Dora

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His love during his military life.
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Il treno rallentava.

Il rumore delle ruote sui binari indicava che stavamo entrando in stazione.

Sembrava quasi fermo.

Adesso era fermo del tutto.

Quasi tre ore, tra le più calde, per percorrere poco più di cento chilometri.

Due panini col salame e una mezza bottiglia di minerale, mangiati nella ritirata, perché mi sentivo a disagio farlo nello scompartimento, di fronte agli altri viaggiatori. Ero in divisa.


Si aprivano e chiudevano gli sportelli delle vetture: qualcuno scendeva, altri salivano.

Un uomo gridava a squarciagola: doveva essere il nome del paese, ma non si capiva nulla. O non capivo io.


La stazione era un piccolo edificio scuro, abbastanza ben tenuto. Un campanellino suonava ininterrottamente. Il manovale di servizio andava verso gli scambi. Chi era sceso si avviava all’uscita. Poca gente.

Dall’altra parte, verso l’aperta campagna, numerosi tronchi, in cataste alte almeno due metri, formavano tanti quadrilateri ai quali mancava un lato. Sembrava una fila di “fortini”, come quelli visti nelle pellicole western. Erano assenti vedetta e bandiera.
Presi la valigia dalla reticella, la poggiai sul pavimento della vettura, aprii lo sportello e scesi sul marciapiede, guardandomi intorno per vedere se c’era qualcuno che potesse aiutarmi. Mi venne incontro un vecchio, con un carrettino cigolante.

“Le serve aiuto?”

“Si, grazie, potrebbe portarmi il bagaglio al Comando Zona?”

“Certo. E lo lascio a nome di chi?”

Gli detti il mio nome e domandai quanto volesse per il servizio.

“Faccia lei.”

La somma che gli diedi dovette soddisfarlo, perché si tolse il berretto e mi ringraziò.

“Segua la strada che inizia dalla stazione fino alla provinciale, prosegua verso il paese, giungerà a una piazza con la chiesa, seguiti ancora e alla prima curva, sulla sinistra, troverà il Comando. Non può sbagliare, c’è la sentinella armata dinanzi al portone.”

Si allontanò tirando il carretto sul quale aveva posto la mia valigia.

La strada, leggermente in discesa, era ricoperta d’una fine polvere rossastra, la stessa che avevo notato vicino i vagoni merce fermi sui binari morti.

Raggiunsi presto la “provinciale”, poi la piazza.

C’era un bar. Avevo sete. Entrai. Ero l’unico cliente. La ragazza al banco mi accolse con un sorriso radioso, chiese cosa desiderassi. Mi propose una orzata alla menta.

Al mio cenno d’assenso mise sul piano di marmo, di fronte a me, un luccicante bicchiere su un piattino. Dallo scaffale, dove erano in fila numerose bottiglie, ne prese due: una bianco latte e l’altra verde scuro. Versò nel bicchiere un po’ di quegli sciroppi e lo riempì sotto il rubinetto.

“Ghiaccio?” Domandò.

“No, grazie.”

Con un lungo cucchiaino mescolò, rapida e attenta, e mi guardò sorridendo di nuovo.

“E’ arrivato adesso, vero?”


“Appena sceso dal treno.”

“Si tratterrà a lungo?”

“Credo di si. Sono assegnato al Comando Zona.”

“Capisco. Ma ci sono molti distaccamenti, anche abbastanza lontani.”

“Io dovrei restare qui.”

“Dove alloggerà?”

“Non so ancora nulla. Mi auguro di poter alloggiare in foresteria.”

“Io non glielo consiglio. La foresteria non si trova nell’edificio del Comando. Le camere sono tristi e squallide, ricavate nel vecchio castello che è stato anche prigione politica. Inoltre, lei non avrebbe nessuna riservatezza, non potrebbe ricevere visite. Ogni movimento, entrata, uscita, è controllato dalla sentinella. La cosiddetta foresteria è in un’ala della caserma.”

“E si trovano alloggi in paese?”

“Molte famiglie affittano delle camere, anche confortevoli. Sa, hanno bisogno di guadagnare qualcosa, specie quando gli uomini sono lontani, a fare il soldato. Se posso aiutarla, disponga di me. Ho tante amicizie. Il paese è piccolo, ci conosciamo tutti. Se decide di non restare in caserma mi venga a trovare.”

Era entrato un uomo anziano, ed era andato a sedersi dietro l’angolo del banco che fungeva da “cassa”.

