l’oasi di Elda

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Elda oasis.
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Il treno rallentò, si fermò con un lungo stridore di ruote. Rumore di sportelli aperti. Sbattere di sportelli che si richiudevano. La locomotiva ansimava pesantemente. S'era arrestata sotto la manica del serbatoio idrico. Il fuochista stava effettuando il rifornimento.

Scesero solo due viaggiatori, un borghese e un ufficiale dell'esercito.

Il facchino, spingendo un carrettino cigolante, s'accostò alla vettura portabagagli. Gli porsero una cassetta militare, d'ordinanza, e una grossa valigia. Firmò dei documenti, accomodò gli oggetti sul piano del carretto e s'avviò verso il deposito.

L'uomo in borghese, fece capolino nell'ufficio del Capo Stazione. Disse qualche parola e s'avviò lungo la strada alberata che conduceva verso la via provinciale, asfaltata, che conduceva al paese.

L'ufficiale si fermò alla custodia bagagli, chiese al facchino se era possibile avere la cassetta e la valigia al Comando di Reggimento. Alla risposta affermativa, gli regalò una moneta d'argento, equivalente a mezza giornata del salario dell'uomo, e s'allontanò mentre il facchino si scappellava ringraziando.

Elda, seduta sulla panchina prospiciente l'ingresso della stazione, all'ombra del grosso albero frondoso, i cui rami stormivano dolcemente al lieve vento che veniva dal mare, non molto lontano, era intenta a leggere il libro, che teneva sulle ginocchia, nascosto dai biondi capelli che le scendevano dal capo leggermente inchinato. Indossava un vestito chiaro, a fiori, sbracciato, con la scollatura a punta che lasciava intravedere il seno saldo e rigoglioso. La gonna ricadeva sulle gambe snelle, appena dorate dal sole. Calzava scarpe comode ed eleganti, rosse come le rose che ornavano l'abito.

Quando Gianni uscì dalla Stazione, lei non sembrò accorgersene fino a quando lui non le fu di fronte. Alzò il capo, gli sorrise.

L'ufficiale fece un cortese saluto.

"Mi scusi se l'importuno, signorina, buongiorno, sono il tenente Gianni Sabatini, assegnato al Reggimento che è di guarnigione qui, per favore mi può indicare la strada per andare al paese?"

Elda allargò il suo sorriso, mostrando il biancore perlaceo dei piccoli denti.

"Buongiorno, tenente. Per andare in paese deve seguire l'unico senso possibile di questa strada che, come vede, termina qui. La freccia del cartello, del resto, lo mostra chiaramente. Vede?"

Gli indicò il grosso segnale, a fianco alla panchina.

"Le chiedo scusa, signorina, ma, uscendo dalla stazione, ho visto solo lei. Sono stato attratto dalla sua deliziosa figura, intenta a leggere un libro. Certamente interessante. Sono indiscreto se le chiedo il titolo?"

"Nessuna indiscrezione. E' Kif Tebi. L'autore è un arabo che si nasconde sotto lo pseudonimo di El Mansùr, il vittorioso."

"Kif Tebi è un nome? Forse del protagonista? O dell'eroina?"

"No, nel dialetto dell'autore significa come vuoi."

"E' interessante?"

"Soprattutto avvincente. La storia si svolge in un deserto sabbioso, dove sorgono oasi meravigliose. Non è facile, però, trovarle. E' affascinante l'accostamento tra l'animo umano e la solitudine del deserto. Un vecchio proverbio dei Tuaregh dice che l'acqua c'è dovunque, basta saper scavare, e dove c'è acqua c'è vita. Non le pare splendido?"

"Come si conclude?"

"Non ho terminato di leggerlo, ma sono andata, curiosa all'ultima pagina. Aisha e Ben Alì si allontanano dall'oasi dove hanno vissuto giorni, e soprattutto notti, incantevoli. Ognuno prende la sua strada, senza voltarsi indietro, senza rimpianti, senza nostalgia. Lontano, oltre l'orizzonte c'è, sicuramente, un'altra oasi. E' scritto così."

"Lei è fatalista?"

"Non accetto passivamente le cose, ma credo che gli eventi umani non dipendano dal libero arbitrio. Forse c'è incoerenza in quello che dico, ma io sono piena di contraddizioni. Si, forse in me c'è del fatalismo. Quando mi domando chissà se... mi viene subito da rispondermi insh'Allah!"

