Mar Rosso

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The Red Sea.
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In quel periodo dell'anno fa notte presto.

Era quasi buio. La pioggerellina metteva un senso di tristezza. La gente, vociante, si aggirava come se avesse fretta. In effetti, non aveva fretta nessuno.

Con l'ombrello aperto, o incuranti dell'acqua che scivolava sull' impermeabile, i più si soffermavano, curiosi, davanti alle vetrine piene di dolciumi e di regali. Si guardava, si commentava la qualità, il prezzo. I più anziani sottolineavano che "i dolci fatti in casa, però...", ma intanto andavano addò Caflish, per un "Santarosa", che solo Carraturo poteva mettersi a paragone.

Non era ancora l'ora di entrare a farsi una pizza, ma per una "fritta" mangiata "in piedi in piedi" ogni momento era buono.

Sotto la galleria, gli zampognari anticipavano la festa. In un angolo, alcuni ragazzi, con scetavajasse e putipù, ballavano, cantando "llero, llero, nun é 'o vero, o' zampugnaro ha 'cciso 'a mugliera..."

Il venditore sotto l'ombrellone, offriva cantilenando "sciuscelle e susamielle" imbiancati dalla luce dell'acetilene.

Le due carrozzelle erano giunte all'altezza del Carmine. Il cocchiere della prima, con una tela cerata sulle gambe per ripararsi dalla pioggia, si voltò per dire che là, al sedici di luglio, alla festa della Madonna, andavano tutte le carrozzelle della città, per ricevere la benedizione.

Attraversata la strada, entrarono nel varco e si avviarono al molo.

C'era molta confusione. Autocarri, carri tirati da cavalli, carrettini a mano, vagoni ferroviari che si muovevano disinvoltamente in quell'andirivieni caotico, con distratti deviatori che agitavano la lanterna rossa senza troppa convinzione.

Una spira di fumo, appesantita dalla pioggia e appena mossa dal vento, usciva da una delle ciminiere del piroscafo, accompagnata, di quando in quando, da uno sbuffo di vapore. Gli argani sollevavano, dai vagoni e da terra, i carichi che venivano ingoiati dalle stive.

La nave era illuminata come un albero di Natale. Aveva un aspetto pulito, quasi nuovo. In alcuni punti, lontani dalle zone di carico, erano affacciati uomini in divisa che s'illudevano d'essere uditi dai parenti sul molo. Si vedevano muovere le bocche, qualcuno portava la mano all'orecchio sperando di poter individuare la voce cara tra quello sferragliare e lo sbuffare del vapore. Era tutto un agitarsi di braccia, di caschi di sughero, color coloniale, che facevano parte della divisa caki; così strana in quella pioggia decembrina.

Le carrozzelle avevano scaricato persone e bagagli. Ultimi abbracci e raccomandazioni.

"Fateci sapere subito come siete arrivati..., tornate presto..., chissà che non veniamo anche noi..., voi, ragazzi, state attenti a bordo..., non prendete troppo sole..."

La raccomandazione sul sole poteva sembrare ironica a chi non avesse conosciuto la rotta della nave.

Ai piedi della scaletta, un gruppo di persone in divisa. Anche un prete era in divisa, coi gradi di capitano. Battute di tacchi, scattanti saluti romani e, malgrado il foglio d'ordini le avesse dichiarate residui di tradizioni borghesi, vigorose strette di mano.

L'altoparlante avvisò: "Tutti a bordo!"

Qualcuno si affrettò a salire.

Un altro fischio di sirena, e la scaletta fu ritirata.

A terra avevano tolto le gomene dalle bitte, e da bordo le stavano issando e le arrotolavano. A prua c'era il rimorchiatore. Il pilota del porto era al suo posto.

Quasi insensibilmente, la nave andava staccandosi dalla banchina. Ormai era notte fonda. La pioggia era cessata. L'acqua, a poppa, ribolliva sempre più a mano a mano che la nave si allontanava. A bordo giungevano sempre meno distinti i rumori e le voci da terra, mentre si faceva sempre più chiaro il pulsare delle eliche, il battito del cuore della nave che li avrebbe accompagnati per giorni e giorni. Molti erano rientrati nel salone, altri erano andati in cabina a disfare i bagagli al seguito e a prepararsi per il pranzo. I viaggiatori di terza classe, in genere militari e operai, restavano affacciati a veder la terra allontanarsi lentamente. Nelle altre classi, a seconda del grado, sottufficiali, impiegati, ufficiali, dirigenti, e molte famiglie che ritornavano nei territori d'oltremare, o raggiungevano il capofamiglia per la prima volta.

