L'Arrampicatore

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"Hai ragione, devo rifletterci."

"Proviamo a fare un esperimento. Parliamo di qualcosa cui aspiri e non osi tentare. Qualsiasi cosa."

Le guardai insistentemente le belle cosce.

"Rischio una sberla."

"Ne vale la pena?"

"Assolutamente si."

"Azzarda, allora."

Cercai di sorridere, di assumere un atteggiamento scanzonato.

"Vorrei sentire se le tue gambe sono sode come immagino."

Mi scansai, istintivamente, per evitare la sua mano che avevo visto muovere.

Prese la mia e la poggiò sulla sua coscia.

"Accertati e giudica."

Strinsi le dita, carezzai, scesi sul ginocchio, sul polpaccio, risalii, sotto la minuscola gonna, fin dove piccoli peluzzi serici fuoriuscivano dal bordo delle mutandine. Rimasi con la mano sulla sua carne calda e gagliarda.

"Mi sembra che la tua ispezione sia stata abbastanza approfondita. Qual'è il verdetto?"

"Non prendermi in giro, sono sconvolto. Non immaginavo una tale soda bellezza."

"Quindi, per quanto riguarda le gambe non sono da buttar via?"

"Ti prego, non burlarti di me. Se vuoi, fammi scendere, tornerò a casa per conto mio. Sono stato uno sciocco. Lo sapevo."

Mi guardò con gli occhi pieni di lacrime.

"La sciocca sono io, Piero, che 'tardona' come sono –ci chiamate così, vero?- accetto, provoco, le carezze d'un giovane come te. Ma sei un metro e ottanta di giovane, Piero. Cerca di capire."

In effetti stentavo a capire.

Le sfiorai la guancia con la mano.

"Non farlo, Piero, non farlo. Non voglio la tua compassione. Torniamo a casa?"

"No. Ora, più che mai no."

Le posi una mano sul petto.

"Piero, andiamo fuori strada..."

"Si, cerca una laterale e infiliamoci in qualche posto. Almeno per un momento."

Uscì appena possibile e s'inoltrò in una stradetta laterale, andandosi a fermare sotto un grosso e fronzuto albero.

Fu un bacio fremente, tra il violento e il tenero. Le labbra si cercavano, le lingue si lambivano, golose. Le brancicavo le splendide dure tette, sollevai la maglietta, succhiai i capezzoli protesi. Con un gesto rapido tolse le mutandine, si mise a cavalcioni, guardandomi negli occhi, slacciò i miei pantaloni dai quali si erse prepotente il mio sesso, ci s'infilò sopra, iniziando una galoppata sfrenata. Come una walchiria scatenata che non conosce ostacoli. Si chetò solo quando raggiunse, esausta, gemente, la sua meta. E la mia.

Rimase avvinta a me, incurante della possibilità che qualcuno potesse vederci. Riprese a baciarmi, a ondeggiare, insistentemente, ancor più quando sentì che rifiorivo in lei, e tornò a possedermi, con avidità, con voluttà, ardore. Pur nel piacere che sapeva darmi, pensai che le ebree erano veramente maestre nell'amore. Un incontro così non si può scordare. Con le mani le stringevo le natiche nervose che si dimenavano lascivamente.

Pian piano, sembrò ritornare in possesso della sua calma. Aveva indossato di nuovo mutandine e maglietta. Era seduta, immobile, al posto di guida. Mi guardò con ancora il rapimento negli occhi, le narici frementi.

"Non era mai stato così bello. Mai. E da tre mesi non ho rapporti con mio marito. E' sempre indaffarato, soprappensiero, meditabondo. Ti nauseo?"

La baciai sulla guancia.

"Mi esalti, mi doni le delizie del paradiso."

"Deluso?"

"Entusiasta."

"Appena a Roccaraso, andremo a pranzo, in un locale caratteristico, e poi...."

"Perché non prima?"

Fece un profondo sospiro, accese il motore, ingranò la marcia e ripartì.

***

...ancora...

Mirka era tornata al suo paese.

L'aveva sostituita Ligg Ancì, proveniente da un villaggio non troppo lontano da Addis Abeba, il Nuovo Fiore.