"Chiedo troppo se la prego di accompagnarmi verso il paese... per mostrarmi dov'è il Comando del Reggimento?"

"Chiede di farmi vedere con uno sconosciuto, in un'ora in cui le ragazze dovrebbero starsene in casa. Chiede di rendermi l'oggetto delle chiacchiere di questa sera, durante il passeggio. Chiede di prepararmi a rispondere alle infinite domande: Elda, chi era quello? Le sembra poco?"

"E lei, Elda, perché ora conosco il suo nome, risponderà serenamente: quello è mio cugino di Roma. Te ne ho sempre parlato, ricordi? Sono andato a prenderlo alla stazione, questa mattina, perché è stato assegnato al Reggimento che sta qui. Anzi, vieni che te lo presento."

"Te lo presento?"

"Certo, non vorrà che la lasci sola ad affrontare le maldicenze, quando tutti s'incontreranno in piazza. Allora, mi accompagna?"

Lo guardò a lungo. Chiuse il libro, si alzò. Era snella e bellissima. Gli si mise a fianco.

"Kif Tebi."

Si avviarono lungo il viale alberato.

Gianni camminava lentamente, guardandola di quando in quando.

"Mi scusi, Elda, ma sono uno sbadato. Non ho pensato al suo fidanzato."

Lei strinse appena le labbra, poi le distese in un sorriso disarmante.

"Non c'è."

"Non è possibile. Una ragazza così bella..."

"Grazie per il complimento, ma è la verità."

"Non é un complimento, ma una semplice constatazione. Non posso credere che i giovani di questo paese non abbiano occhi."

"Eppure, è così. Per un breve periodo avevo creduto di avere un ragazzo. Un bel mattino lui ha preso il treno, ed è partito senza dir nulla a nessuno. Non so dove sia andato. Quindi, avevo sbagliato a considerarlo quello che poteva divenire il mio uomo. Era uno cui era piaciuto prendermi in giro."

"Strani scherzi fa il treno: chi parte e chi arriva."

Lei lo scrutò, aggrottando la fronte.

Gianni si fermò un momento, le prese la mano, la contemplò dalla cima dei capelli alla punta delle scarpe. Lentamente, ammirando la perfezione del volto, del corpo. Occhi profondi, cerulei, labbra vermiglie, seno e i fianchi deliziosamente modellati.

"Allora, Elda, tuo cugino non rischia di far adombrare qualcuno. E scusa se ti do il tu. Tra cugini si usa cosi. Me lo permetti?"

Lei arrossì leggermente, lo guardò con occhi divenuti ancor più azzurri. La sua piccola mano era ancora in quella di Gianni.

"Kif Tebi, Gianni."

Erano giunti alle prime case del paese. Qualcuno si voltava a guardarli.

Poco oltre, sulla destra, un massiccio edificio occupava tutto un lato della piazza. Al centro un'artistica fontana di pietra, nella cui vasca nuotavano tanti pesciolini rossi, che si divertivano a inseguirsi, passando dove il getto si frangeva in mille cerchi concentrici che andavano intrecciandosi tra loro.

Elda fece un lungo respiro.

"Ecco, Tenente, quello è il Castello. Noi lo chiamiamo così. Una volta era abitato da un vecchio nobile del luogo, adesso è la sede del Comando del Reggimento. Di fronte c'è il Caffè Italia, considerato il luogo più elegante della nostra piccola comunità. Verso sera, quando i militari escono in libera uscita, questo giardinetto è il punto dove spesso sorgono e appassiscono amicizie, forse amori. Non lo so. I soldati, poi, vanno al Bar dello Sport. Il Caffè Italia è frequentato solo dagli ufficiali. Questa sera, gli avventori abituali, avranno da commentare: avete visto la Elda con un ufficiale? Io sarò lì, al centro delle loro malignità."

Gianni la interruppe.

"Noi saremo lì, felici per le chiacchiere che ci circonderanno. O non vuoi?"

"Cosa direbbe la fidanzata di Gianni?"

"Se ci fosse, sarebbe giustamente risentita. Comprenderebbe di essere stata tagliata fuori, per sempre perché tu sei la più bella di tutte. Ma la fidanzata non c'é."

"E' una bugia di convenienza, vero?"

"Non dico mai bugie. Forse per questo non ho una ragazza. Tu, Elda, quando uscirò dal Comando, sarai al caffè?"

"Solo perché sarei la più bella?"

"Perché sei tu, e sei anche la più bella."