* * *

Paolo e Luciana andavano di nuovo in Africa coi genitori. Questa volta la destinazione era Addis Abeba, nuova sede di lavoro del padre, Sergio Rolli, ingegnere civile, e Capo di un importante Servizio tecnico dell'Impero.

Prima erano stati, per alcuni anni, all'Asmara.

Ada, moglie di Sergio, insegnante di lettere al liceo, era stata trasferita nella capitale dell'Impero.

La sistemazione era discreta, cabine centrali ed esterne, ma vi era qualche difficoltà d'ordine pratico. Anche questa volta, i ragazzi dovevano occupare la stessa cabina, come avevano fatto tre anni prima. Solo che ora erano grandicelli.

Nel viaggio di ritorno in Italia problemi non s'erano posti perché erano partiti prima Ada e Luciana, e il mese successivo Sergio col figlio.

Adesso, Paolo aveva superato i diciotto anni e Luciana stava per raggiungere i sedici. Ad Ada, però, non sorrideva l'idea di restare lontana da Sergio, la notte, per quasi due settimane. Il marito le sussurrò qualcosa in un orecchio e lei sorrise con maliziosa complicità e decise di condividere la cabina con Luciana. Sergio e Paolo si sarebbero sistemati nell'altra.

Al tavolo del Comandante, oltre i soliti ufficiali di bordo, sedeva la "gerarchia": Gavino Sanna, il Federale; Mario Salgati, Colonnello delle truppe coloniali; Don Aniello Santini, il Cappellano Capo.

A metà della "Sala Ristorante", vicino a una finestra, a sinistra, a un tavolo per sei v'era anche un seggiolone di legno naturale, come le altre sedie.

Quando Sergio chiese quale tavolo fosse assegnato alla sua famiglia, il Maitre fece un lungo e sconclusionato discorso per dire che il tavolo era uno dei migliori, centrale e quindi meno soggetto ai movimenti della nave, ed era certo che i Signori Rolli avrebbero gradito la presenza della Signora Russo, che andava a raggiungere il marito, medico all'Ospedale della Consolata di Addis Abeba, unitamente alla bambina di due anni.

Laura Russo era giovane e bella. Elegante, cordiale, allegra. Portata a fare subito conoscenza, anche amicizia. Fiorenza, la bimba, era biondissima, più della madre. Occhi azzurri, sempre sorridente, socievole. Le piaceva giocare con tutti, come fossero vecchi amici.

Sergio avrebbe voluto che le signore sedessero una alla sua destra e l'altra a sinistra, ma Laura, pur ringraziando, pregò per una diversa disposizione, così avrebbe potuto aiutare Fiorenza a mangiare.

"Vede, ingegnere" -disse con cadenza fiorentina- "è meglio che io sieda dall'altra parte del tavolo e avere Fiorenza alla mia sinistra, per imboccarla. Lei potrà stare tra la sua signora e la sua figliola."

Fiorenza era buonissima. Voleva fare tutto da sola, ed era tutta intenta a mangiare la minestra, col cucchiaio storto che aveva portato da casa. La maggior parte, però, le cadeva sul bavaglino di tela cerata o ritornava nel piatto. La mamma raccoglieva di nuovo la pastina e la imboccava, con piena approvazione e soddisfazione della bambina. Per il cibo a pezzetti, invece, le manine facevano a perfezione il loro servizio.

Paolo si rivolse a Laura:

"E' contenta di andare in Etiopia?"

"Senti, perché mi tratti come una vecchia? Quanti anni hai tu?"

"Vado verso i diciannove."

"Io ne compirò ventidue tra un mese. Non credi che ci si possa dare tranquillamente del tu, che ne dici? Anche tu, signorina bella, trattami come una sorella maggiore o, se non ti piace, almeno come una cugina, ma non troppo vecchia. Per rispondere alla tua domanda, mio caro, devo essere sincera. Sono contenta di raggiungere mio marito, che sia in Etiopia o in capo al mondo non importa. Lo sai che non ci si vede da quasi due anni? E che sono lunghi? E che non si riguadagnano più una volta perduti? Io mi sono sposata che non avevo diciotto anni, ed era per stare col mio uomo, non per saperlo a miglia e miglia di distanza."