Ancì, che poi è l'appellativo con quale, di solito, ci si rivolge a una donna di ceto non elevato, nella sua terra, parlava qualche parola di Italiano e aveva deciso di cercare un lavoro che la strappasse dagli stenti che attanagliavano la sua famiglia. Era abbastanza alta, ben proporzionata, con i bei tratti della sua gente, che è semitica e si vanta di essere della stirpe di Salomone. Era di religione Copta, appunto quella importata dall'Egitto. Decisi di chiamarla Aba (la sigla di Addis Abeba), fiore, perché, in effetti, era un fiore di ragazza, nello splendore dei suoi diciotto anni. Fianchi ben modellati, petto superbo, andatura regale.

Mia madre mi aveva detto di stare lontano da Ancì, per me Aba. Per tanti motivi, anche per le malattie che poteva aver ereditato dai suoi avi. E le cose potevano anche andare nel senso desiderato, tenendo conto che Anna era sempre avidamente disponibile. Mi venne da sorridere: l'Ebrea e la Copta. L'uomo propone, però, e il destino seguita a fare la sua strada.

Aba girava per casa con un leggero 'sciamma', l'ampia veste bianca stretta alla vita, sotto alla quale, di solito, non s'indossa niente. Metteva vesti europee solo quando usciva di casa.

Quella mattina faceva molto caldo. Mio padre era andato a studio, la mamma aveva un impegno alla Caritas. Una delle sue fissazione. Era lì che aveva trovato Aba. Io mi crogiolavo nel letto. Mi alzai per andare a prendere qualcosa in cucina. Del latte freddo, possibilmente. Passando dinanzi alla porta della doccia sentii l'acqua scosciare. La porta era semichiusa, la spinsi piano e... Aba, con gli occhi chiusi, le braccia al cielo, le tette protese, le gambe appena divaricate, godeva il refrigerio dell'acqua che le scorreva sul corpo. La fissavo incantato. Quella era 'the black Rome', Roma la nera, quasi del tutto glabra. Una Roma a me sconosciuta, e Garibaldi era più impaziente che mai. Ricordai una scena cinematografica che m'era rimasta impressa nella mente. Decisi di ripeterla io, senza indugio. Via giacca e pantaloncini del pigiama, e la raggiunsi. Aba sbarrò gli occhi, ebbe un moto quasi istintivo, di respingermi. Io, intanto, l'avevo abbracciata, e Garibaldi premeva naturalmente alle porte di Roma... Mi saltò quasi in braccio, intrecciò le gambe dietro la mia schiena e s'acconciò per aiutarmi a penetrarla. Garibaldi, più baldanzoso che mai, cantava vittoria. Io dovevo tenermi per saldo sulle gambe, per sostenere le deliziose e decise spinte dell'Etiope. Aveva un modo particolare di fare l'amore, il suo ventre si contraeva e rilasciava provocando una inebriante peristalsi della vagina che mi mungeva deliziosamente. A lungo, fino a che non stavamo per cadere, esausti, sempre sotto l'acqua che ci irrorava.

Si avvicinava il giorno della laurea. Le colleghe d'università a volte mi guardavano con curiosità. Forse avranno anche fatti cattivi pensieri su me. Ma ero preso dallo studio, e il tempo libero non era sufficiente per dividermi tra zia Lisa che, pur sposata, non tralasciava occasione per stare insieme a me, e la spumeggiante Anna che, allo scopo, aveva arredato con elegante civetteria un piccolo appartamentino, in un luogo elegante e discreto della periferia. Anna era imprevedibile in tutto, sempre piena di fantasia, e di fantasie. Gli oltre vent'anni che ci dividevano non erano mai affiorati. Così deliziosamente minuta e stupenda in ogni sua divina proporzione, si rifugiava tra le mie braccia, mi sedeva in grembo, nuda, nel grande letto, e mi accoglieva nel solco della sua voluttuosa pesca. Restava quasi immobile, solo le sue natiche si muovevano in una maniera che mai più in nessun'altra ho conosciuto, fino a farmi raggiungere il piacere, e lei a gemere di voluttà. Meravigliose chiappette prensili, indimenticabili.

Lo studio e le distrazioni, diciamo così, sentimentali del giorno, trovavano epilogo in "black Rome", che mi cingeva sempre con le sue gambe intrecciate sulla mia schiena, e mi baciava sussurrando 'ghieta... ghieta'. Aveva detto che significava 'signore', 'padrone'. Da quando le avevo detto che quel coso li si chiamava Garibaldi, mi sussurrava Garibaldi... Garibaldi.

E trascorsero alcuni anni, quasi sempre senza grossi pensieri.

