Urmia Stella D'Oriente

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Urmia. The Star of Orient.
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I

Hans guardò l'orologio. Ancora dieci minuti e per il personale ci sarebbe stato l'intervallo per la colazione.

La segretaria lo informò che era arrivato Monsieur Parmier.

"Lo faccia entrare."

Pierre Parmier era intorno ai quarantacinque anni, statura media, appena stempiato, sguardo vivace, intelligente, indagatore. Abito scuro, di ottimo taglio. Andò verso la scrivania di Hans e si fermò presentandosi.

"Sono Pierre Parmier. Le chiedo scusa per il ritardo, ma il treno é rimasto fermo in una piccola stazione, per oltre tre ore, a causa di un guasto alla linea elettrica. E dire, che avevo preferito il treno, all'aereo, per evitare i possibili inconvenienti dovuti alla nebbia invernale."

Hans gli tese la mano e gli fece cenno di sedere.

"Si. Ho ricevuto la comunicazione che mi ha fatto giungere dalla stazione dove ha perduto tutto quel tempo. Sto uscendo per la colazione, rivediamoci tra un'ora."

Pierre s'alzò, fece un cenno di saluto col capo e uscì.

Parmier sapeva che Mueller era considerato un ottimo tecnico. Aveva lavorato all'estero in posizioni di sempre maggiore responsabilità. Ora gli era stata affidata la direzione generale della società della quale il 'Gruppo' aveva acquisito il controllo.Conviveva con una donna divorziata, dalla quale aveva avuto un figlio, rimasta nella precedente residenza a circa centocinquanta chilometri di distanza. Era un tipo solitario e in questa società non conosceva nessuno, per cui aveva chiesto alla 'capo-gruppo' di inviargli degli ottimi elementi che gli consentissero di costituire un team sul quale poter contare incondizionatamente. E Pierre era destinato ad esserne il key-man.

Hans mangiò, con non necessaria fretta e svogliatamente, un panino, al bar della vicina piazza, e tornò presto nella Rue Mars, fermandosi a guardare a lungo l'imponente edificio nel quale trascorreva la maggior parte del suo tempo. Nulla di particolare: alto e scuro come tutti gli altri, un po' tetro, con un portone grandissimo, di legno, anch'esso bruno. Dalle ampie finestre si vedevano le luci, già accese malgrado l'ora, e i tendaggi che le ornavano. Nulla che ricordasse le linee moderne e i luccicanti vetri della moderna sede della 'capo gruppo'.

L'ampio scalone di marmo, col corrimano di legno lucido e pomi d'ottone, era coperto, al centro, con un tappeto cremisi tenuto fermo da listelli anch'essi d'ottone, per attutire il rumore dei passi.

L'anticamera di Hans, dal parquet lucidissimo, era arredata con una consolle col piano di marmo, sormontata da uno specchio che recava inconfondibili le tracce del tempo, divano e poltrone verde scuro, come le cortine del balcone. Alla parete dov'era il sofà era affissa, in una cornice dorata, la 'Patente' con la quale S.M. le Roi autorizzava la Società ad esercitare l'attività per la quale era stata costituita.

Accanto alla pesante porta che conduceva nello studio di Hans, una pergamena recava i nomi dei Presidenti succedutisi nel tempo. Nomi illustri, di gente cui era stata affidata la presidenza in riconoscimento dei servizi resi allo Stato. Nomi appartenenti alla nobiltà d'un tempo, alla finanza di sempre.

La porta s'aprì e la segretaria l'informò che Monsieur le Directeur Générale l'attendeva.

Mueller era dietro il grande tavolo in stile ricoperto di carte. Sembrava più piccolo di quanto in effetti fosse. Gli occhi socchiusi per evitare il fumo azzurrognolo che saliva ininterrottamente dalla sigaretta che stringeva tra le labbra. Il volto volutamente inespressivo. Indicò la sedia, tolse la sigaretta dalla bocca.

"Parmier, conosco a memoria la sua cartella personale e sarò lieto se accetterà di venire qui ad aiutarmi. Per lei, in cambio, un lusinghiero avanzamento nella carriera e un sensibile miglioramento economico. Per ogni dettaglio, sappia che saranno applicate le procedure in vigore nel 'Gruppo'. Sono a conoscenza che, almeno per il momento, non trasferirà qui la famiglia. Le sarà possibile, in ogni caso, raggiungerla spesso, sia per i nostri interessi in quella città, sia per i rapporti che dovrà curare con le autorità centrali."

