Moshi Moshi

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A Japanese Love.
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"Capital Tokyu" è l'hotel dove mi reco, di solito, quando la mia attività mi porta a soggiornare nella capitale nipponica. L'indirizzo è un po' lungo 'Nagata-cho Chioda-Ku', ma gli autisti dei taxi lo conoscono bene. Basta dire il nome dell'albergo e, traffico permettendo, ci arrivi.

Non è certamente a buon mercato, no, non è un 'chip hotel', l'ultima volta che ci sono stato, non è da molto, la twin mi è stata fatturata 33.000 yen per notte, oltre le tasse, s'intende. Ma per gli stranieri Tokyo è, forse, la città più cara del mondo.

Mi avviavo al bar, avevo bisogno di dissetarmi.

Dal bancone si stava allontanando, venendo nella mia direzione, una figura femminile che avrei detto uscita da una raffinata rivista di moda orientale. Non molto alta, snella, flessuosa, con corti capelli nerissimi, un visetto incantevole, indossante una lunga tunica, con generosi spacchi, d'un celeste indescrivibile. Incrociandomi, mi sorrise gentilmente, e proseguì con quel particolare muoversi felino che devono avere le tigri quando passeggiano nella giungla. Avevo notato due appuntite tettine, non grosse, che premevano la stoffa. Mi voltai. Un sederino nervoso e tondeggiante muoveva la serica tunica, e suscitava i pensieri che si possono immaginare.

Mi avvicinai al bancone, chiesi al barman se fosse una ospite dell'albergo.

"No, signore, è una 'moshi moshi girl'.

"Ah, una 'sempre pronta', una di quelle?"

Sorrise divertito, pur sempre gentilissimo.

"No, signore, le 'moshi moshi girls' sono quelle che rispondono al telefono, quando lei chiama dalla camera. Ricorda certo che nella nostra lingua il suo 'pronto' o l'internazionale 'allò' si dice, appunto, 'moshi moshi'.

"Grazie. E' un particolare tipo di giapponesina..."

"No, signore Da Lo è Vietnamita."

"E' molto bella, elegante. Come può una centralinista vestire in modo così costoso?"

"Da Lo è molto bella. Certo, i suoi vestiti costano più del suo stipendio. Ma Da Lo è ricca. Ed è qui da noi per un'esperienza particolare, una specie di ricerca sulla comunicazione, sul comportamento. Uno studio sociologico, credo. Fra due settimane ci lascerà."

"Come posso incontrarla?"

"Telefoni al centralino e chieda di Da Lo. Forse gliela passeranno. Non lo so."

"Grazie, arrivederla."

La mancia che lasciai valeva l'informazione. Era interessante.

La voce di Da Lo era dolce, musicale, piacevole come la sua persona. Attraente, carezzevole.

Pur nella massima cortesia, dapprima aveva un modulazione che cercava di mascherare una certa diffidenza, poi, quando le dissi che anche io, in Italia, in un certo senso mi interessavo pure di problemi della comunicazione, accettò di incontrarmi. Andava bene vedersi in albergo, si, ma per conversare sarebbe stato meglio andare altrove. Parlava un ottimo inglese. Certamente migliore del mio. Andava bene nel pomeriggio? Lei sarebbe stata libera all'ora del tè. Inoltre, l'indomani aveva la giornata a completa disposizione.

Certo aveva avuto modo per farsi indicare dove fossi.

Si avvicinò all'angolo in cui ero seduto, intento a sfogliare il Nippon Times, con un sorriso smagliante, in un elegantissimo abito da passeggio. Questa volta svasato nella gonna e con una camicetta appena aderente.

Mi alzai.

"Miss Da Lo! I'm Piero Martini."

"Mister Martini."

"Prego, si vuole accomodare?"

"Preferirei uscire dall'Hotel."

"D'accordo. Ha già in mente dove andare?"

"Certo. Ha una sua auto?"

"Se non ha nulla in contrario, preferirei il taxi."

"D'accordo."

Ci avviamo all'uscita. Uno sguardo al gallonato portiere, un segno di questi, e apparve subito un taxi. Salimmo. Da Lo disse qualcosa, in Giapponese, l'auto si allontanò dal marciapiede, s'avviò verso il luogo indicato.

"Vede, mister Martini, è un Club Vietnamita, mi sento come a casa mia. E' gente molto riservata, e preparano un tè squisito."

"Perfettamente d'accordo."