Ero partito la sera, in treno, dal Nord, per raggiungere la mia città. Dopo due giorni mi sarei sposato. Nella mente scorrevano i ricordi come una pellicola. Angela... Franceschina la rossa, Liliana, Rosetta, zia Lisa, Anna, chiappette prensili, Aba il mio più recente fiore.

Pensavo che avrei trascorso da solo gli ultimi giorni di celibato. Da solo? E come avrei potuto evitare di salutare Lisa e Anna, di trascurare Aba?

Nello scompartimento c'era solo una giovane signora che andava a sollecitare, al Ministero, una pratica riguardante la pensione del padre. Il marito le aveva raccomandato di non stare troppo lontana da lui. Intanto, era vicina a me. E' inutile ripercorrere le battute, gli approcci. Finimmo nel gabinetto, per una sveltina, in piedi, aiutati dal sobbalzare del convoglio. Prima dell'alba, e della fine del viaggio, ripetemmo l'esperimento, con reciproca piena soddisfazione

***

...un passo indietro...

Era veramente un tormento. Non tralasciava occasione per infastidirmi. Quasi una persecuzione. Tutte le scuse erano buone: I compiti scolastici... se avevo una certa rivista settimanale... cosa ne pensavo del vestito che indossava ieri, durante lo struscio serale nel corso della cittadina. Credo che mi facesse la posta per sapere quando andavo al cine. Appena si riaccendeva la luce la scorgevo nel posto più vicino a me che avesse trovato: E tanto faceva, chiedendo 'scusa', 'permesso', e così via, che finiva con l'essermi a fianco, salvo che non mi fossi protetto circondandomi di amici fedeli e irremovibili. Se riusciva a sedersi a fianco, era tutto un muoversi, un agitarsi. Avvicinava la sua testa alla mia. Si metteva sottobraccio. Manifestava finte emozioni, guardando il film, stringendomi il ginocchio. O più su. Data l'amicizia dei nostri genitori, mi piombava a casa, sempre per farsi spiegare qualcosa che diceva di non aver ben compreso, a scuola. E finiva, in un modo o in un altro, che s'alzava la gonna e si sedeva sulle mie ginocchia, agitando il magro culetto di bambina. Sentivo che dilatava e stringeva le natiche, ma non riuscivo ad eccitarmi. Era proprio una bimba, e dimostrava perfino meno dei suoi anni. Una tabula rasa, niente petto, niente fianchi, due gambette infantili, e il volto non eccessivamente attraente. Capelli biondastri, tendenti al capecchio. La chiamavo 'Maki', da quando avevo visto l'immagine di quel lemuride del Madagascar. Oddio, era solo un nomignolo scherzoso. Dal punto di vista sessuale non mi diceva niente. La pensavo completamente glabra e del tutto infantile anche tra le gambe. Alla vigilia dei miei diciannove anni era quel sorcone della professoressa di musica delle magistrali, pensionante presso la vecchia zia Nilla dalle vocazioni ruffianesche, che m'attizzava. Andavo a trovare spesso quella che senza essermi parente chiamavo zia. Gisella girava per casa sempre in succinta sottoveste, con i capelli corvini sulle spalle nude, e rigogliosi ciuffi scuri che le spuntavano dalle ascelle. Era sempre profumata. I capelli, quel pelame, mi eccitavano. Non vi dico, poi, quando mi dava lezioni di ballo. Il suo ventre aderiva a me come una ventosa, le tette sembravano volermi avvolgere, e non sgradiva le mie mani che le artigliavano le robuste chiappe appena coperte dalla sottoveste di raso. Quando... distrattamente.... le mie mani le lambivano il ventre, sentivo, o almeno mi pareva di sentire, i riccioli aggrovigliati che le guarnivano il pube, e se indugiavo, curioso, si stringeva a me. Comunque, anche se era evidente e manifesto il desiderio che avevo di lei, e pur lasciandosi spesso carezzare lascivamente, mostrando di godere al mio tocco sempre più invadente, non permise mai di oltrepassare quello che nell'avanzata adolescenza dell'epoca chiamavamo 'fracosce', che pur ci procurava voluttuosi orgasmi. Gisella proteggeva la sua verginità fisica.

Quando tornai nella cittadina dei miei studi liceali, dopo alcuni anni, mi venne incontro, nella piazza principale, dov'era il 'circolo', una splendida fanciulla, dai capelli d'oro e dalle forme scultoree.

"Ciao, Piero. Sono Maki."

"Maki?"

La squadrai sbalordito.