Aveva parlato con tono incolore, aspirando spesso la sigaretta che andava consumandosi rapidamente. Ne spense i resti nel portacenere di porcellana bianca che aveva alla sua sinistra. Strinse le labbra, abbassò la testa, la rialzò e guardò fisso Pierre.

"Ho letto che ha servito nell'Armée e nella Resistenza, é blessé pour la Patrie, e anche decorato."

Alzò il mento e tirò il collo.

"Io, invece, ho collaborato coi Tedeschi. Sono stato, come dite voi, dalla parte sbagliata, ed ho passato lunghi mesi in un campo di concentramento. Sorvegliato dagli uomini della Résistance."

Si fermò di colpo, come se attendesse risposta.

Pierre restò impassibile. Poi disse calmo:

"Anch'io ho letto la sua cartella personale, Monsieur le Directeur, prima di decidere se venire a conoscerla o meno. E' una vecchia deformazione professionale che mi trascino da quando, come sa, ero responsabile del servizio informazioni della Divisione. Ho anche comandato un campo di raccolta di collaborazionisti filotedeschi. Il campo 204. Non una fuga, non una punizione, nessun gesto d'indisciplina da parte degli internati, e dei miei uomini. Anch'io, come lei, trarrò vantaggi di carriera ed economici se verrò assegnato a questa società. Questo dipende da lei."

"Per me va benissimo" -disse Hans- "può occupare il suo posto fin da questo momento."

"Poiché sono abituato ad esaminare e valutare con i miei familiari i problemi che li coinvolgono, le darò una risposta entro domani."

"Telefonerà ai suoi?"

"Torno a casa subito, col primo aereo. Mia moglie e i miei figli mi attendono per una festicciola familiare. Sarò qui nelle prime ore di domani."

Hans si alzò e gli tese la mano.

"Buon viaggio."

Quando Pierre uscì, accese una sigaretta borbottando "te la farò pagare, figlio di puttana".

* * *

Mueller era entrato a far parte del Consiglio d'Amministrazione, il cui Presidente, molto anziano, apparteneva a una famiglia d'antica nobiltà alla quale da sempre erano stati affidati compiti di altissima responsabilità. Nel regno e nella repubblica, nelle armi e nella finanza.

L'Amministratore Delegato e alcuni consiglieri erano Israeliti.

Hans era rispettosissimo con tutti, cortesissimo, spesso mellifluo, poco meno che servile. Esponeva i problemi con competenza e pacatezza, ascoltava con grande attenzione i vari interventi, per identificare l'orientamento della maggioranza e schierarsi subito con quella parte, nascondendo in un sorriso accattivante la reale portata della macchinazione concordata coi politici, veri detentori del potere economico nel 'Gruppo'.

Il vecchio presidente era consapevole che sarebbe stato presto sostituito e che Hans lavorava a tal fine. Percepiva, anche, che Hans gli era ostile non tanto per eseguire l'ordine ricevuto dai politici quanto per astio, l'odio atavico del servo verso il padrone. Lui, del resto, considerava Hans un servo, preparato e capace, certo, ma sempre un servo che si prostituiva moralmente cercando di superare il complesso d'inferiorità che non riusciva a vincere malgrado le lusinghiere affermazioni professionali raggiunte. La sua rabbia derivava dalla coscienza di essere, in sostanza, un "portaborse", sia pure importante, della disonesta classe politica dominante.

Aveva bazzicato le case di ricchi, da bambino, dove sua madre, nubile, doveva lavorare sodo per farlo studiare. I ricchi, specie al suo paese, erano spesso Ebrei. Razza inferiore, traffichina e subdola, che andava eliminata. La soluzione dei Nazisti, in effetti, era l'unica per liberarsi dai luridi Giudei. E lui li aveva visti, tremanti e imploranti, quando era andato a prelevarli, coi camerati tedeschi, per avviarli ai campi dai quali non sarebbero più tornati.

Ora sedeva in Consiglio, e anche qui i ricchi ebrei avevo i posti di comando.