Ci avviammo verso la periferia, un viale abbastanza appartato, un cancello. L'auto si fermò. Scendemmo e pagai la corsa. Fummo accolti da un compitissimo cameriere che salutò rispettosamente la donna. Ci pregò di seguirlo. Evidentemente Da Lo aveva preavvertito la sua visita. Ci condusse in una saletta appartata, con l'ampia vetrata che dava su di un piccolo giardino: delle piante, grossi sassi sapientemente disposti, come per caso, il verde d'un ruscello che scorreva limpido e nel contempo smeraldino.

Sedemmo sul divano. Da Lo fece un piccolo cenno del capo, comparve un ragazzo con il necessario per il tè, lo mise sul basso tavolino, dinanzi a noi. I due uomini scomparvero in silenzio, richiudendo la porta dietro di loro.

"Complimenti, miss Da lo, è un luogo incantevole."

La ragazza mi sorrise.

"Da Lo è il mio nome, significa 'nero-chiaro', mi hanno chiamata così perché sono nata alle prime luci dell'alba, quando il cielo, appunto, passa dal nero della notte al chiaro del sole."

"E' molto romantico."

"Lei mi ha detto che, in un certo senso si occupa di comunicazione."

"Si, oltre alla mia normale attività, presso un importante gruppo petrolifero italiano, mi interesso anche di un corso di specializzazione all'Università. La materia è, appunto, la comunicazione, come si può considerare, le diverse caratteristiche, significato dei messaggi, eccetera. Il tutto con particolare riferimento sia alla comunicazione all'interno della propria struttura che verso l'esterno."

"Molto interessante."

"Non le nascondo che non saprei quale punto mi maggiormente spinto a chiederle questo incontro: la curiosità per il suo attuale temporaneo lavoro, o l'interesse per una fanciulla così incantevole."

"Quale ha prevalso?"

"Mi sento a disagio."

"Ho capito. Non deve sentirsi in difficoltà, una donna è sempre lieta di essere oggetto di interesse e attenzione. Credo che capiti a tutte le donne della terra."

"Grazie per la sua comprensione, ma mi sembra come se stessi facendo un biasimevole tentativo di aggancio. Non so se rendo l'idea."

"Perfettamente, mister Martini..."

"Piero, per favore."

"E adesso che è qui, è rimasto deluso? Vuole tirarsi indietro? E' rimasto deluso?"

Mi guardava senza particolare espressione nel volto. No, non era adirata. Anzi, sembrava divertita.

"Perché mi ha fatto venire fin qua? Per dirmi questo?"

"Prima di tutto perché preferisco giocare in casa, come si dice in gergo sportivo, e poi perché non credo che abbia mai attirato l'attenzione di un europeo. Sono curiosa anche io. O forse interessata. Lei è mai stato in Vietnam?"

"Purtroppo non conosco il suo Paese."

"Ha mai avuto contatti con Vietnamiti?"

"Mai."

"Allora, siamo pari: reciproca sconoscenza dei nostri popoli."

"Ma, la prego, mi dica qualcosa di lei."

"Prima preparo il tè."

Aveva gesti precisi, misurati, rituali. Il tè fu pronto abbastanza presto, me ne porse una tazza.

"Scusi, Da Lo, perché fa la 'moshi moshi girl' al Capital? Sono indiscreto?"

"Come Europeo non lo é. Noi, orientali, non avremmo mai posto una domanda così direttamente. Ma non ho nulla da nascondere. Del resto è mia abitudine non nascondere nulla... di quello che voglio dire... o mostrare."

Fece un sorrisetto che non era facile comprendere se fosse divertito o malizioso. Proseguì.

"Sono nata ed ho vissuto quasi tutta la mia vita ad Haiphong, dove termina il Song Coi, il Fiume Rosso. Mio padre che si interessava di esportazione di carbone e zinco, da Quang Yen, è stato da tempo inviato qui, a Tokyo, come addetto commerciale del nostro governo. Io vorrei interessarmi di Public Relations, vorrei conoscere la tipologia della clientela straniera, come vive, come si comporta, soprattutto come comunica. Quale migliore punto di osservazione del Capitol?"

"Devo dedurre che parla diverse lingue."

"Non molte, purtroppo. Conosco, ovviamente, il Vietnamita, data la vicinanza della Cina il Cinese ufficiale, considerato il luogo dove sono il Giapponese, e per ragioni di studio l'Inglese e il Francese."

"E' difficile il Vietnamita?"

Fece una risatina argentina.

"No...per chi lo sa! E' una lingua un po' particolare, pensi che quello che correntemente chiamiamo Vietnam si chiama ufficialmente Viet Nam Cong Hoa Xa Hoi Chu 'Nghia!!"