"Laura ha perfettamente ragione." -intervenne Ada- "E in tutto. Io, da parte mia, per dare il buon esempio e per non sentirmi vecchia, anche se ho i figli grandi e mi sembra d'essere la nonna di Fiorenza, darò del tu a Laura, a condizione, però, che lei me lo ricambi."

"Grazie" -disse Laura- "anch'io darò del tu ad Ada, del resto ho una sorella di trentadue anni..."

"Si, altro che trentadue" -interruppe sorridendo Ada- "ne devi aggiungere quasi dieci."

E su questo tema, età, lontananza dal marito, come sarà mai Addis Abeba, che all'Asmara si stava bene, del villino al Gagirèt, e così via, Ada parlò a lungo, senza annoiare e senza monopolizzare la conversazione.

Chi stava zitto era Paolo che non riusciva più a rivolgersi a Laura, dovendole dare il tu. Ogni tanto la guardava per dire qualche cosa, ma restava zitto, e ammirava quella gran massa di capelli, più rossi che biondi, lucidi, con riflessi di rame, e le labbra, naturalmente vermiglie. Gli venne alla mente "occhialona", quella di Storia dell'arte, quando spiegava i colori del Tiziano, mostrando le riproduzioni di Amor Sacro e profano, Offerta a Venere, Bacco e Arianna, o parlava di Rembrandt, senza troppo soffermarsi, però, sulle donne che lui dipingeva.

Andarono a sedere sui comodi divani del salone. Un angolino tutto per loro. Quattro chiacchiere per conoscersi meglio.

Sergio si considerava un vecchio africano. Dopo qualche esperienza in Italia, era stato inviato in Libia, poi in Somalia e successivamente in Eritrea. Sempre con la moglie. I ragazzi, però, erano nati tutti e due a Roma. La moglie aveva insegnato al ginnasio di Asmara, e non appena le cose erano entrate, come sosteneva il Governo centrale, nell'ordinaria amministrazione ebbe l'assegnazione ad Addis Abeba. Paolo era un po' in anticipo negli studi, a diciassette anni e mezzo aveva conseguito la maturità classica, ed ora era iscritto a Scienze Coloniali, a Napoli. Luciana doveva sostenere gli esami di quinto ginnasio la prossima estate, forse ad Asmara, se non facevano una sessione speciale ad Addis Abeba.

Nei sei mesi trascorsi in Italia i ragazzi avevano sempre studiato. Paolo era stato a Napoli, dall'ottobre, dai parenti di Ada. Forse Laura li aveva visti sotto bordo, usciti dalle carrozzelle lucide di pioggia.

"Di me" -disse Laura- "non c'è gran che da dire. I miei sono mercanti d'arte, a Firenze, e con loro lavora anche mia sorella, e mio cognato ch'è critico d'arte al giornale. Mio fratello, che é medico da un anno, quando faceva pratica all'ospedale conobbe un dottorino napoletano che ci venne per casa, ed ora sono sua moglie. Ho fatto appena in tempo a divenir maestra. Intanto lui, il mio sposo, specializzato in medicina tropicale a Napoli, ha accettato di trasferirsi in Africa. Ha passato sei mesi a Massaua, che mi ha detto essere un inferno, come clima, poi é andato all'Asmara e di lì ad Addis Abeba, dove assicura di stare benissimo. Una volta stabilitosi nella capitale, ha chiamato me e la bambina. Non vi dico le raccomandazioni che mi ha scritto. Un romanzo a puntate. Devo stare attenta a tutto, guardarmi da tutti, specie durante il lungo viaggio in nave. Otello, a paragone di mio marito, é un sangue freddo. Ora, Fiorenza ed io, si va a vedere questo nuovo fiore, ma io spero che gli passi presto la fissa per l'Africa e che si torni a Firenze. Tutto qui."

I giovani ufficiali che parlottavano dall'altra parte del salone, avevano notato "la rossa", come l'avevano battezzata, e già pensavano di eleggerla "reginetta della traversata", la sera che si attraccava a Massaia, porto dove la nave avrebbe fatto scalo per tre giorni prima di ripartire per Gibuti..

"Ma pensate sempre le stesse cose."

Era il Cappellano, che aveva ascoltato i discorsi di quei giovani.

"Caro Cappellano" -disse il Federale- "non é alle cose che pensano questi baldi ragazzi, ma alla cosa. E voi sapete bene che in materia non si bada al colore. Come a dire che rouge e noir si equivalgono."

E si allontanò canticchiando questa o quella...