Il giovane Amministratore Delegato era tra i più affermati nel mondo finanziario, con interessi saggiamente diversificati e sagacemente curati. Avvertiva quasi materialmente l'odio di Hans, sapeva di essere considerato un 'nemico naturale', e che s'avvicinava sempre più il momento in cui anche lui sarebbe stato defenestrato dall'incarico. Alla presidenza sarebbe andata una losca figura del marciume politico e Hans avrebbe preso il suo posto e avrebbe seguitato a chinare la schiena, al nuovo e vecchio padrone, indignato e sgomento per le malefatte di cui doveva necessariamente essere complice per conservare il posto cui puntava.

Hans soffriva per il ruolo che doveva sostenere, perché avrebbe volentieri eliminato, anche fisicamente, questi disonesti che, a ben pensarci, erano peggiori degli Ebrei. I nuovi potenti erano incuranti del male che facevano agli altri, schiacciavano inesorabilmente chi non rubava con loro e per loro. Aveva aderito ai nazisti per vendicare le umiliazioni e gli stenti patiti dalla madre, le ingiustizie subite dalla società che aveva consentito a un ignoto 'signorino' di ingravidare una povera giovane e poi abbandonarla a fare la serva. Sua madre. Quella società non lo aveva difeso, e allora lui s'era rivolto a chi, anche se straniero e secolarmente nemico del suo Paese, gli consentiva di sparare, di distruggere la causa di tutti i suoi mali. Si sentiva il 'giustiziere' che avrebbe annientato i padroni d'un tempo, gli Israeliti, riscattato la madre.

E non sapeva di avere sangue ebreo nelle vene.

Lavorava sodo, la poltrona di Amministratore Delegato gli faceva gola, ma era soprattutto il piacere, la voluttà di scacciare l'Ebreo e di sedersi al suo posto, a dargli la forza di resistere a quel ritmo.

E doveva andar via anche il Direttore Tecnico, per lui doppiamente esecrabile per aver militato nella 'resistenza' e per aderire, ora, a un partito di sinistra. Lui, Hans, era un tecnico e avrebbe saputo far andar bene le cose anche se il sostituto Emil Laudel non avesse avuto la competenza e l'esperienza necessarie.

Nel settore finanziario doveva sopportare, almeno per il momento, chi c'era. In tutto il 'Gruppo' non avrebbe trovato persone di pari preparazione.

Purtroppo aveva anche bisogno di Pierre Parmier, altro 'resistente', per fortuna non simpatizzante per le 'sinistre'.

Che sciocco, Pierre, aveva legato subito col vecchio Presidente e con l'Amministratore Delegato, con persone destinate al patibolo societario. Il 'resistente' Pierre non sapeva resistere al fascino della nobiltà, della ricchezza, non comprendeva la indiscussa superiorità della razza ariana, uber alles.

Quando rimuginava queste cose, Hans dilatava le narici, stringeva i denti fino a sentir male alle mascelle.

* * *

Trillò il telefono. "Monsieur Mueller, madame Divani chiede di lei."

"Me la passi."

Un breve 'clic'.

"Hans? ho chiamato sul tuo telefono diretto ma non ho avuto risposta. Stai bene?"

"Si, cara, ma cosa c'é di nuovo? Mi chiami troppo spesso."

"Hans, non ti sento da ieri..."

La voce era calda, dolce, lenta, con una seducente inflessione esotica.

* * *

Urmia portava il nome del calmo e splendido lago, Orumiyeh, che specchiava il cielo, poco distante dalla sua Tabriz. Ma come quel lago poteva, d'un tratto, incresparsi, adirarsi, divenire furiosa.

E la furia covava nel suo seno, nel caldo polveroso di Bandar-Abbas, lontana dalla sua terra, a 1600 chilometri dall'Azeirbaigian, dove la sua gente, discendente di Hamdan al-Mansur, il vittorioso, aveva portato la luce del Profeta.

Vivere a Bandar, con un uomo arido come le sue cifre e i suoi calcoli, veri compagni e unico scopo per lui, era un inferno. Tutto il resto non contava. Kadar era Musulmano ma non comprendeva come si potesse perdere tempo a pregare più volte al giorno, o digiunare fino a sentirsi male. Lui era orgoglioso di definirsi 'cartesiano puro', logico matematico, uomo della scienza e della tecnica, uscito con la massima classifica da una delle più prestigiose Università del mondo.

