confidenziale, deciso, non molto cortese. Sguardo serio, poco dolce.

L'auto era una decapottabile. Si era appoggiata sullo sportello e il vento leggero portava sul mio viso i lunghi capelli biondi e lisci.

Feci segno di salire. Passò dall'altra parte, aprì lo sportelli, si accomodò nel sedile allungando le lunghe gambe. Erano veramente belle. Le gettai uno sguardo. Due braccia mirabilmente tornite, e due procaci tettine che non dovevano avere bisogno di alcun sostegno.

"Che dici, supero l'esame?"

Abbozzò un sorriso, ma la voce era sferzante.

Risposi abbastanza secco.

"Trenta e lode?"

"Che, sei un professore? Ci mancava solo questo. Incontrarne uno prima ancora di entrare all'università. Almeno aspettare novembre..."

"Niente professore. Tu che fai?"

"Che vuoi che faccia, sono appena 'matura', come ha detto la commissione. Se non sei professore, che fai?"

"Diciamo che faccio l'avvocato."

"Anche io vorrei farlo. Penalista."

"Come me."

Avevamo preso la strada per il paese, lentamente. Sembrava un po' meno tesa. Le chiesi cosa faceva li, a quell'ora.

"Ho litigato con tutti. Sono uscita dall'albergo mentre erano ancora a tavola, ho chiesto un passaggio alla prima auto che ho incontrato, sono scesa al bivio senza sapere perché. Sono incavolata nera, devo sfogarmi, fare dispetti..."

"Perché?"

"Che ti frega? Sono affari miei..."

"Scusa."

"Scusa tu, ma sono fuori di me. Posso chiederti quanti anni hai?"

"Quaranta fra pochi giorni."

"Te ne davo di meno. Sei sposato?"

"Si."

"Hai figli?"

"No."

Eravamo arrivati all'ingresso del paese. Le chiesi dove volesse che la portassi. Mi disse il nome del più lussuoso Hotel della zona. Luogo per vip e ricchi.

"Sei con la famiglia?"

"Certo. Il solito gruppo. C'è anche la famiglia di quello stronzo del mio ragazzo. Non lo reggo più. E' lui la causa di tutto, e i miei lo difendono..."

Eravamo in vista del magnifico albergo.

"Gira dietro e porta la macchina in garage."

Entrai piano.

"Parcheggia al numero 423."

Era proprio di fronte all'ingresso.

"Scendi, voglio farti vedere dove sono alloggiata."

Senza parlare, mi prese la mano e mi condusse verso l'ascensore. Quarto piano. La camera era ampia, elegantissima, con un grande balcone che dominava la vallata.

"Vieni."

Mi sospinse verso l'ampio letto, lo scoprì. In un baleno rimase completamente nuda. Splendida. Le tettine erano proprio come le avevo immaginate, i fianchi meravigliosi, seducenti. Si stese sul letto. Era bionda naturale.

"Vieni."

Tutto era così inaspettato che ebbi un momento di esitazione.

"Dai...."

Era un vulcano di passione, e, data l'età, il suo comportamento era più dovuto alla sua natura, che non ad abile esperienza. In un momento di massima intimità, di intensa voluttà, io, ingenuo quarantenne, ebbi la dabbenaggine di chiedere se mi volesse bene.

"Dai... scopa... stronzo... scopa."

E seguitò a dimenarsi.

***

...vecchie scintille...

Quella era Jucci.

Gli anni le erano scivolati addosso senza lasciare alcun segno. Anzi, era più bella e attraente che mai. Eppure, di tempo ne era trascorso tanto.

Avevo desiderato d'impiegarmi, pur comprendendo che lavoro e studio avrebbero richiesto un certo sacrificio. Del resto, ero abituato a occupare gran parte del tempo impegnandomi in quello che allora era il mio dovere di studente liceale. Ora, universitario, non sarebbe stato diverso. Questo lo potevo fare perché la facoltà scelta non comportava l'obbligo della frequenza.

