Dora

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Abbozzò un sorriso.

“Allora, nell’atrio dell’albergo alle otto e un quarto. Le dispiace se la faccio servire dalla ragazza? Io vorrei andare a cambiarmi.”

Al mio cenno del capo, sorrise ancora e tornò in cucina.

La cena fu ottima. La cameriera era una giovane bionda con gli occhi verdi. Anche lei molto bella, ma sembrava meno di classe di Dora. Era piena di attenzioni, mi guardava continuamente. Al termine mi chiese se volevo un gelato, e alla mia risposta negativa osservò quasi distrattamente:

“Ho visto che le piace molto il dolce di Dora. Dora è brava.”

Le sorrisi.

“Sono certo che anche lei lo sia, se non di più. Vero?”

Sembrò arrossire. Andò via.

Quando Dora apparve nella hall stentai a riconoscerla.

Un vestito semplice, a grossi fiori in tinte tenui su fondo color pesca pastello, la fasciava elegantemente, ponendo in risalto la perfezione e la proporzione della sua figura. Le scarpe, più scure del vestito, con tacco non molto alto, erano intonate al tutto e alla pochette che teneva nella sinistra. I capelli, neri, lucidi, sfioravano il vestito carezzandole le spalle, e attiravano lo sguardo verso la scollatura a punta, che lasciava appena intravedere l’inizio del seno.

Era splendida, Dora.

Non resistei a dirglielo.

“E’ bellissima, Dora, una visione che incanta. Chissà quanti le fanno la corte. E quanti vorrebbero essere al mio posto e accompagnarla al cinema. Ma cosa dirà il suo fidanzato?”

“Grazie, Piero, ma credo di essere una ragazza come tante. E sono anche tante quelle chi mi invidieranno vedendomi con lei. Il mio moròso non c’è. Non ho un moròso. C’è stata qualche simpatia, nel passato. Forse anche una passioncella, ma è finito tutto, e lui è a fare il soldato. Mica ufficiale come lei. Ma non mi faccia arrossire. Andiamo.”

E si avviò alla porta.

Appena fuori si mise alla mia sinistra.

“Così sarà libero di salutare...”

Camminammo in silenzio.

Attraversata la piazza, costeggiammo la chiesa, voltammo in una via non molto larga, poi ancora a destra. Il Cinema aveva un’insegna alquanto fioca: “Eden”.

Dora poggiò la mano sul mio braccio.

“E’ inteso che ognuno paga per sé.”

La guardai sorridendo.

“Certo, ma adesso i biglietti li faccio io, poi lei salderà il debito!”

L’uomo all’ingresso della sala doveva certo conoscere Dora, le sorrise appena senza dire nulla.

Dora sembrava aver perduto la sua gaia sicurezza, non appariva più a suo agio. Mi sussurrò all’orecchio:

“Preferirei non andare troppo avanti.”

“D’accordo, va bene l’ultima fila, vicini al corridoio centrale?”

“Benissimo, grazie. Vorrei sedere qui, nel settore di sinistra, all’esterno, E ’il mio posto preferito.”

Le passai dinanzi e rimasi in piedi fino a quando non sedette nella poltroncina, alla mia destra.

La sala non era molto grande Le poltroncine, quasi nuove, erano comode e accoglienti. Mancava qualche minuto all’inizio dello spettacolo e vi erano ancora alcuni posti liberi.

Il film era abbastanza nuovo: “La cena delle beffe”.

Dora sedeva alquanto rigida, la pochette sulle gambe e le mani poggiate sopra. Aveva un piccolo grazioso anello, con una pietra azzurro pallido, all’anulare destro.


“Bello quell’anello” -le dissi- “è un regalo?”

Sorrise appena, sempre guardando dinanzi a sé.

“Si, è un recente regalo del nonno, per il mio diploma di maestra.”

“Il colore della pietra è simile al cielo poco dopo l’alba.”

“E’ un’acqua marina, il mio colore preferito.”

“Più del rubino?”

Voltò il viso verso di me, con un bagliore negli occhi, con le labbra più vermiglie del solito.

“Il rubino é il simbolo del fuoco ardente, del sangue, della passione. Come le rose rosse...”

“Brava, Dora, é poesia quello che dice, un inno all’amore. Non sapevo che sapesse esprimere così i suoi sentimenti.”

S’era illuminata in volto, le nari lievemente dilatate, il seno leggermente sollevato. Proseguì: “Forse è solo fantasia. Ma un rubino lo porterei all’anulare sinistro dove, si dice, passa una vena che va direttamente al cuore.”

Lo spettacolo stava cominciando.

Sullo schermo, come al solito, comparve il Giornale Luce, notizie attraverso le immagini diffuse dal partito fascista. Folle osannanti al Duce, operai intenti a produrre per la guerra, azioni vittoriose delle nostre truppe...