Le famiglie avevano combinato le nozze, senza che gli sposi si conoscessero. Per lui andava bene così, tanto una donna vale l'altra, s'era detto, e l'amore in queste cose non c'entra. Quindi niente coinvolgimento dei sentimenti, niente tenerezza, comprensione, passione, neppure nei momenti di fugace e distratta intimità.

Hans era apparso a Urmia come "colui che salva", e lei si considerava Anaita, "colei che é liberata dalle catene", "colei che é senza macchia".

S'era presentata in tutto il suo rigoglioso splendore.

"Più bella della solitaria rosa del deserto." Aveva detto Hans, baciandole la mano. E il marito aveva sorriso per convenienza, perché per lui quella donna era un arido cespuglio di spine che gli rendeva la vita difficile, impossibile, tanto che l'avrebbe già ripudiata se non avesse temuto di scatenare una faida familiare. Ora, forse, si presentava l'occasione per allontanarla, almeno per qualche tempo.

L'aereo che aveva portato Hans a Bandar Abbas sarebbe venuto a riprenderlo, e avrebbe fatto scalo ad Abadan prima di raggiungere Teheran, da dove Hans sarebbe ripartito per il suo Paese. Era un'occasione da non perdere. Con un indefinibile sorriso sulle labbra, Kadar si rivolse alla moglie.

"Sono certo che senti la mancanza dei tuoi, della tua terra, Urmia, e se a Hans non arreca fastidio potresti profittare del suo aereo per andare fino a Teheran. Da lì potresti prendere il volo di linea per Tabriz. I tuoi ne sarebbero felici, ne sono certo. Questo, logicamente, se non ti pesa troppo lasciarmi per qualche giorno e se Hans lo permette. Io fra due settimane dovrei essere a Teheran, dove potremmo incontrarci per rientrare insieme a Bandar Abbas. Che ne dici?"

A Hans non sfuggì il lampo che attraversò gli occhi di Urmia, ma già represso quando disse che certamente sarebbe stato bello riabbracciare i genitori, che l'aria di Tabriz sarebbe stata un balsamo miracoloso per la sua salute, così provata dal pessimo clima di Bandar Abbas, che si sentiva combattuta tra il piacere di un breve ritorno a casa e il dover lasciare solo il suo sposo, e che, soprattutto, non avrebbe voluto essere di fastidio a monsieur Mueller.

"Anche l'aereo sarà felice per la sua presenza, madame, e si rammaricherà di doversi separare da lei a Teheran."

Intervenne galantemente Hans.

Due giorni dopo, il bagaglio di Urmia fu caricato sul Jet della compagnia, la donna salutò formalmente il marito, Hans ringraziò Kadar dell'ospitalità, scambiò con lui un caloroso abbraccio (benché non fosse ariano), s'imbarcò e andò a sedere sul lungo divano, accanto a Urmia.

L'aereo decollò rapidamente.

II

"Raoul, per favore, chieda di variare il piano di volo e di poter atterrare a Kuwait City." Disse Hans, rivolgendosi al pilota attraverso l'interfono.

Urmia era raggomitolata, con una sciarpa di seta che le copriva quasi completamente il volto, come uno chador.

Raggiunta la quota di crociera, Hans le si avvicinò di più, le prese la mano e le parlò in tono sommesso. Cose senza nessuna importanza. Le dita di lei gli percorsero il palmo, in una lieve carezza.

Le cinse la vita con un braccio, la attirò a sé, scostò la sciarpa da quel viso incantevole e la baciò appassionatamente. Ardentemente corrisposto.

L'interfono gracchiò: "Monsieur Mueller, nessun problema per atterrare a Kuwait City."

"Grazie Raoul" -rispose Hans- "lei potrà ripartire per Teheran quando vorrà."

"Hans" -sussurrò Urmia- "stiamo facendo una sciocchezza, viviamo dove vige la legge coranica che é inesorabile, non perdona avventure del genere. Mio marito potrebbe invocarla, ripudiarmi con disonore, da noi si arriva anche ad essere bandite dalla società... perfino lapidate. Dobbiamo riflettere. Un momento di smarrimento, l'attrazione, non sono elementi sufficienti per giustificare ciò che può distruggere la mia vita, per sempre. Forse dovremmo andare a Teheran, dovrei proseguire per Tabriz e risvegliarmi da un sogno troppo bello perché possa realizzarsi. Se non vado a Tabriz adesso non potrò andarci mai più. Cerca di comprendermi. Ho conosciuto solo Kadar, non so cosa sia l'amore, non so nulla..."