Era Jucci.

La mia giovanissima collega con la quale condividevo la stanza. Unitamente a Gloria che, avendo trent'anni, per me era una tardona. Bona, indubbiamente, un gran bel pezzo.., ma sempre tardona. E c'era anche Grazia, col visetto capriccioso, i capelli lunghi sulle spalle, e un corpicino delizioso. Ma Jucci attirava tutta la mia attenzione, il mio interesse, la mia curiosità. Specie quando, curvandosi, la scollatura lasciava intravedere il merletto del suo reggiseno, o, accavallando le gambe deliziose erano le giarrettiere a farmi pensare a un passo d'un salmo: "Il paradiso è più in alto!"

Non le ero del tutto indifferente e questo reciproco feeling non era sfuggito alle altre. Gloria sculettava provocante nella sua aderentissima minigonna, e non perdeva occasione per poggiare su di me le sue prosperose tette trovando sempre mille scuse per farmi vedere un incartamento o leggere qualcosa. Grazia era sempre sorridente, cordiale, e spesso uscivamo insieme, dall'ufficio, e prendevamo gli stessi mezzi per tornare a casa. Abitavamo non distanti l'uno dall'altra. La folla e gli sbalzi favorivamo contatti che non ci spiacevano affatto. I corpi indugiavano a sfiorarsi, le mie mani non le sembravano sgradite. Anche a vettura vuota restavamo in piedi, sulla piattaforma, lei con la schiena al finestrino, io di fronte. Certamente non le sfuggiva la mia eccitazione, e non le imbarazzava, anzi.

Avevo cercato di andare un po' oltre, con Jucci. Mi disse, con molta carezzevole e struggente dolcezza, che era fidanzata. Sembrava quasi che ciò la rattristasse. In ascensore, quando azzardai una lieve carezza sul volto, prese la mia mano e la baciò. Ne seguì un bacio sfuggente, appena il tocco di due labbra roventi.

Eccola Jucci. Più bella e attraente che mai, nel fulgore della sua maturità. Era intenta a leggere, seduta sulla panchina lambita dal sole. Mi guardai intorno, non c'era nessuno, Andai a sedermi al suo fianco. Non alzò gli occhi dal giornale.

"Scusa, sei la figlia di Jucci?"

Ebbe un sobbalzò, mi guardò quasi spaventata. Il suo volto s'illuminò.

"Piero, sei tu?"

Mi tese le mani, gliele baciai con trasporto.

"Come hai fatto a riconoscermi, dopo tanti anni?"

"Perché sei più bella di allora."

"Anche tu non sei cambiato, solo che hai acquisito l'aspetto d'una persona importante. Ogni tanto leggo di te..."

"Sciocchezze, cose di nessun rilievo. Parlami di te.... Che ne diresti di andare in quel caffè sul laghetto?"

"OK, andiamo."

Si alzò. Che donna bella ed elegante, raffinata, maliosa.

Quando fummo seduti, chiesi due coppe di champagne, dovevamo brindare all'incontro. Mi sorrise con gli occhi lucidi, le labbra vermiglie lievemente tremanti.

"Come mai da queste parti, Piero?"

"Esco da una pesante e noiosa riunione, da quel grosso palazzo di vetro, e mi sono messo a camminare senza meta. E tu?"

"Io vengo spesso in questi vialetti. Qualche volta incontro un'amica. Desidero allontanarmi dalla zona dove abito, verso il mare."

"Abbiamo almeno vent'anni da raccontarci. Cosa fai?"

"La moglie."

Alzò le spalle, con una cert'aria rassegnata.

"Anche mamma?"

Scosse il capo.

"Neanche io sono padre. Ma sono marito. Hai notizie delle nostre colleghe?"

"Gloria è morta. Da tempo. Un male che si ritiene ancora incurabile. Grazia ha sposato un uomo brutto, insopportabile, credo che non lo ami. Ha un figlio e trascorre i giorni tra città e campagna, annoiandosi a morte."