"Per me non è facile ricordarlo per intero."

"Anche per me."

"Senta, Da Lo, appagata la mia curiosità sulla comunicazione, mi consente di contentare anche il mio interesse, almeno in parte, per l'affascinante figlia del Viet, accettando un invito a cena?"

"Ho sempre ritenuto che il Giappone fosse il paese della velocità, dat il treno che corre come il vento, ma vedo che gli Italiani non sono da meno."

"Siamo il paese della Ferrari. Conosce la Ferrari?"

"Certo, è l'auto dei miei sogni, my dream car."

"Allora?"

"Una cena? Dove?"

"Al Mikana, è il golden temple della tempura. O sbaglio?"

"No, se lo si considera dal lato dei turisti. Ma lei, conosce la cucina vietnamita?"

"Devo confessare la mia assoluta ignoranza in materia."

"Che ne direbbe, allora, di una serata vietnamita?"

"Meraviglioso. Dove?"

"Si lasci guidare. Farò chiamare un taxi."

Mi guardavo intorno perché non mi rendevo conto dove stava dirigendosi l'auto. Il Percorso, comunque, era abbastanza lungo, eravamo in una zona molto verde, con piccoli edifici, simili a bungalow, quasi nascosti nella vegetazione. Il taxi si fermò dinanzi ad un cancelletto che non distinguevo se fosse di vero bambù o solo imitazione.

Da Lo, che non aveva detto una parola durante il percorso, limitandosi a guardarmi di sfuggita di quando in quando, sfoderò uno di quei suoi incantevoli sorrisi e mi fece cenno di scendere. Il taxi ripartì.

"Dove siamo Da Lo?"

"A casa mia. Dove potresti vivere una sera più vietnamita che a casa di una vietnamita?"

Aprì il cancello, entrammo. La porta s'aprì, silenziosamente, e una giovane, in vestiti del suo paese, ci accolse sorridendo. Mi fece entrare. Era una casa che, certamente, riproduceva esattamente lo stile del suo paese

"Vieni."

Lo so che non è facile in inglese –dato che parlavamo in questa lingua- stabilire esattamente se ci si dà o meno del 'tu'. Ma il tono confidenziale, quasi di complicità, mi induceva a ritenere che, sia pure senza ben comprenderlo, Da Lo era decisamente sul familiare. Mi balzò un sospetto: ma che non sia una cortigiana d'alto bordo? Mah!

Eravamo entrati in una specie di sporgenza dell'edificio, dal lato interno, del giardino, con tre grandi vetrate sul verde che abbelliva il retro della casa. Guardavo intorno, sorpreso e compiaciuto per l'eleganza e la semplicità dell'arredamento. Bassi sedili, molti cuscini...

Da Lo mi guardava con quel suo enigmatico sorrisetto sulle labbra.

"Benvenuto. Noi usiamo mettere a suo pieno agio l'ospite. Gli offriamo subito un bagno e un abito comodo. Logicamente un abbigliamento del nostro paese. Questo, prima di desinare è rilassante e predispone al gustare il cibo. Vuoi seguire i nostri costumi?"

Non sapevo che rispondere. Esitai un attimo. Mi decisi.

"Certo, un proverbio dice che quando sei a Roma devi fare quello che fanno i Romani..."

"Allora vieni."

Mi tese la mano e mi condusse in una camera adiacente dove, al centro, troneggiava una specie di letto con sopra una veste che aveva qualche sembianza coi kimono che si trovavano in albergo. Era, però, di una stoffa pregiata, più ricca, e di un colore che si avvicinava all'azzurro.

"Dopo quella piccola porta è la vasca. Se vuoi aiuto non hai che da tirare il cordone rosso."

Uscì, lasciandomi solo.

Ormai ero in ballo. Mi spogliai, infilai le semplici pantofole che erano accanto al kimono, andai nella stanza dove la vasca mi attendeva, piena d'un liquido appena lattiginoso che emanavo un gradevolissimo profumo. Mi sembrava fosse sandalo.

Era molto piacevole sentirsi in quel tepore. Effettivamente rilassante. Socchiusi gli occhi. Dopo qualche minuto sentii la voce di Da LO.

"Come va?"

Era in piedi, vicino alla vasca, in una lunga vestaglia color rosa. I capelli sempre lucidi e neri.

"Tutto bene, grazie."

"Allora, se vuoi uscire. La cena sarà pronta tra qualche minuto."