La giovane gli si avvicinò e lo baciò sulla guancia.

“Ciao nonno, stavo parlando col signor Tenente che è arrivato da pochi minuti, gli ho detto che se gli serve una camera si rivolga a noi.”

Il vecchio si alzò e mi tese la mano.

“Benvenuto tra noi, signor Tenente, mi auguro si trovi bene, e cerchi di compatire qualche testa matta che ogni tanto si abbandona a intemperanze. Lei mi capisce...

Noi siamo a sua disposizione, come ha detto Dora.”

Mi strinse la mano, vigorosamente, come se dovessimo stringere un patto, d’amicizia.

Pagai, ringraziai per l’accoglienza e andai verso l’uscita. Mi voltai a salutare.

“Arrivederla, Dora,”

“Arrivederci, signor Tenente. Torni presto.”

* * *

Il Comando non era lontano.

Una palazzina, a sinistra della strada, con la sentinella su una pedana di legno, dinanzi al grosso portone.

Mi venne incontro un graduato, e disse che il mio bagaglio era in un angolo del corpo di guardia. Io dovevo presentarmi all’Aiutante Maggiore, al primo piano. A destra del cortile v’era la scala. Il piantone mi avrebbe annunciato. Prima, però, mi pregava di mostrargli un documento di riconoscimento.

Gli mostrai la tessera rilasciatami dal Ministero, sulla quale era indicato “Servizi Speciali”. Lesse il tutto e mi guardò fisso. Mi restituì il documento e mi salutò con forte battere di tacchi. Mi sembrò che ci fosse un particolare messaggio di rispetto. O di curiosità.

Il Maggiore Federico Marini era l’Aiutante Maggiore. Molto più giovane di quanto mi aspettassi. Con mia somma sorpresa si alzò, al mio entrare, e mi venne incontro tendendomi la mano.

“Caro Orsini, benvenuto tra noi. Non c’è bisogno che si presenti. Il Colonnello Vera, che mi onora della sua amicizia, mi ha parlato di lei a lungo. So tutto di lei. Pochi minuti orsono anche il Generale Catarini, conversando col nostro Comandante, il Generale Sironi, si è informato se lei fosse giunto a destinazione. Come vede, è atteso. Ma si segga, prego.”

Prima ancora di sedere dove mi aveva indicato, in un angolo della stanza, vicino a un tavolino basso che unitamente a un piccolo divano e due poltrone formava un salottino semplice ed elegante, lo ringraziai per l’accoglienza e gli dissi che mi auguravo di non deludere né lui né chi mi aveva presentato con tanta affettuosa generosità.

Sedette e premette il pulsante che era sul tavolino.

Entrò subito un soldato.

“Comandi signor Maggiore.”

Marini mi chiese se volessi un caffè o preferissi della birra fresca.

“Se posso, Signor Maggiore, prenderei una birra, grazie.”

“Allora” -disse rivolgendosi al soldato- “due birre, e che siano ben fresche.”

Il soldato uscì silenziosamente.

“Sono certo, caro Orsini” -riprese il Maggiore- che ci sarà di grande aiuto, le sue note caratteristiche lo garantiscono e il Generale Catarini, comandante il corpo d’armata, non è facile a giudizi lusinghieri come quelli espressi nei suoi confronti. Ho seguito alcune lezioni, del Generale Catarini, alla scuola di guerra, e conosco la sua severità. E poi, lei è uno dei più giovani Tenenti, non ha ancora ventitré anni, vero?”

Sorrisi e assentii col capo.

“Lei conosce i suoi compiti, e sta a lei organizzarsi. So bene che prima dovrà guardarsi intorno per scegliere i suoi uomini. Lo faccia con tutta la calma che occorre anche se, come lei sa bene, la situazione richiede il massimo delle informazioni possibili. Il suo ufficio sarà accanto al mio. Ma, a proposito, sa dove alloggiare? Noi abbiamo alcune camere riservate agli ufficiali, ma per varie ragioni non le consiglio di fruirne. Meglio avere una certa libertà. Se le serve posso farla aiutare dal sergente maggiore Magnani per cercare una buona sistemazione.”

Entrò il soldato, su un vassoio una bottiglia di birra, quelle col tappo a leva, e due bicchieri. Mise tutto sul tavolino, aprì la bottiglia, riempì i bicchieri. A uno sguardo del Maggiore uscì dalla stanza.

Marini riprese a parlare.