"Mi sembra che anche tu ti annoi."

"Abbastanza, ma non so reagire. Sono un po' indolente. Vado spesso da mia madre o dalle mie sorelle. Mi distraggo coi miei nipoti. Sempre meno, perché, crescendo, non sanno che farsene della vecchia zia."

"Tuo marito?"

"Spesso fuori, e a volte per periodi non brevi. E' ufficiale dell'aeronautica militare e cura i rapporti con la NATO."

La guardavo intensamente. Riandando a qualcosa di delizioso.

"Cosa pensi, Piero?"

"Un giorno... in ascensore..."

Sorrise con aria sbarazzina.

"Che fai, ci provi?"

Annuii con la testa.

"Ci ho sempre pensato, Jucci. E ci penso sempre."

Divenne seria.

"Anche io..."

"Sei sola? Voglio dire, tuo marito è fuori?"

"E' in missione, in Australia. Tornerà la prossima settimana."

"Ti telefona spesso?"

"Quando può si. Ora è tagliato fuori per ragioni di riservatezza."

"Senti. Io sto per andare a Milano. Perché non vieni con me? Torneremo domani sera."

Mi guardò come se fossi matto. Poi i tratti del suo volto si distesero.

"Non posso, non ho niente con me."

"Andando all'aeroporto passeremo per casa tua. Io ho tutto in auto."

"Mi sembra un racconto irreale, Piero, un'ora fa quasi non ricordavamo l'esistenza dell'altro."

"Io la ricordavo... ti ho sempre cercata."

"Milano?"

"Milano."

"Si torna domani?"

"Domani."

"Ci rincontreremo dopo altri vent'anni?"

"Lasciamo fare al caso."

Credo che sia stata la più bella notte d'amore ella mia vita.

Jucci, sognata da sempre.

L'indomani mattina, uscendo dall'albergo, chiesi all'autista del taxi di accompagnarci a una gioielleria che conoscevo. Vendevano degli elegantissimi portachiavi per auto: una cornicetta d'oro, impreziosita con brillanti, nella quale si poteva comporre la targa. Ne scelsi una tra le più belle. Vi feci includere, in platino, lettere e numeri che potevano individuare un'auto, ma che per noi indicavano un accadimento e una data: "MIA6.21.07.65". La regalai a Jucci, che mi guardava trasognata. L'orefice non capì i punti e scosse il capo. Ma il cliente ha sempre ragione.

***

...casablanca...

"El Mansùr" era, all'epoca, il più moderno ed elegante albergo della città. La gente, in genere, ci accoglieva con una cordialità che a volte mi dava l'impressione d'essere mellifluo e falso modo di rendersi interessatamente simpatici. Portavamo lavoro e benessere attraverso cospicui investimenti che, come di consueto, andavano a tutto beneficio dei ricchi, cioè del ceto dominante. Il personale dell'hotel era cerimonioso, esteriormente premuroso, sempre in attesa del 'bacscisc' che li rendeva ancor più ossequiosi. E dire che solo pochi anni prima, forse quello stesso uomo che mi puliva le scarpe, aveva rapinato e stuprato nelle nostre contrade dove era stato mandato a combattere. Esercitando, così, il suo diritto di vincitore, 'El Mansùr', come era scritto sulla sua giacca rossa. Non risparmiavano nemmeno le decrepite vecchiette, e si sentivano benemeriti della loro fede sodomizzando il venerando curato di campagna che non aveva avuto la forza di nascondersi. Ognuno è 'El Mansùr', vittorioso, a modo suo.

Fuori del cancello, a Mohamedhjà, eravamo accolti ogni mattina da una schiera vociante. In genere, fellahìn in cerca di lavoro, o di materiale di scarto, o anche semplicemente di cibo. Uno, in particolare. Correva dietro all'auto, fino a quando il cancello si richiudeva, e agitava qualcosa che, poi, riponeva sotto il suo ampio qaftàn bianco.