Si avvicinò alla vasca con un telo aperto, invitandomi a lasciarmi avvolgere in esso.

Un attimo di indecisione. Ero nudo. Poi pensai che, ormai, l'alea era stata tratta. Dovevo seguire lo svolgersi degli eventi.

Da Lo, del tutto a suo agio, mi aiutò ad asciugarmi, mi porse una specie di pettine, e quando fui pronto mi fece indossare quello che io ho battezzato il kimono vietnamita. Così, sulla pelle, non misi neppure la biancheria intima. Evidentemente era l'uso, e certo anche lei doveva avere quella vestaglia come unico abito. Ai piedi le pantofole, leggere e ricamate.

Andammo nella sala a vetri. Era pronto un basso tavolino e dei cuscini. Mi fece segno di sedere.

Ero veramente confuso, mi sembrava sognare, era tutto così strano, imprevisto, fiabesco. Chissà cosa mi attendeva.

La ragazza che ci aveva accolto venne con un vassoio sul quale erano delle ciotole che pose dinanzi a ciascuno di noi.

"Questo è il Pho, una zuppa di taglierini di riso. Spero ti piaccia."

Erano deliziosi, leggeri, appetitosi. Le dissi che doveva fare i complimenti alla cuoca.

Seguirono gli 'involtini' con una speciale salsa, tipica della loro terra. Anche questa era una vera ghiottoneria.

Da Lo mi guardava compiaciuta.

Mi disse che aveva fatto preparare una specie di bevanda ricavata dalla distillazione del riso, una specie di sake, ma molto più aromatica e gradevole. Mi assicurò che non aveva il potere di ubriacare.

"La tua presenza e la tua accoglienza sono queste che mi inebriano, mi fanno sentire avvolto in una atmosfera d'incanto, di sogno. Grazie Da Lo..."

"Sono lieta che ti piaccia. Ora, mentre tu ti accomodi su quei cuscini e sarà liberato la mensa, io vado a prepararmi per quella che spero sia per te una gradevole sorpresa. Mentre usciva dalla stanza, apparve la ragazza che ci aveva servito e rapidamente liberò il centro del vano. S'inchinò e uscì.

Qualche impianto, nascosto nelle pareti e ricoperto dalla tappezzeria, cominciò a diffondere una musica lenta, di strumenti esotici, con vibrare di corde e tintinnare di campanellini. Sulla porta apparve Da Lo, coperta da voluminosi pantaloni di leggerissimo e trasparente velo, e con un corpetto della stessa stoffa. La stoffa non nascondeva nulla della sua bellezza. Anzi. Un seno piccolo, ben disegnato, sodo e provocante, con piccoli frutti scuri su ogni affascinante meravigliosa collina. Corpo flessuoso, che ti faceva pensare al giunco. Gambe snelle, magnificamente tornite, che lasciavano intravedere, al loro incontro, un piccolo cespuglio corvino. La lunga magnifica schiena terminante in una pesca che invitava ad essere addentata. Un frutto voluttuoso, eccitante, seducente. Gli anulari e i pollici delle mani erano ornati di piccoli piattini d'ottone. Era scalza.

Si fermò di fronte a me. La sola vista m'eccitava.

"Questa è una danza rituale. E' quella che voi definite la danza di Salomé. Le movenze del corpo, e soprattutto le mani, le dita, il ritmo, interpretano e trasmettono il messaggio che in essa è racchiuso."

Cominciò a muoversi con eleganza, ma anche con movenze sensuali, che dicevano del desiderio e dell'offerta, delle promesse e delle attese, in un linguaggio nel contempo senza sottintesi e pudico, certo per eccitare sempre più il destinatario di quella esibizione voluttuosa e provocante.

Al termine, s'accasciò ai miei piedi, ansante e sorridente, guardandomi negli occhi, scorrendo con essi tutta la mia persona, soffermandosi dove neppure l'abito poteva nascondere l'effetto prepotente di quanto m'era stato offerto.

Si alzò, mi tese la mano, mi condusse nella camera adiacente, quella col gran letto centrale. Un letto circolare, ricco di cuscini.

Piccoli gesti e si liberò dei piattini che le ornavano le dita dei veli che la cingevano, Andò ad adagiarsi sul letto, così, meravigliosamente nuda, poggiandosi sulle mani che aveva dietro la schiena, le gambe fuori dell'alcova, il capo appena riverso, gli occhi sfavillanti. La voce sensuale.

"I'm deeply aroused, Piero."

"Anche io, Da Lo, sono eccitato."

