La Valle Di Arianna

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Arianne Valley.
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E' un po' un mio pallino quello di 'premettere'. (Forse perché significa...'mettere avanti'?)

Allora.

Voyeur è chi osserva segretamente oggetti o situazioni sessuali per provarne eccitazione e soddisfacimento, il ché non è la stessa cosa di curioso. Secondo Freud la curiosità diventa voyeurismo quando è l'unica o la dominante meta sessuale nel comportamento di una persona. Se preferite il termine anglo americano, dirò che mi riferisco a un peeper.

A voi, quindi, se avrete avuto l'amabilità e pazienza di giungere fino in fondo, di giudicarmi 'curioso' o 'voyeur'.

L'edificio dove abitavo era sul lungo mare, e diviso dalla spiaggia solo dal larghissimo viale, adorno di palme ben tenute, e, la sera, illuminato da caratteristici lampioni. Il più alto tra tutti, ed io ne occupavo l'attico, quello che, dopo essere stato arroventato dal sole dall'alba al tramonto, diveniva un forno, che sarebbe stato invivibile se una parvenza di condizionamento non lo avesse reso solo tropicale. Subito dopo questo fabbricato, andando verso la periferia, il piano regolatore aveva stabilito che dovesse sorgere una vasta piazza, con giardinetti e vasca al centro, per cui, da quella parte, furono realizzate delle graziose casette, non più di tre piani, ma un po' più lontane dal mare, la profondità della piazza. Quelle casette, comunque, erano pur sempre fronte mare e avevano il vantaggio che nessun ostacolo si frapponeva tra esse e l'orizzonte. Ne guadagnava anche la privacy, perché nessuno avrebbe potuto ficcare il naso nella loro intimità.

Almeno così pensavano.

"Il Veliero" era un negozietto, non tanto 'etto', stracolmo di cose che interessavano le barche, la navigazione. Oggetti modernissimi e interessanti pezzi del passato. C'era una polena bellissima, un antico timone, e tante altre cose del genere. Fui attratto da un vecchio cannocchiale, del tipo di quelli che, come mostra la cinematografia, usava Nelson, anche nella battaglia di Trafalgar. Era abbastanza lungo, ma poteva rientrare, e c'era anche un'asta di sostegno, per non stancarsi, per non farlo oscillare. Ottone brunito, per non farlo evidenziare al sole. Non mi decisi subito, perché il prezzo non era dei meno cari, ma alla fine lo comprai. Dal terrazzo avrei potuto scrutare il mare, le barche al largo, le persone sulla spiaggia...

E fu così, il mattino dopo, anche perché il sole sorgeva alle spalle, e quindi la luce era migliore. Andai, poi, a perlustrare il giardino, la vasca. Distinguevo i pesciolini rossi guizzare nell'acqua. Guardai in giro...

Le finestre del terzo piano della casetta che iniziava il lato della piazza, aveva le finestre spalancate. Il cannocchiale era ottimo, luminoso, preciso. Distinguevo le ore sulla sveglia del comodino. Il letto era disfatto. Proseguii l'esplorazione. La finestra successiva, dopo la camera, era il bagno. La doccia scorreva, la vedevo chiaramente, e vedevo distintamente anche una grossa schiena bianca che terminava in un ragguardevole culone dal quale si staccavano cosce e gambe in proporzione. Quando si girò, l'oculare fu invaso da due notevoli tette, rigogliose, non flaccide, ma nemmeno coi capezzoli verso il cielo. Ciciottello anche il pancino, senza poter essere considerato grasso. No, non era obesa, era pienotta. Così il pube coperto da una vera foresta di folti riccioli neri, ora stirati dall'acqua. Ah, la proprietaria di quel ben di dio non si depilava neppure le ascelle. Un viso gradevolissimo, perfettamente equilibrato al resto, e lunghissimi capelli neri. Quando si chinò, forse per raccogliere il sapone, le grosse chiappe dilatate mostrarono quanto custodivano e, scusino gli schizzinosi, non era niente male. La donna doveva essere abbastanza giovane. Un po' abbondante, certo, ma ognuno ha i suoi gusti. In ogni modo, non raggiungevo alcun piacere, ma la visione mi eccitava.