“Per questa sera e per quanto tempo sarà necessario alloggi al piccolo Albergo del paese, faccia portare lì i suoi effetti. Attende altro bagaglio?”

“Si, signor Maggiore, ho spedito una cassetta che dovrebbe giungere domani.”

“Consegni lo scontrino a Magnani e penserà lui a farla ritirare. Adesso vada pure in albergo, a rinfrescarsi. Ci vediamo tra un’ora e mezzo, la presenterò al signor Generale.”

Si alzò e mi tese nuovamente la mano. Aspettai che andasse dietro la scrivania, raggiunsi la porta, mi voltai, salutai e uscii.
* * *

L’ingresso dell’Albergo San Marco era proprio accanto al bar dove m’ero fermato a bere l’orzata alla menta. Una modesta porta a vetri, della quale non mi ero accorto passandole dinanzi, e una piccola insegna col nome.

Un soldato vi aveva portato la mia valigia preannunziando che vi sarei andato di li a poco.

Nel piccolo ingresso sedevano due uomini, abbastanza anziani, che giuocavano a scacchi. Al mio entrare uno si alzò e venne verso di me.

“Sono il proprietario, signor Tenente. Ho fatto portare la sua valigia nella camera al secondo piano, che ha tutti i servizi. Sa, le camere sono otto, ma solo due, una per piano, dispongono dei servizi individuali. Vedrà che ci starà comodo. Di notte la strada è silenziosa, al massimo potrà sentir passare la pattuglia che gira per il paese durante il coprifuoco, dalle undici della sera alle cinque del mattino.

Se ha bisogno di qualcosa non ha che da suonare il campanello. L’acqua calda è autonoma, c’è un piccolo scaldabagno. Se vuole un caffè o altro, lo chieda. Il bar di mio fratello è accanto a noi. Io sono lo zio della Dora, la ragazza che lo ha servito appena arrivato in paese.”

Gli strinsi la mano e cominciai a salire la scala.

La camera, numero 8, era ampia, pulita, ariosa. I mobili modesti ma ben tenuti: un letto alla francese, di quelli che vengono detti “a una piazza e mezzo”, il comodino, un armadio a una sola anta, con lo specchio, il comò col piano di marmo, un tavolino, due sedie. Il bagno, piccolo e anch’esso pulito. La biancheria, le coperte, tutto denotava ordine e pulizia.

Dalla valigia presi la divisa che chiamavo “buona” e una camicia pulita. Per fortuna non s’erano fatte delle false pieghe, tutto era ancora ben stirato. Spolverai bene gli stivaloni, mi lavai, mi rivestii. Ero pronto per tornare al Comando, ma mancava più di mezz’ora.

Scesi nell’atrio.

Dora era in piedi, vicino alla porta, leggeva il giornale.

Bella ragazza. Alta, bruna, gambe snelle, fianchi rotondi, ventre piatto, seno appena prosperoso ma perfettamente proporzionato al resto. I capelli, leggermente ondulati, le carezzavano le spalle ben modellate. Il volto dolce. Negli occhi neri, profondi, si leggeva il desiderio e la gioia di vivere. Sopracciglia deliziosamente disegnate, labbra non eccessivamente rosse, bellissime e intonate al roseo della pelle liscia e vellutata. Mani lunghe, dita sottili e curate.

Sentendomi scendere le scale si voltò verso di me.

“Ci vediamo presto, signor Tenente. Non speravo tanto...”

E sorrise, con le labbra che si schiudevano su piccoli candidissimi denti, con gli occhi, col volto, con tutta la sua persona.

“... lo prende un aperitivo? glielo porto subito.”

I due uomini non c’erano più, era rimasta la scacchiera, sul tavolino, con i pezzi in disordine. Sedetti su una sedia.

“No, grazie, signorina...”

“Mi chiamo Dora, signor Tenente.”

“No, grazie, Dora, devo andare subito al Comando. E se non le sembro tanto vecchio mi chiami Piero.”


“Non so se riuscirò a farlo, lei è un ufficiale, e il militare che ha portato la valigia ha detto che è importante e conosce tanti pezzi grossi al Comando generale...”

“Lasci stare le chiacchiere, Dora, sono un semplice Tenente, alla vigilia dei ventitré anni.”

“Io sto per compierne diciotto, ho finito pochi giorni fa la scuola. Spero di fare la maestra, qui in paese o in una scuola rurale. Mi piace parlare, ciacolàr, come diciamo qui, e con gli scolari lo potrei fare, sperando di non annoiarli. Mio padre mi dice spesso: basta, te prego, Dora, ti non ti riessi a tasèr? Ma parlo troppo anche adesso, non è vero signor Tenente?...”