Avvicinai le labbra all’orecchio di Dora.

“E’ quello che vorrebbero che fosse.”

Si voltò appena verso me, la mia bocca le sfiorò la guancia. Ebbe un lieve sobbalzo.

Era iniziata, intanto, la pellicola in programma. Amedeo Nazzari, Osvaldo Valenti, Clara Calamai interpretavano il dramma di Giannettaccio e Neri Chiaramantesi.

Dora sembrò rilassarsi un po’. Poggiò il braccio sul supporto che divideva le poltroncine. Misi la mia mano sulla sua. Non si mosse. La carezzai lievemente. Voltò la mano, intrecciò le sue dita con le mie, strinse le labbra, sempre con lo sguardo sullo schermo.

La presi sottobraccio. Sentivo il tepore della pelle vellutata, il turgore del seno stupendo. Si avvicinò a me. Le passai il braccio intorno alla vita.

S’accostò di più. La sua gamba toccava la mia.

La strinsi a me. Abbandonò la testa sulla mia spalla mentre le sfioravo dolcemente il seno con le dita che sentirono irrigidirsi il capezzolo. Lei cercò di avvicinarsi ancora, come volesse annullare quello che ci divideva.

Si voltò verso di me, guardandomi negli occhi.

Posi le mie labbra sulle sue. Le sentii dischiudersi lentamente, mentre la sua lingua cercava golosamente la mia.
Si staccò lentamente, appoggiò la guancia sulla mia bocca, carezzandola così.

Le bisbigliai pianissimo:

“Baciami con i baci della tua bocca...

Le tue labbra sono come un filo scarlatto...

vergine miele stillano le tue labbra...

miele e latte sotto la tua lingua...”

“Parole meravigliose, sono... tue?”

“Sono parole di sempre, è il Cantico dei Cantici.”

“Ah! E’ vero, è molto bello. Quando ho letto, ricordo che mi sono guardata nello specchio. E’ stato un gesto di presunzione e di superbia.

Ho ripensato spesso, specie in questi ultimi tempi, a quel grido, quasi disperato:

Sul mio letto, nelle notti,

ho cercato colui che il mio cuore ama;

m’hanno incontrato le sentinelle,

le avevo appena oltrepassate

quando ho ritrovato colui che il mio cuore ama;

l’ho afferrato e non l’ho più lasciato...”

Scosse leggermente la testa, i capelli erano un lucido velario che la nascondeva a me. Li scostai piano. Due lacrimoni scendevano sulle gote.

“Perché queste lacrime?”

“Perché mi sembra di averti cercato da sempre.

Quando ti ho visto, solo poche ore fa, ho compreso di aver raggiunto la fonte della mia felicità. Mi sentivo assetata nel deserto, e tu sei apparso come la mia oasi di pace. Non ridere, ti prego, ti ho visto e mi so detta: Ecco! E’ lui.”

“Ma io sono qui, con te.”

“Per quanto, Piero? il Cantico dice: e non l’ho più lasciato. Ma sarai tu a lasciarmi.

Scusa, sto parlando stupidamente. Non si può lasciare quello che non si ha. Vero? Ed io sto imbastendo una storia, quasi un melodramma, su una sera trascorsa al cinema con un giovane che domani chissà dove sarà, e con chi.”

Alzò le spalle, tirò su col naso, aprì la borsetta e ne trasse un piccolo fazzoletto ricamato e profumato, lo avvicinò agli occhi.

“Scusami, Piero. Sono una sciocca sognatrice.”

Sullo schermo scorrevano immagini che non vedevamo.

“Molte volte, Dora, dipende da noi che un sogno rimanga tale, o meno. Potremmo leggere insieme quei versi, e non limitarci a ricordarne qualcuno. Io ho sempre con me la Bibbia. Che ne dici di rileggere il Cantico?”

La mia mano le carezzò il fianco, discese verso il ventre, lo sentì palpitare, fu accolta dal disserrarsi lento delle gambe, dal protendersi del bacino. Sollevai la gonna del leggero vestito, sentii la levigatezza della pelle, m’intrufolai, scostando il bordo delle mutandine, in un delizioso prato serico che si dischiuse ancor più al mio lieve sfiorare.

Mi mormorò nell’orecchio:

“Il mio diletto ha spinto la sua mano

nella serratura,

e le mie viscere si sono commosse per lui.

La gente ci può vedere, Piero, non seguitare, ti prego, sto perdendo ogni controllo... ti prego.”

Chiuse di scatto le gambe, tirò giù il vestito, si raddrizzò sulla poltroncina.

Prese la mia mano tra le sue, carezzandola, e si mise a guardare lo schermo.
* * *

Nell’atrio dell’albergo il padre e il nonno giuocavano a scacchi, come sempre. Il gruppo dei quattro, che avevo notato nella sala da pranzo, era seduto con alcuni bicchieri vuoti dinanzi, di lì a poco sarebbe iniziato il coprifuoco.