Decidemmo di parlargli. Lo facemmo entrare, accompagnato dall'interprete.

Si inchinò più volte, e raccontò che nella sua terra, non molto distante dalla sua piccola casa, a meno di due ore di cammino dalla raffineria, aveva trovato il petrolio. L'interprete e alcuni altri impiegati locali, che erano presenti, stentavano a restare seri, cercando di mascherare il sorriso. Lui era pronto a cederci la concessione per pochi dirham. Il petrolio era di ottima qualità, assicurava, ed a conferma di ciò tirò da sotto la veste una piccola bottiglia bianca, che già aveva contenuto la coccola, e ce la mostrò. In effetti il petrolio era limpido, trasparente, di quelli ottimamente raffinati, che non avrebbe certo intasato l'iniettore del petromax. L'uomo era raggiante, si guardava intorno, quasi a voler riscuotere un applauso, e ci garantì che, cercando bene, se ne poteva trovare più d'una bottiglietta al giorno, perché nella sua terra il petrolio scaturiva così, lampante e in bottiglia! Tutt'intorno fu un coro di risate. Lo congedammo e gli assicurammo che avremmo fatto sapere qualcosa. Doveva tornare a casa e attendere la risposta.

L'interprete tornò a svelare il mistero.

Un astuto haji, rispettato da tutti da quando era tornato dalla Mecca, nascondeva quelle bottigliette, incitava l'uomo ad andare a cercare la sua ricchezza e, nel frattempo, lui si godeva la giovane e bella moglie dell'ingenuo credulone. Un bidone da venti litri riempiva più di cento bottiglie. Gli bastava per più di tre mesi!

La segretaria avvertì che Marika Kovac al telefono, dall'Italia, voleva parlare con me. Fu cordiale, come sempre, e mi disse che l'indomani sarebbe giunta anche lei, per un incontro ad alto livello.

Marika Kovac, ungherese, ingegnere, cittadina italiana, era il vice presidente per le relazioni esterne. Bella donna di età indefinita, anagraficamente aveva superato i cinquanta, d'aspetto ne dimostrava meno di quaranta. Sempre irreprensibilmente vestita, con sobria eleganza, perfetta in ogni particolare. Doveva curare molto la sua persona, anche in palestra, ma tutti ci chiedevamo dove ne trovasse il tempo. Della sua vita privata si sapeva poco o nulla. Forse c'era stato un marito, un uomo, ma nessuno ne era certo. Comunque, viveva sola, in un Grande Albergo del centro, e conduceva una esistenza riservatissima. La chiamavamo Minerva: pozzo di scienza, straordinaria capacità manageriale, sapeva mettere tutti a proprio agio senza indulgere in confidenze. Era stata lei ad affidarmi alcuni contatti, ma non mi aveva detto che era in procinto di avere importanti incontri. Credevo, anzi, che mi attendesse per conoscere l'andamento delle cose e poi decidere di conseguenza. Minerva stava per arrivare, e in gran segreto, perché mi aveva raccomandato di tenere per me la notizia, di andare da solo a rilevarla all'aeroporto, di riservarle una suite a 'El Mansùr'. Voleva una relazione verbale dettagliata sugli elementi e le informazioni raccolti in quei giorni, la sera stessa del suo arrivo. L'indomani la sua presenza sarebbe stata ufficiale.

Un arrivo parzialmente segreto, perché le autorità aeroportuali sapevano del volo, regolarmente segnalato, e ne avevano informato la polizia. Il Ministro del petrolio era al corrente di tutto, e anche lui voleva la massima riservatezza. Il servizio di vigilanza era discreto, ma non sfuggiva a una attenta osservazione. Appena giunsi al terminal, fui avvicinato da un funzionario in borghese, della sicurezza, e invitato ad entrare nella zona riservata, dove l'autista avrebbe potuto parcheggiare l'auto.