"I see. Lo vedo."

Lasciai cadere quella specie di tunica, restai nudo, come lei...

Guardò fissamente l'erezione del mio sesso.

"Non immaginavo..."

"Cosa?"

"You know, Piero, conosco solo il mio ragazzo, è di Phog, come me, ma é...come dire... diverso.."

Intanto mi ero avvicinato al letto.

"Cioè?"

"I dont thing my bell fit for your clapper ... non credo che la mia campana sia adatta al tuo batacchio..."

"Non temere, Da Lo, tutto dipende dal bell-ringer, dal campanaro..."

"Temo che... you are gutting me... mi sventrerai..."

La baciai sugli occhi e le carezzai il seno, titillando i capezzoli che s'inturgidarono ancor più. Le sfiorai le labbra con la lingua, tra le tettine, nel piccolo ombelico, sempre più giù.. frugai nel piccolo boschetto nero dei suoi riccioli. Rimaneva ferma. Alzai il volto per guardarla. Mi fissava meravigliata.

"What are you doing... cosa fai?"

"Ti bacio."

"Laggiù? Così?"

Ero in ginocchio, di fronte a lei. Posi le mani sulle ginocchia, dissertandole, le sue graziose grandi labbra, color albicocca, erano tumide, intrufolai la mia lingua tra esse, ancora oltre. Ecco il suo piccolo bottone d'amore che m'accoglieva sorpreso e fremente, la sua piccola vagina che palpitava sentendosi penetrata...

Si rovesciò sulla schiena, afferrò i miei capelli.

"Piero... Piero... this is the first time... si la prima volta... che mi sento invasa...like this... in questa maniera... it's sensational... sbalorditivo... yes... yes...I'm coming... vengo...aaaaaah.."

Assaporai il frutto del suo orgasmo, mentre il grembo sussultava irrefrenabile al guizzare della mia lingua in lei. Sentivo che era il momento di appagare la mia frenesia. Mi alzai, posi il mio glande in quell'entrata calda e viscida provai a spingere. Mai incontrata una michetta così stretta. La cosa mi eccitava sempre più. Dovevo entrare. Dovevo. Lei, istintivamente, alzò il bacino, ancora un altro po' del mio sesso la penetrò, accolto da inebrianti palpiti, come lunghe e lente peristalsi che si adoperavano per accogliere in lei il mio pestello ardente. Il suo volto era estatico, gli occhi chiusi, il respiro affannoso. Proseguii l'ingresso in quella sorta di paradiso, e sentivo che Da Lo diveniva sempre più cedevole, ricettiva, fin quando non percepii che ero giunto al suo sussultante e avido utero. Si, il mio glande era in quel tiepido e assetato muso di tinca. Il campanaro aveva saputo usare il suo batacchio, e la campana stava vibrando al suo tocco.

Un lungo gemito sfuggiva dalle sue labbra. Si muoveva sempre più appassionatamente, quasi fosse in preda ad un raptus incontenibile, e mugolando parole per me incomprensibili. Mi artigliava i glutei, ne guidava il moto, e percepii le vette del suo piacere, il suo orgasmo, lungo e squassante, che raggiunse intensità quasi convulsive quando si sentì invadere dal mio seme incandescente che le avvolse l'utero.

Ci mise un po' a riprendersi. Ero ancora su lei, in lei. Aprì gli occhi e mi guardò incantata.

"Piero, non immaginavo che potesse esistere tutto ciò."

Mi serrava stretto, in lei. E quel contatto mi provocava una nuova completa erezione. Se ne accorse subito, logicamente.

"Yes, Piero, again... ancora."

Quando l'abbraccia stretta, e mi girai per farla salire su me, mi guardò con una certa aria di delusione.

"Piero, non vuoi?"

"Ti voglio, honey, ma vieni tu su me."

"Su te?"

Ormai era già sul mio petto. Tutto era avvenuto con estrema facilità, Le carezzai le natiche. Lisce, delicate, ma sode, come una pesca fascinosa.

"Ride me, Da Lo...cavalcami... horse me... come se fossi il tuo thoroughbred, il tuo purosangue..."

"Yes, you are..."

L'aiutai a.... salire in sella.

Fu una galoppata selvaggia, da novellina... esperta, e fu lei a guidare il giuoco, come volle, con piccole grida di vittoria, senza conoscere ostacoli, senza stanchezza, inesauribile, con la rara e preziosa capacita di tenere ben stretto in lei il mio sesso e di strizzarlo fino all'ultima goccia.

ULISSE
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