Il padre chiese com’era stato il film.

“Abbastanza bello, papà. Ma forse ho annoiato il signor Tenente. Un’altra volta chiederò a un’amica di tenermi compagnia. Farò così, signor Tenente, va bene?”

Scossi il capo.

“E’ stato veramente un piacere che mi abbia consentito di accompagnarla. E sarò lieto se mi considererà sempre a sua disposizione.”

“Venga al bar, signor Tenente, che ci togliamo la sete.”

Entrammo direttamente nel bar.

Dora andò dietro al banco.

“Cosa desideri?”

“Desidero te! Dolce, deliziosa, affascinante, splendida, incantevole, seducente, attraente, ammaliatrice.”

Il sorriso che era iniziato sulle sue labbra si mutò in un’espressione seria.

“Non so cosa stia capitandomi, Piero, tu mi turbi, è la prima volta che qualcosa mi sconvolge così, mi attrae e nel contempo mi spaventa. Non so come dire, non riesco a spiegarmi... Mi sento folgorata. Mi sembra di stare sulla riva d’un lago splendido, le cui acque non attendono che cullarmi, deliziarmi... ma ho paura di affogare.

Desidero rileggere il Cantico, con te, sulle tue ginocchia, tra le tue braccia, ma temo che quella lirica possa trasformarsi nel mio canto del cigno...”

“E se, invece, fosse il nostro inno all’amore?”

“Inno senza domani, Piero!”

“Dora, la luce della folgore, a volte, indica la via da percorrere. Il domani dipende molto da noi. Noi stiamo facendo discorsi seri, come se ci conoscessimo chissà da quanto tempo, e non sono nemmeno ventiquattr’ore da quando ci siamo incontrati. Forse questo spiega tutto. Ci dovevamo trovare perché ci siamo cercati da sempre, perché le nostre strade confluiscono, e se è scritto che dovremo percorrerle insieme, sarà così. Comunque, mentre intorno a noi è guerra, lotta, distruzione, morte, noi rischiamo di perderci per sempre, solo perché temiamo il domani. Un domani che non sappiamo se ci sarà


Sì, potrebbe anche accadere che tutto sia solo una parentesi, ma perché, eventualmente, non ricordarla come il periodo più bello della nostra vita? Nel buio profondo si è accesa una luce, perché spegnerla adesso? Per tema che si estingua? Senza sapere se e quando?

Io salgo nella mia camera, aprirò la Bibbia dov’è scritto:

Alzati, amica mia,

mia bella, e vieni!

Fammi vedere il tuo viso,

fammi udire la tua voce!

Voce che legge le parole d’amore che già millenni orsono cantavano le figlie di Gerusalemme.

Ti amo, Dora, da prima d’incontrarti.”

“Buona notte Piero!”

“Dipende da te, Dora.”


Tornai nell’atrio, salutai, salii lentamente le scale, entrai nella camera, dalla valigia presi la Bibbia e la misi sul tavolino, aperta dove cominciava il Cantico.

Mi preparai per la notte.

Mi sdraiai sul letto, lasciando accesa la luce del comodino. Le mani sotto la nuca, lo sguardo al soffitto.

Mille pensieri affollavano la mente, sentivo che poteva trattarsi di qualcosa di molto serio.

Non so, forse m’ero assopito.

Sentii il lieve cigolare della maniglia, guardai, si abbassava lentamente. La porta si dischiuse. Dora era avvolta in una vestaglia rosa, semiaperta, che lasciava intravedere la bianca camicia da notte, velata. Lasciò cadere la vestaglia, venne verso me. I capezzoli, eretti, prepotenti, tendevano la stoffa, quasi a perforarla. Il bianco serico della camicia si scuriva sul pube. Spense la luce sul comodino.

Si adagiò accanto a me, si voltò, e mi baciò con inaspettata passione.
* * *

Dalla finestra entravano le prime luci del giorno.

Dora, discinta, deliziosamente affranta, sedeva in braccio a me. Il seno sfiorava il libro, con voce un po’ roca, lesse:

“ Il mio diletto è per me

ed io sono per lui:

la voce del mio diletto che bussa:

aprimi sorella mia, amica mia,

mia colomba perfetta.

Ho levato la mia tunica

come indossarla di nuovo? “


Mi porse il libro.

Seguitai:

“ Le curve dei tuoi fianchi

sono come monili.

Il tuo ombelico è una coppa rotonda.

Il tuo ventre è una coppa di grano

contornato di gigli.

La tua statura assomiglia alla palma

e i tuoi seni ai grappoli.

Salirò sulla palma,

afferrerò i rami più alti.

E mi siano i tuoi seni

come i grappoli della vite...”

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