"Si, Maki, la scimmietta....mi chiamavi così, vero?"

Aveva un'aria civettuola e provocatoria. Mi guardava sorridendo.

Le tesi la mano, mi si rifugiò tra le braccia, con un bacio che oltrepassava i limiti che normalmente, all'epoca, erano ammessi in pubblico, perfino tra coniugi. Non mi sembrò, però, che i radi passanti fossero troppo curiosi.

"Sei tornato, finalmente, Piero. E io ti infastidirò, come al solito."

Con la migliore ipocrisia che seppi sfoggiare, le assicurai che non mi aveva mai infastidito, che mi era stata ,e mi era, tanto cara, che avevo sempre pensato a lei, ma che non immaginavo di trovare tale splendida fanciulla.

Girò su sé stessa, lentamente, offrendosi alla mia ammirazione.

"Che ne dici?"

Fui tentato di prenderla sullo scherzoso.

"Potenza dell'evoluzione della specie..."

"Allora, sono sempre Maki?"

"Sei più bella di Venere..."

Divenne seria.

"Ti prego, chiamami Maki, mi piace tanto."

"Allora sei la mia Maki..."

"Tua?"

"Scusa, non voglio prendere il posto di qualcun altro."

"Nessun posto da prendere, perché non c'è nessun altro. Ma 'tua' è un possessivo impegnativo. Molto vincolante. E mi sembra del tutto prematuro."

"Dipende tutto da te..."

"Ti trovo cambiato, Piero, sei gentile, galante, lusingatore."

"Ti dispiace?"

S'era messa sottobraccio, e ci avviavamo verso la grande villa comunale, sulla parte alta della collina.

"Sciocco!"

Ci accolse il frondoso viale, girammo verso l'estremo opposto, dove una panchina isolata, nascosta da una fitta siepe, guardava la valle.

Che trasformazione. I lunghi capelli dorati le cadevano sulle spalle divinamente disegnate, sul seno eretto che sembrava stesse per esplodere dalla camicetta. I fianchi, voluttuosamente dondolanti, mi carezzavano. Aveva preso la mia mano, ogni tanto mi guardava con occhi limpidi e profondi. Sedemmo sulla panchina.

Mi prese il volto tra le lunghe dita affusolate e pose le sue labbra sulle mie, cercando avidamente la mia lingua in un bacio appassionato, incurante della possibile intrusione di qualche estraneo. Ebbe un moto improvviso, alzò la gonna e sedette sulle mie ginocchia... come una volta... solo che ora percepì chiaramente la mia eccitazione.

Mi sussurrò con voce rotta dal respiro affannoso.

"Ti aspetto da sempre. Ho sognato sempre... essere tua, si, la tua Maki, perché non voglio essere d'altri, è la sola cosa che posso offrirti, che desidero, ardentemente, appassionatamente donarti. Tu, per me, sei la divinità alla quale sono votata... non ridere, però!"

"Non rido, bambina, sono felice come non puoi immaginare. Desidero quanto te, più di te, aver motivo di poterti davvero chiamare la 'mia' piccola Maki."

Fu un troppo breve periodo di ebbrezza voluttuosa. Per lei era la prima volta. La sua esuberante passione scoppiò senza freno, ne fummo travolti entrambi, senza pensare a possibili conseguenze.

Quei giorni sono rimasti la più bella pagina della mia vita. Ci donammo generosamente, forse sapendo che non lo avremmo fatto mai più.

"Il tuo sigillo rimarrà per sempre nella mia carne, Piero. Grazie."

*********************

...la vita cambia (?)...

Lo status d'uomo sposato ha, logicamente, modificato alcune cose nella mia vita.

Mi è stato spesso richiesto perché mi sono sposato. Amore irrefrenabile? Sesso?

Considero prima il sesso. Per me è un indispensabile elemento vitale, come l'aria. Ma non mi serviva una moglie, per fare sesso. Avevo di che appagarmi intra et extra moenia. Lisa, Anna, le deliziose nottate con Aba....

Imperatività dell'amore? Sono legato a mia moglie, le voglio bene, ci sto bene insieme, ma non avrei fatto pazzie per poterla avere. C'è aria e aria, d'accordo, ma non me ne è mancata mai, di respirabilissima.

Perché mi sono sposato? Lasciate che vi pensi.