Al mio sguardo di scherzoso rimprovero, si riprese.

“Non è vero sior Piero?”

“Ma Dora, cosa c’entra quel ‘sior’!”

Scosse un po’ la testa, strinse le lebbra.

“Credo che non dirlo saria massa confidensa, ma va ben, come la vòl: vero Piero?”

“No, non parla troppo, e poi è bello ascoltare la sua voce, e soprattutto quelle espressioni in dialetto. Ma devo andare, Dora. Arrivederci.”

“Sior... no, Piero, questa sera al cinema, c’è un film con la Calamai e Nazzari. Non le piacerebbe vederlo? Comincia alle otto e mezzo precise e finisce in tempo per tornare a casa prima del coprifuoco. Perché non ci va?”

“Si, mi piacerebbe, ma non so a che ora potrò essere libero. Arrivederci.”

Uscii.

* * *

Chiesi al piantone di annunciarmi all’Aiutante maggiore. Quando entrai nella sua stanza, Marini mi disse che per l’avvenire avrei dovuto bussare direttamente.

Si alzò, andò alla porta alla sua sinistra, nascosta da una pesante tenda, bussò, entrò. Dopo qualche istante ricomparve.


“Venga, Orsini, il signor Generale l’attende.”

Mi fece entrare e richiuse la porta dietro di se.

Il Generale era dietro la scrivania ricoperta con vari incartamenti. Ad una parete un tavolo con numerose cartelle, su un altro tavolo alcune mappe topografiche.

“Avanti, Orsini, avanti.”

La sua voce era calda, baritonale, senza inflessioni dialettali. Occhi grigi, sguardo fermo, senza allegria e senza mestizia, e neppure severo. Sembrava interrogare, cercare, indagare, scavare, investigare.

Mi fermai, sull’attenti, dinanzi al suo tavolo.

Mi tese la mano.

“Stia pure comodo, segga.”

I capelli cortissimi, con molti fili d’argento.

La divisa senza alcun nastrino, la civetteria di chi ritiene di non aver bisogno di segnali esteriori per far sapere chi è, cosa ha fatto.

“Il Maggiore Marini già le ha dato il benvenuto, e io desidero ripeterlo. Domani faremo una lunga chiacchierata. Adesso devo ricevere le autorità civili e politiche e credo che l’incontro si dilungherà per molte ore, per cui non sarò a mensa per la cena. Lei pensi a sistemarsi e se vuole può essere anche esonerato dalla mensa, per questa sera, così potrò presentarla io agli altri, prima che l’assalgano con mille curiosità.

Curiosità, Orsini, non interesse.

Arrivederci.”

Mi alzai di scatto, salutai, uscii.

Tornai dal Maggiore per informarlo che il Generale mi aveva messo in libertà e che avrei profittato del permesso di non essere a mensa, quella sera.

Marini mi disse che ci saremmo rivisti l’indomani alle otto. La mensa era aperta per la prima colazione sin dalle sette. Se volevo potevo andare a vedere l’ufficio che aveva fatto preparare, accanto al suo. Senza attendere la mia riposta premette il pulsante del campanello e al piantone disse di chiamare il sergente maggiore Magnani e di farmi accompagnare nel mio ufficio.

“Anzi, no” -aggiunse- “Il Tenente entrerà nel suo ufficio direttamente da qui, e tu di a Magnani di raggiungerlo e mettersi a sua disposizione.”

Si alzò, sollevò la tenda di fronte a quella che conduceva dal Comandante e aprì la porta.

“Qui è il suo territorio, lo occupi e lo sappia ben difendere da qualsiasi attacco. Perché non ne mancheranno.”

Mi strinse la mano e chiuse la porta, dopo che io fui entrato in quella che sarebbe stata la mia stanza di lavoro.

Dopo poco udii bussare, al mio “avanti” entrò Giambattista Magnani, sergente maggiore di carriera, ligure, scapolo, con un volto gioviale e amichevole.

Si presentò e anche lui mi dette il benvenuto.

Sapeva che alloggiavo al San Marco e disse di considerarlo a mia disposizione per qualsiasi cosa potesse occorrermi, anche sul piano personale.

Gli strinsi calorosamente la mano. Lo ringraziai. Ci saremmo rivisti l’indomani.
* * *

Tornai lentamente all’Albergo.