Hans le sfiorò il volto con una carezza.

"Devi essere serena, devi riflettere, certamente, ma in fretta. E' vero: subito Tabriz o forse mai più. E' anche vero che non dobbiamo offrire a nessuno l'opportunità di farti del male. Ma é soprattutto vero che ho pensato di vivere con te, per sempre, dal primo istante che mi sei apparsa, visione d'incanto. Sarà un'avventura, si, ma durerà tutta la vita, lontani da qui, nel mio Paese che dovrà essere anche il tuo."

Le sfiorò le labbra, le baciò gli occhi bagnati di lacrime.

"Se non vuoi restare con me, ti porterò a Tabriz, subito."

Lo ascoltava col viso che andava perdendo ogni segno di preoccupazione illuminandosi in un sorriso meraviglioso.

"Hans, fermiamoci a Kuwait City. Solo una sera. Ti seguirò dovunque vorrai, e fino a quando vorrai. Posso scegliere per la prima volta nella mia vita, e scelgo l'uomo che attendo da sempre. Una sola notte, o per sempre, come vorrai..."

La voce del pilota informò: "Monsieur Mueller, abbiamo iniziato la discesa per Kuwait City."

* * *

Non era facile trovare posto in albergo se si giungeva senza prenotazione, ma la telefonata dall'Aeroporto, 'sostenuta' dalla promessa di 'un verdone' aveva messo a disposizione di mister Mueller l'ultima, ma proprio l'ultima -aveva giurato il recepionist- suite rimasta.

La comoda limousine correva velocemente, sull'ampia autostrada, verso il centro della città, verso l'Intercontinental, vicino al KAC, Kuwait Air Center. Le strade erano affollate, la sera scendeva rapidamente.

Alla 'Reception', con un largo sorriso, l'impiegato confermò la sistemazione, mentre ritirava il passaporto di Hans dal quale sporgeva un biglietto da 100 dollari, e assicurò che il bagaglio 'stava salendo'.

Urmia era silenziosa. Entrò nell'ascensore con Hans, ed esitò un istante prima di uscirne, al piano. Poi avanzò lentamente, vicina all'uomo, lungo il corridoio, fino alla porta che l'accompagnatore aveva aperto. Si fermò istintivamente, per farlo entrare per primo. Hans le sorrise: "dopo di lei, madame." Con un profondo sospiro varcò l'uscio, solo un passo, restò immobile, sentì la porta richiudersi, la chiave girare nella toppa. Non si mosse.

Hans le posò una mano sul braccio.

"Sono sicuro che vorrai riposare un po'..."

La sentì trasalire, irrigidirsi.

Continuò cortese: "...prima di cena, e che vuoi sentirti libera di farlo. Vedi, su questo salotto si aprono due camere, scegli quella che preferisci, io andrò nell'altra, farò una doccia e scenderò nel bar ad attenderti. Non avere fretta. Prenoterò un tavolo per la cena. Posso ordinare lo champagne?"

Lei gli strinse la mano, annuì con la testa, non poteva parlare, un nodo le serrava la gola. Senza guardarlo s'avviò, rigida, verso la camera di destra, entrò senza chiudere la porta. Hans si avvicinò all'uscio e lo accostò, piano, senza far rumore. Andò nella sua camera.

* * *

La vide subito, quando apparve allorché si aprì l'ascensore.

Una visione irreale, fiabesca. Sangue arabo e sangue armeno uniti in un capolavoro di bellezza e di grazia. Snella, meravigliosamente tornita, fasciata da preziose stoffe tessute dalla maestria della sua gente, con incedere maestoso e languido nel contempo, lasciava intendere il fuoco che le ardeva dentro, donatole da Sahand, il vulcano della sua terra.

Improvvisamente ci fu un silenzio innaturale. Cessò il brusio delle conversazioni, si fermarono tutti, il barman con lo shaker a mezz'aria, ad ammirarla nel suo incedere regale verso Hans che le andava incontro estasiato.

Era radiosa, i lineamenti perfetti, il viso illuminato da un lieve sorriso. Gli occhi sfavillanti comunicarono a Hans la sua decisione, la sua scelta, la sua promessa, il suo desiderio.

Si avviarono verso il ristorante, mentre riprendevano i soliti rumori, il vociare, il tintinnio dei bicchieri.

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