Chissà chi era.

Non potevo attardarmi, gli impegni mi attendevano.

Scesi, comprai il giornale all'edicola della piazza, e chiesi al giornalaio se conosceva quella signora ...pienotta... che abitava al terzo piano della...

Non mi lasciò finire.

"Lì ci abita, al terzo piano, la sorcona, la moje de quello che fa l'assistente de volo. Ha visto che culo, dotto'? E' 'na montagna de sfizi, beato chi se l'inchiappetta."

Colorito, Renato, ma non ambiguo.

"E sai pure il nome?"

"Lui la chiama Arianna, ma a me er nome nun m'emporta, me la scalerei de gusto, quella montagna, e je pianterebbe la bandiera 'ndove dico io!."

Tornai abbastanza tardi, la sera, dopo una noiosa cena di lavoro.

Una rapidissima doccia e, coi soli pantaloncini, andai all'osservatorio. Ormai l'avevo battezzato così.

Puntai direttamente alla finestra aperta e abbastanza illuminata: quella della camera da letto. Arianna giaceva supina col capo rivolto da una parte e un'espressione rassegnata sul volto, annoiata. Lui le stava sopra e s'affannava faticosamente a portare a termine quell'amplesso che, a veder lei, era tutt'altro che entusiasmante ed ancor meno coinvolgente. Non ci volle molto perché si abbandonasse su lei che, prestamente, lo scavalcò e andò nel bagno.

Ecco, era sul bidet, la vedevo di spalle, con le grosse natiche alquanto debordanti, ma certamente sode, a giudicare dall'aspetto. Doveva essere molto accurata nel lavarsi.. non la finiva mai... ma cominciava ad agitarsi, sempre di più... finché, poverina, finì di masturbarsi, inappagata e depressa. Si asciugò, tornò in camera da letto, si sdraiò, spense la luce sul comodino. A quanto potevo vedere, lui, un biondino così così, già ronfava.

Confesso che m'ero eccitato abbastanza, e la immodestia mi faceva pensare che se ci fossi stato io, al posto di quel 'lui', Arianna non avrebbe avuto bisogno di quella lunga seduta sul bidet. Salvo che per rinfrescarsi.

Andai a dormire. Per fortuna la stanchezza vinse la fantasia e mi svegliai alla solita ora, l'indomani.

Renato, appena mi vide, prese il solito giornale e me lo porse.

"Dotto', la sorcona, ieri, è passata de qua appena è annato via lei, sempre un gran tocco di fica, ce n'ha armeno 'na chilata!"

"Passa tutte le mattine?"

"Quasi. Me quanno nun c'è lui, er pannocchia. Lo conosce?"

"Chi?"

"Er pannocchia, l'omo d'a sorcona. E' un cosetto con un ciuffo de capelli come li fili della pannocchia de granturco su una capoccia a melone."

Una delle descrizioni colorite di Renato ma, devo riconoscere che sapevano tratteggiare perfettamente il personaggio. Anche io l'avevo visto così, nel cannocchiale. E anche peggio, perché io l'avevo visto nudo come un verme.

"E dove va la ragazza?"

"Attraversa la strada e va allo stabilimento balneare."

Non vedevo l'ora che giungesse la sera.

Balcone apertissimo, luce vivida, lei nuda, sul letto, con le gambe leggermente divaricate, le grosse tette in mostra e con una mano carezzava lentamente il pube, soffermandosi più giù. Alzò le ginocchia per facilitare il contatto con le dita. A un certo momento spese la luce. Il chiarore della strada lasciava intravedere la stuzzicante e invitante collina di panna, abbellita dalle fragolone dei capezzoli e dai mirtilli del pube.