C'erano molti invitati, e bellissimi regali. Quello che mi ha colpito, ed ancor più ha meravigliato mia moglie, è stata la magnifica Jaguar coupé, da parte di Anna. Quando la baciai, per ringraziarla, pregandola di ringraziare anche il marito che era impegnato fuori sede, mi fece scivolare un biglietto nella tasca.

"E' riservato a te, solo a te."

Mi diceva che voleva farmi ricordare il nostro viaggio a Roccaraso, il primo, e che lei stava per trasferirsi in Israele, col marito. Il suo cuore, però, restava qui, da buona Italiana, dove era il suo Garibaldi, perché non si doveva dimenticare la donna di Garibaldi era Anita, come lei. Sperava che io non dimenticassi troppo presto le sue doti... prensili.

Come avrei potuto?

Anche Aba stava per tornare nella sua terra.

Lisa mi sussurrò che mi aspettava presto, e che non voleva trovarmi troppo consumato.

Renata, mia moglie, era abbastanza affettuosa, a modo suo, e a letto non deludeva. Mi sembrava, però, di percorrere sempre la stessa strada, senza sorprese. Perché, mi chiedevo, con Lisa, Anna, Aba, non era sempre la stessa cosa? Non lo so. Con loro era tutto un po' diverso.

La prima volta che tornai da Lisa respirai aria finissima, di montagna, di altissima montagna, quella che inebria, fa girare la testa. Lisa mi guardò incantata, non voleva smettere. Non voleva... lasciare niente per Renata. Ne era gelosa.

***

Sono a disagio con me stesso nel notare che per quanto il sesso mi attragga, ne senta la necessità, completi la mia esistenza quotidiana, costituisca per me un elemento essenziale, non riesca a legarlo alla parola 'amore', salvo che nell'accezione di concupiscenza, eccitazione, voluttà.

Se passo dinanzi ad una pasticceria ben fornita, al vedere le leccornie esposte mi viene l'acquolina in bocca, desidero ardentemente gustarle. Lo stesso mi capita con una bella donna. Mi eccita, mi infiamma.... la desidero. Poi, assaporatala, la squisitezza del dolce o della femmina, il desiderio realizzato placa la voglia... fino alla prossima volta.

Non sono cinico. Purtroppo sono fatto così, forse male, ma non agisco mai in mala fede o premeditatamente.

Un volto splendido, forme armoniche, un seno eretto, labbra turgide, fianchi maliosi... Come non ammirare, desiderare di carezzare... godere, almeno una volta, quanto tutto ciò promette?

Mi capita, così, di non ricordare –forse non l'ho mai saputo- il nome di lei. E' stata una cosa deliziosamente appagante... E vi par poco? A volte, proseguire nelle manifestazioni che spesso si desiderano dopo un voluttuoso rapporto, mi costa fatica. Soprattutto farle credere che mi piaccia continuare. Non vi dico, poi, se pretende di volgermi le spalle, raggomitolarsi così, nuda, sulle mie ginocchia e dormire mentre l'abbraccio. Capita che anch'io lo desideri, ma molto di rado.

A ben pensarci, io sono una persona normale.

Come quelle che vengono con me, pur sapendo che non potrà esserci un seguito duraturo al nostro incontro. Attrazione fisica, forse, curiosità, convincimento di poter placare il proprio desiderio sessuale, o semplicemente noia. Attesa di nuove emozioni, sensazioni, turbamenti. Un momento di particolare eccitazione, calore, fregola, foia. Chissà!

***

...non cambia nulla...

Bruna portava il nome della protettrice della città.

Una festa che sapeva di barbaro, quella che si celebrava ogni anno, in onore della patrona del luogo. La processione attraversava le strade principali trasportando, su di un carro addobbato con multicolori figure di cartapesta, la santa immagine della festeggiata. Giunto nella piazza principale, dinanzi alla chiesa, il carro veniva assalito dai... fedeli, e ognuno cercava di impadronirsi d'un pezzo di quella cartapesta. Un gesto di intensa religiosità perché quel cimelio sarebbe stato conservato, e bene in vista, nella stanza migliore della propria casa, certi della protezione divina.

In quella occasione, negli alberghetti e locande della cittadina non si trovava posto. Tutto era prenotato anno per anno. Io, grazie alle premurose attenzioni d'un mio prezioso e attivo collaboratore, ero ospite –a pagamento, s'intende- d'una modesta e simpatica famiglia, in una delle nuovissime abitazioni consegnate, solo per meriti politici, ai fortunati assegnatari delle case realizzate dal 'piano rinascita'.