"Per Fiorenza é ora di andare a letto, e dato che sono stanca, andrò a riposare anch'io, sperando di poter dormire, con questo dondolio e questo rumore. Buona notte."

Laura s'alzò, prese Fiorenza in braccio e fece per avviarsi.

"Paolo" -disse Ada- "prendi tu la bambina e accompagna Laura. Buonanotte Laura, e buon riposo."

La costa era quasi invisibile. Il cielo nero, senza luna e senza stelle. Le luci della nave schiarivano la scia di poppa.

II

"Sapete" -disse Luciana- "a bordo ci sono anche i Francacci, ho incontrato Frieda. Ieri sera non sono venuti in sala, per questo non li abbiamo visti. Hanno preferito farsi portare solo un latte caldo e dei biscotti in cabina. Sono stati trasferiti anche loro ad Addis Abeba. Sei contento, Paolo?"

"Completamente indifferente."

Rispose Paolo, ma era divenuto rosso e aveva gettato lo sguardo verso Laura che stava dando da bere a Fiorenza.

S'avvicinò una ragazza. Abbastanza alta, snella, capelli biondo-scuri sciolti sulle spalle, gonna di panno e blusa di lana, d'un celeste pallido che ben s'intonava col colore dei capelli.

"Buon giorno, e felice di fare il viaggio con voi."

"Ciao Frieda" -rispose Ada- "Luciana ha detto che ti aveva incontrata. Non sapevo che al ritorno sareste andati anche voi ad Addis Abeba."

"Si" -rispose la ragazza- "papà dovrà interessarsi dei servizi telegrafici e telefonici di tutta l'Etiopia. Lei, allora, sarà ancora la mia professoressa, vero?"

"Credo di si, cara. Appena le cose saranno regolari. Ma ne sei sinceramente contenta?"

"Si e molto. Con voi si sta bene, s'impara con facilità, e avete un'affettuosa pazienza che a volte non hanno neppure le mamme."

(Nel parlare si passava spesso dal "lei", quasi sempre usato nelle conversazioni familiari e con amici, al "voi" imposto dal Ministro della Cultura Popolare, il minculpop. E viceversa.)

Luciana s'intromise.

"Beata chi la conosce solo come insegnante!"

Ada sorrise e domandò ancora, rivolgendosi a Frieda.

"Darai gli esami di licenza ginnasiale ad Addis Abeba?"

"Spero di si, perché non vorremmo dover tornare in Italia per questo. Alla peggio andrò all'Asmara. Paolo, invece, deve andare a Napoli per i suoi esami, vero?"

E senza attendere risposta si voltò verso Paolo.

"Ciao, peccato che faccia freddo fuori, altrimenti avremmo potuto fare una passeggiata. Che ne diresti di una partita a dama?"

"Ciao Frieda" -rispose Paolo- "sono lieto di rivederti. La partita, però, la dobbiamo rinviare perché questo mare mi provoca un po' di nausea. Grazie, vedremo nel pomeriggio."

"Laura" -disse Anna- "questa é Frieda, una cara e brava ragazza, figlia di nostri amici e mia allieva. E' compagna di classe di Luciana e spesso viene a trovarci. E' figlia unica."

Rivolgendosi alla ragazza:

"Frieda, la signora Laura Russo va a raggiungere il marito, che é medico ad Addis Abeba. Quella splendida e buonissima bambina é Fiorenza, la sua figliolina."

Frieda sorrise a Laura. Poi, con Luciana, andò a sedere sulle sedie a sdraio della passeggiata coperta. Ada disse che si sarebbe fermata a leggere nella sala, dove Sergio giocava a carte con altri conoscenti.

Laura si rivolse a Paolo.

"Se non hai altro da fare e non ti annoi, resta un po' con me. Ho saputo che conosci bene l'inglese, così puoi darmi qualche lezione. Ti va?"

Sedettero sul divano, in un angolo. Fiorenza, sul tappeto, cullava la bambola.

"E' bella Frieda. E' la tua ragazza?"

Gli chiese guardandolo fisso.

"No"

Rispose Paolo con gli occhi fissi al pavimento.

"Ma una ragazza ce l'hai, vero?"

"No"

"Puoi guardarmi, sai? Ancora non sono riuscita a stabilire bene il colore dei tuoi occhi. Guardami!"

E gli spostò il volto con la mano bianca, curatissima, dal tocco delicato.