Lui, quindi, non c'era.

L'indomani, per tempo, disdissi telefonicamente ogni impegno, indossai gli slip da bagno, sopra un paio di Bermuda e camiciola, sandali, occhiali da sole e... in agguato.

Vidi uscire Arianna dal portone, andare all'edicola, comprare qualcosa e avviarsi allo stabilimento. Impiegai pochi secondi per essere anch'io dal giornalaio.

"Dotto', è annata via adesso adesso. E' annata allo stabilimento."

Mi avviai da quella parte. Guardai intorno. Era al bar, sulla rotonda, sotto un grande ombrellone che bevevo qualcosa e sfogliava una rivista.

Entrai con noncuranza, distrattamente. Mi avvicinai al suo tavolo.

"Buongiorno."

Alzò lo sguardo verso me. Occhi bellissimi, neri, in quella pacioccona faccina che non tradiva affatto la necessità di cercare sul bidet quello che non aveva avuto.

"Buongiorno.. ci conosciamo?"

"Non fino a questo momento. Posso sedermi?"

Rimase perplessa per qualche istante.

"Si accomodi."

"Lei ha scelto il miglior posto sulla rotonda, ombroso ed arieggiato. Ci viene spesso?"

"Quando posso."

"Impegni professionali?"

"Non esattamente."

"Scusi, non volevo essere indiscreto."

La esaminavo attentamente.

Su un costume, credo di quelli interi, indossava un gonnellino abbastanza lungo dal quale sortivano due polpose gambe, ben tornite, però, pur nella loro abbondanza. Il seno era contenuto, ma non compresso, ed era chiaramente di volume ben maggiore della media. Non so dirvi la misura del reggiseno che avrebbe richiesto, ma certo non credo che una sesta lo avrebbe racchiuso completamente. A vederla così si poteva definire una grassottella proporzionata, Mi mancava l'altezza e la rotondità del sedere. Dovevo attendere.

"Nessuna indiscrezione. Anzi, a me piace fare quattro chiacchiere. Sto quasi sempre sola e silenziosa."

"Marito?"

"Ragazzo, steward. Non con la nostra compagnia di bandiera, però. Lui è norvegese e stiamo insieme solo quando riesce a far scalo al nostro aeroporto. E lei, che fa?"

"Anzitutto, mi permetta di presentarmi. Sono Paolo Serpieri, consulente finanziario, ed abito in quel palazzo, quello alto."

Glielo indicai.

"Ma guarda! Siamo vicini di casa, io abito al terzo piano di quella palazzina, sulla piazza, proprio dove finisce il lato dell'edifico dove sta lei. A proposito, io mi chiamo Arianna, Arianna Rossetti."

"Il cognome da signorina."

"Mah, sa, Olaf e io ci siamo sposati civilmente in Norvegia e non so neppure se sia valido in Italia. Ad ogni modo non ancora ne abbiamo chiesto la trascrizione."

"Difficoltà?"

"La burocrazia non c'entra. Non sono sicura di me. L'ho conosciuto sulla tratta Oslo Goteborg. Mi ha invitata a cena, si è fatto dare il mio indirizzo. Mi è venuto a trovare in Italia... sa come vanno verte cose. Ho creduto che fosse l'uomo per me..."

"Invece?"

Sorrise, un po' mesta.

"Vedo che mi sta facendo le stesse domande del mio psicanalista."

"E' in analisi?"

"Ci sono andata un paio di volte e poi ho lasciato."

"Come mai?"

"Non credo che sia un problema psicologico o comportamentale."

"Affettivo?"

"Chiamiamolo così...."

"Scusi non voglio essere invadente. Piuttosto, lo prendiamo un bel gelatone?"

Si rischiarò in volto. In fondo era proprio bella.

"Perché no? Scusi, intanto vado al bagno. Per me amarena e panna. Grazie."