Nell’atrio v’era una porta della quale non m’ero accorto prima. Una piccola targa d’ottone recava una scritta, quasi illeggibile perché il nero dell’incisione era sparito del tutto: Bar. Girai piano la maniglia. Nel locale non c’era nessuno. Si sentivano delle voci provenire dal retrobottega. Per attirare l’attenzione feci un colpetto di tosse. Apparve subito Dora.

“Cosa posso servirle...?”

Compresi, dal tono, che aveva troncato la frase, forse non sapeva come rivolgersi a me, se chiamarmi Piero, o meno.

“Nulla, per ora, grazie, ma volevo sapere se c’era un ristorante, qui vicino, perché questa sera non vado a mensa, e da questa mattina ho mangiato solo un paio di panini.”

“Quasi di fronte, nella piazza, a destra della cattedrale, c’è il Leon d’oro. Ma se vuole, possiamo pensarci noi. Ai clienti dell’Albergo che lo desiderano, serviamo colazione e pasti. A fianco della scala che porta ai piani superiori, nell’ingresso, c’è una piccola sala da pranzo. Solo che non abbiamo, specie di questi tempi, una grande varietà di portate.”

“Per me va benissimo, preferisco non andare in giro, e non desidero che fare una discreta cena, qualsiasi cosa ci sia da mangiare. Ma, a che ora si cena?


“Normalmente alle sette e mezzo, alle 19,30 devo dire, ma se vuol variare non deve che chiederlo. Per questa sera abbiamo preparato uno sformato di patate e della carne ai ferri con insalata. Ho anche fatto un dolce semifreddo, con frutta e panna.”

“Non parli più, per favore, perché ho già l’acquolina in bocca e manca più di un’ora alla cena. Ma mi dica, Dora, bisogna acquistarli prima i biglietti per il cinema? Io vi andrei volentieri, ma lei... mi... accompagna?”

“Certo, certo, del resto lei non sa dove si trovi e non è facile... i biglietti si comprano poco prima dell’inizio dello spettacolo... le ho detto che comincia alle otto e mezzo, basta stare li dieci minuti prima, e quindi uscire di casa alle otto e un quarto. Le va bene cosa c’è per cena o desidera qualcosa d’altro? Adesso, però, le porto un biscotto salato per chetare lo stomaco fino alle sette e mezzo.”

Si assentò un momento e tornò con una ciambellina dorata su di un piattino.

“Una sola” -disse- “per non guastare l’appetito. Ma ne ho portato anche per me, le faccio compagnia. Vuole anche uno sprisso? ”

Senza attendere risposta prese un calice, vi versò del vino bianco e lo allungò col seltz. Pensò un istante, poi ne prese un altro e lo riempì allo stesso modo.

“Le faccio compagnia in tutto, anche se non dovrei. Non voglio ingrassare.”

Il biscotto era ottimo, il vinello gasato delizioso.

Le dissi di mettere tutto sul mio conto dell’albergo. Mi guardò sorridendo annuendo col capo.

“Vado un po’ in camera, e scenderò alle 19,30 precise. Ciao.”

“Ciao.”

Tornai nell’atrio e risalii in camera.
* * *

La “sala da pranzo” non era molto vasta. Pochi tavolini, apparecchiati con cura e gusto. Tovaglie e tovaglioli candidi, bicchieri tersi, posate lucide. In mezzo a ogni tavolino un piccolo portafiori di vetro con alcuni fiorellini di campo.

Mancava qualche minuto all’ora che avevo detto. A un tavolo, un signore, solo, leggeva il giornale. Poco distante un gruppo di quattro persone di mezza età, due uomini e due donne. Abiti abbastanza modesti, ma ben stirati.

Dora venne subito, mi chiese che tipo di vino desiderassi, mi suggerì un “collio” che tutti apprezzavano molto. Le risposi che non ero un gran bevitore e, quindi, me ne bastava pochissimo.

Prese un taccuino e una matita, come se volesse annotare qualcosa. Ma non serviva, sapevo già quello che sarebbe stato servito. Abbassò la voce.

“Scusi, ma volevo dirle che forse sarebbe bene, per lei intendo, non uscire insieme a me per andare al cine, ma vederci in sala...”

La interruppi, e con lo stesso tono le dissi che per me andava bene, anzi benissimo, uscire con lei, anche perché, come aveva detto in precedenza, non sapevo dov’era il cinema, e... temevo di perdermi.

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