"Sono decisamente neri, nerissimi. I miei, invece, sono scialbi. Guarda."

Lui la guardò intensamente.

"Vedo. Sono azzurri e profondi come il cielo e il mare nei giorni di sole. Bellissimi."

"Bravo, sei anche galante. E non dirmi che non hai una ragazza. Se sai fare questi complimenti, a chi li rivolgi?"

"Non so. E' la prima volta che dico una cosa così. M'é venuta spontanea. E poi é vero. Ho detto la verità. I tuoi occhi sono splendidi."

"Grazie, trovi proprio le parole giuste per far sentire importante una donna. Non é da tutti, sai? C'é gente che dice cose grossolane, prive di dolcezza. Frasi comuni, senza sentimento, che invece di farti piacere ti irritano."

Rimasero seduti, in silenzio.

"Se vuoi andare dalla ragazze, invece di annoiarti con me, va pure, non fare complimenti."

"Non mi annoio. Mi piace stare qui, vedere Fiorenza che gioca, soprattutto sedere vicino a te, col mare che ci dondola come se andassimo dolcemente in altalena."

"Sei sempre così romantico e galante?"

"La sai la poesia dell'altalena? The swing. E' d'un poeta inglese. Non ricordo le esatte parole, ma dice più o meno:

... dondolavi, sognante, in altalena,

e l'erba verde ti vedeva andare

in alto, in cielo, e poi tornare.

... T'ho spinta. Le mie mani, sui tuoi fianchi,

volevano soltanto trattenerti

per non lasciarti andare. Mi dicesti:

Lei guardava fuori, il mare cosparso di mille biancori di schiuma, e cominciò a muovere il capo, come sull'altalena.

Lui proseguì.

Vieni di fronte a me, o mio diletto,

voglio sentire le tue mani forti,

voglio vedere la tua bocca, gli occhi.

Voglia di vederti, voglia di sentirti.

"E' molto bella" -disse Laura- "ma come t'é venuta in mente? Anch'io l'ho letta, quando avevo ancora in mente di frequentare la facoltà di lingue. Poi ho scelto quella di moglie e di madre.

Senti, devo pensare a Fiorenza. Devo farle il bagno. Aiutami a portarla in cabina. Questo dondolio mi fa girare un po' la testa. Basta che tu la porti fino alla porta della cabina. Come ieri sera. Vuoi?"

Fiorenza, sentendo fare il suo nome, s'era messa a guardare la madre e Paolo.

Paolo le tese le braccia e lei corse, a piccoli passi, ad abbracciarlo.

Si avviarono verso il grande scalone che conduceva alle cabine. In piedi, il dondolio fece barcollare Laura.

"Scusa, Paolo, ma devo appoggiarmi a te. La testa mi gira sempre più."

Passò una mano sotto il braccio di Paolo, lo stesso sul quale era seduta Fiorenza. Con l'altra s'afferrò al mancorrente, e cominciò a scendere.

"Apri tu, per favore."

E dette a Paolo la chiave della cabina.

Appena il giovane aprì la porta, Laura andò a gettarsi sul letto. Con gli occhi chiusi. Pallida.

Fiorenza s'era addormentata. Paolo la depose dolcemente sull'altro lettino e la coprì col lembo della coperta. Chiuse, piano, la porta, e s'avvicinò a Laura.

Respirava con difficoltà, le labbra semiaperte. Sempre più pallida e con gli occhi chiusi. Deglutì. Con le dita cercò di allargare il colletto che le serrava la gola, ma non ci riuscì. Paolo l'aiutò, delicatamente. Sbottonò la blusa di lana, ma non fu facile districarsi con i piccoli bottoni ricoperti di stoffa che tenevano chiusa la camicetta di seta. Sotto, Laura indossava il solo reggiseno, rosa, sul candore serico della pelle, e tentava di strapparlo, come se l'opprimesse.

Paolo non sapeva cosa fare. Sul tavolino, bordato perché gli oggetti non cadessero a causa dei movimenti della nave, c'era una piccola forbice. La prese. Sollevò leggermente la striscia centrale che univa le due coppe, e tagliò. Laura respirò profondamente. Il seno esplose in tutto il suo meraviglioso candore. Bellissimo, di squisita fattura, coi capezzoli rossi messi lì, dalla natura, a impreziosire quello splendido capolavoro.

La donna aprì gli occhi.

Paolo le mise un altro cuscino sotto la testa e le aggiustò la gonna, un po' sollevata.

ULISSE
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