Si alzò. Non era magra, certo, ma il prosperoso sedere era il naturale proporzionato perfezionamento di quella interessante e appetibile cicciona.

Il cameriere stava portando i gelati quando Arianna tornò, con passo lieve, aggraziato, leggero, che non avresti previsto. Sedette con garbo, guardò compiaciuta la grossa coppa. Iniziò ad assaporarla con visibile gradimento. Io non ero da meno. Mi guardò sorridendo, con un'espressione teneramente infantile.

"Sono golosissima di gelato. Cioè anche di gelato. Del resto si vede, no?"

"Perché anche di gelato?"

"Perché amo la buona cucina."

"Solamente?"

"Beh, non allarghiamoci troppo. Lo vede che fa sempre domande?"

"Per conoscerci, le dispiace?"

"Ma no... scherzavo. Diciamo che a volte può accadere che ci si rifugi nel mangiare."

"Al posto di?"

"Ci risiamo."

"Scusi. Pensiamo al gelato. Vedo che non è molto abbronzata."

"Per nulla. Il colore della mia carnagione e la qualità della pelle mi fanno stare lontana dal sole. Sa, ci sono i girasole, ed io sono una giraombra."

"Sta benissimo, così."

"Grazie. Io sono per rispettare al massimo la natura, per accettarsi come si è, senza lasciarsi andare, ovviamente, ma senza alterare, modificare, quello che la natura ha creduto fare, darci. C'è un proverbio latino, che non ricordo nell'originale, che dice che ciò che la natura non volle non fece. Forse per alcuni, non so per lei, la depilazione è una raffinatezza estetica, io non discuto, ma non mi sono mai depilata. Penso che se ci sono a qualcosa servono. Che dice, è esteticamente ripugnante vedere un po' di peluria sotto l'ascella?"

Non dovevo, logicamente, farmela nemica. Era il minimo.

"Ma no, cara Arianna, è un ornamento, gradevolissimo e, almeno per me, una delizioso richiamo erotico. Del resto gli uomini, in genere, non si depilano."

Fui compensato con un sorriso seducente e dopo qualche istante si aggiustò delicatamente i capelli, mostrandomi il piccolo cespuglio nero che custodiva sotto il braccio. Pensai che se tanto mi dà tanto, in mezzo alle gambe doveva avere una foresta. Del resto, il cannocchiale me lo aveva detto. Il pensiero, dunque, andava sempre nella stessa direzione.

Ma Paolo –andavo rimuginando- ti piacerebbe andarci a letto? In genere una donna del genere non era il tuo tipo. La risposta mi venne dall'eccitazione che andava montando. Cercavo di dirmi che era curiosità. No, era desiderio di farci l'amore.

Venni a sapere che Olaf era andato in America del Sud, sarebbe tornato dopo quattro giorni.

"E' geloso Olaf?"

"Non saprei stabilirlo. Non riesco a capire bene i suoi sentimenti, in genere, e quelli che nutre per me in particolare."

"Immagino che state bene insieme."

Alzò le spalle, senza rispondere.

"Senta, Arianna. Qualche ora fa non ci conoscevamo, ma sento che abbiamo rotto il ghiaccio. Che ne dice di andare a pranzo in un localetto carino e confidenziale?"

"Dove?"

"A pochi chilometri da qui."

"Non è che stiamo correndo troppo?"

"Le prometto che guiderò con attenzione, senza correre."

"Non faccia il finto tonto. Ha capito benissimo."

"Mi piace che abbia detto stiamo correndo. Quindi non sarei solo io. In ogni modo lascio a lei il freno. Lo usi come e quando vuole."

"Ma non si trova a disagio ad andare in giro con una cicciona? Lo sa che l'altro giorno uno scooterista mi ha urlato; ciao Moby Dick!"

"Credo che a suo modo era un complimento."

"Lei mi farebbe un tale.... Complimento?"

"Preferirei dirle: ciao bellissima bambola, ciao Susanna tutta panna. Che, sei uscita da una tela di Van Dick? E, un po' grevemente aggiungerei, ammappate quanto sei provocante, te movi come 'na pantera! La offenderei?"

Sorrise divertita.

"Perché? In ogni caso è un apprezzamento lusinghiero."

"Allora, andiamo?"

"Andiamo."

Si alzò agilmente, mi precedette verso la porta con un ancheggiare provocante ma non volgare. C'era qualcosa di naturalmente elegante nelle sue movenze.

"Ho l'auto nel garage, proprio di fronte, perché abito lì, come le ho detto. Mi attende qua?"

"Preferisco venire con lei."

La presi per un braccio, per attraversare la strada.

Morbido, ma non flaccido. Come quando palpi quei bambolotti di gomma, quelli che sembrano di carne vera. Solo che Arianna era ben più soda, senza essere muscolosa. Le dita s'aprirono cautamente per saggiare la consistenza del petto. Stessa compattezza. Però? Chi lo avrebbe detto che tanta ciccia sarebbe stata così tosta. Era proprio tutta da scoprire.

Eravamo in garage.

"Scopriamo, o coperta?"

"Preferirei coperta."

"OK"

L'aiutai a salire e potei accertarmi che le pur floride gambe erano ben modellate, né, a quanto potevo vedere, si imbruttivano nelle cosce.

Sedetti accanto a lei, manovrai per uscire, per immettermi nel traffico.

"Scusi, ma anche se ho diversi anni più di lei, che ne direbbe se ci dessimo di comune accordo il tu?"

"Non bisogna mai invecchiarsi. Io ho venticinque anni."

"Io trentatré. Allora."

"D'accordo, Paolo. Tanto, lo hai detto tu, il freno ce l'ho io!"

Eravamo, intanto, entrati nell'ombra della pineta.

La gonna di Arianna le scopriva gran parte delle cosce e potei riscontrare che era tutto statutariamente perfetto. Ecco, mi venne in mente, era così la statua di Giunone che avevo visto in un museo d'un paese del sud: 'Opima Iuno', ed una mano ignota aveva aggiunto, a matita, atque ubertosa!

Guidavo abbastanza lentamente.

Era il momento di provarci, di ... sperimentare ... il freno.

Arianna guarda la strada, si volge a me sorridendo. Sembrava serena, distesa.

Come se volessi rassicurarla -diciamo così- le misi la mano sulla coscia. Morbida e sona, nel contempo. Nessuna reazione. Strinsi un po' le dita. Nulla. Salii appena. Mi guardò. Non procedetti oltre. Fece un segno di assenso. Avevo un desiderio matto di palparle il seno. Una specie di frenesia, di esaltazione. Le presi la mano, gliela portai sulla bella tetta. Dopo un po' la girai, in modo che fosse la mia a contatto col petto, e con garbo la voltai ancora affinché il palmo incontrasse il capezzolino che rivelò di non essere insensibile.

Ancora uno sguardo di Arianna, perplesso. Poi strinse ancor più la mia mano sul petto, respirando profondamente. La carezzavo, la stringevo tra le dita. Vidi le sue nari fremere. Voltai nel viottolo che finiva in una radura erbosa, tra i pini. Mi fermai. Le nostre labbra si unirono avide, le nostre lingue si cercarono, esplorandoci, la tetta sembrava ancor più seda, ma anche cedevole. Ad un certo punto si staccò dolcemente.

"FrenA, Paolo, frenA... Stiamo andando verso il precipizio..."

Non volli insistere oltre, in quel momento.

Rifeci il viottolo, ancora qualche chilometro e giungemmo allo Chalet del Paradiso.

Dopo il delizioso pranzetto, leggero e gustoso, annaffiato con qualche coppa di fresco frizzantino, andammo nella parte più fitta del bosco. Avevo preso il plaid dall'auto. Nel caso volessimo fare un riposino, le dissi.

Si stava bene, la temperatura era gradevole. Arianna fece stendere il plaid vicino a un grosso albero. Sedette poggiandosi al tronco. Mi misi accanto a lei. Dopo un po' mi spostai e poggiai la testa sul suo grembo. Morbido, accogliente. Ero certo di percepire, non di immaginare, la piacevolezza del suo crine. Le mia bocca era vicina alla sua pelle, solo la morbida gonna e, forse, delle minuscole mutandine. La mano s'intrufolò. Si, le aveva le mutandine, ma non contenevano l'esuberanza del suo vello, ed erano umide, quasi attorcigliate tra le grandi labbra. Arianna ebbe un impercettibile sobbalzo quando cercai di andare oltre. Vi andai. Nel bosco incanttao alla ricerca... di un piccolo bocciolo che era in attesa di sentirsi sfiorare. Adesso le cosce di Arianna si muovevano. L'altra mano entrò nella camiciola, riuscì a spostare il reggipetto, ad afferrare la superba tetta, a tirarla, insistentemente, perché la mia bocca potesse succhiarle il grosso capezzolo lampone. Arianna era agitata, il grembo sussultante. Allungò la mano al mio bermuda, la infilò, s'impadronì del mio fallo eccitato al massimo, lo carezzò lentamente, fin quando non la sentii gemere di piacere, accogliere fremente le mie dita che la penetravano insistenti e intriganti, avvolte della linfa del suo orgasmo. Per fortuna la sua carezza rallentò prima che anche io testimoniassi la mia voluttà.

"Voglio fare l'amore con te, Arianna."

"Anche io. Non qui, però."

"A casa mia?"

Annuì.

Eravamo impazienti.

Entrammo in casa entrambi in preda a una sorta di esaltazione. Il desiderio era travolgente, irresistibile. A mano a mano che ci togliemmo i pochi indumenti li lasciammo sul pavimento, dove cadevano.

Era sul letto, nuda, col boscoso triangolo che si stagliava tra le gambe. Che gambe, che vista. Una collina di panna. Ma che dico, altro che panna, di abbondante e soda ciccia.

"Per favore, alzati, voglio contemplarti."

Si alzò. Mai visto uno spettacolo del genere. Abbondanza, certo, rigoglio, prosperità, opulenza di forme, splendore di capelli, di peli, di tutto.

"Voltati, per favore."

Che schiena, che glutei. L'attirai a me. Volevo morderli. La morsi, piano, più forte.

"Mi fai male, Paolo."

Si girò. Tuffai il volto in quel nero mare che le arricchiva il grembo. Lo scandagliai con la lingua, e sentivo che gli abissi si schiudevano.

"Vieni, Paolo, ti voglio."

Andò a sdraiarsi sul letto, alzò le ginocchia, divaricò le gambe. Il bosco s'aprì, come d'incanto, per mostrarmi la strada, per mostrarla alla mia impaziente primula rossa che s'ergeva imponente. Le fui sopra. Prese il mio glande e lo indirizzò all'ingresso della sua palpitante vagina, alzò il bacino, lo ricevette ingordamente. Pensavo che le dimensioni della sua custodia d'amore fossero proporzionali al resto, che il mio grosso arnese non avrebbe trovato difficoltà, e invece mi sentii stringere deliziosamente, avvolgere in un piacere sconosciuto, mentre m'avvinghiava con le sue gambe, le stringeva sul mio dorso, m'imprigionava in lei, tra le sue morbide e voluttuose cosce. Fu come un crescendo rossiniano, un inseguirsi d'onde sempre più alte e spumeggianti, che s'andavano a infrangere sulla riva del suo utero, per tornare ancora ed ancora. Fin quando non raggiungemmo, in estasiata sincronia, l'acme del piacere, fondendo e confondendo le linfe della nostra passione.

ULISSE
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