"Incontrata, casualmente, da pochi minuti."

"Conosciuta da sempre, e tu mi attendevi. Ci sarai al caffè?"

"Kif Tebi."

"Ad aspettarmi?"

"Kif Tebi."

Gianni la salutò, e s'incamminò verso la Caserma, seguito dallo sguardo della ragazza. La sentinella gli presentò le armi. Lui sparì nel buio del grosso portone.

Elda s'avvicinò alla vasca della fontana, e rimase a guardare i giuochi dei pesci rossi.

Quand'era bambina, staccava un foglio dal quaderno, vi scriveva i suoi pensieri, i suoi desideri, poi ne faceva un'agile barchetta di carta. Terminati i compiti scolastici, usciva con la mamma. Andavano al giardino dinanzi la Caserma. La mamma sedeva al Caffè, con qualche amica. Lei correva verso la vasca, prendeva la barchetta di carta e, piano piano, l'affidava alle piccole onde. La barca navigava pigramente, dirigendosi con lentezza verso la riva opposta. Elda correva, felice, e riprendeva il foglietto con i suoi scritti. Qualche volta, invece, naufragava, travolta dagli zampilli che ricadevano tutt'intorno. Elda, triste, guardava affondare il suo fragile battello.

Chissà, la barchetta d'oggi che fine farebbe.

Tornò a casa, pensierosa.

Si preparò per la doccia, con movimenti lenti. Tolse orecchini, bracciale e collana, e mise tutto nel piccolo scrigno di legno che era sul comò. Appese l'abito nell'armadio, ripose le scarpine al loro posto. Calzò delle pantofole di tessuto a spugna. Sistemò reggiseno e mutandine nel cesto della biancheria da lavare. Così, nuda, si guardò allo specchio, quasi distrattamente, senza alcuna particolare espressione nel volto. Si fermò e si collocò di profilo, passò la mano sul ventre liscio, controllò la sporgenza del seno, la curva dei fianchi, i glutei. Tornò a mettersi di fronte. Esaminò attentamente le gambe, fece un leggero cenno d'approvazione. Andò nella stanza da bagno, si accertò che il suo sapone preferito e la morbida spugna marina fossero al loro posto, aprì il vasetto di crema profumata che era sulla mensola del lavandino, lo annusò, lo richiuse, lo rimise al suo posto. Salì sul piatto della doccia e aprì l'acqua calda. La fece scendere piano, in piccoli fili. Ne regolò la temperatura. Allungò la mano, prese la cuffia impermeabile, arrotolò i lunghi capelli e ve li sistemò accuratamente. Si pose sotto l'acqua tiepida. Insaponò la spugna e cominciò a passarsela sul corpo, pigramente. Intorno al collo, sotto le ascelle, sul seno, sul ventre, tra le gambe. Con lentezza esasperante. Quando fu completamente avvolta dalla candida spuma, aumentò il volume dell'acqua, vi si pose di fronte. Il getto, forte, la colpì sul volto. Alzò le braccia, offrì a quella piacevole, calda sferza, il seno eretto, il pube. Divaricò le gambe lasciando che l'acqua s'intrufolasse, prepotente, tra i serici riccioli dorati che impreziosivano quella valle deliziosa. Si voltò, si chinò e lasciò che l'acqua tamburellasse sul fondo della schiena, tra i glutei. Si alzò, chiuse il rubinetto, restò immobile per qualche istante.

Indossò l'accappatoio e andò a sedere nella poltrona di fronte alla toilette.

Cominciò a spazzolare lentamente i lunghi capelli.

La mente era affollata da mille pensieri, in lotta tra loro.

Non riusciva a seguire un filo logico.

La logica, già, cos'è?

Riaffioravano i ricordi scolastici. Riudiva la voce dell'insegnante.

Logica, procedimento formale per distinguere il ragionamento corretto da quello scorretto; a sua volta, anche il ragionamento è un procedimento, volto a dimostrare una verità, a risolvere un problema... errare è allontanarsi dai principi logici...

Stava entrando in una specie di labirinto, o meglio in un circolo di cui non riusciva ad intravedere principio e fine.

Doveva far prevalere la ragione o l'intuizione? Ai sentimenti che ruolo doveva lasciare?

Doveva distinguere i sentimenti dai sensi?

Le accadeva qualcosa di nuovo. Forse, in certe situazioni, i suoi comportamenti erano stati guidati dai sensi, da stimoli che la investivano fisicamente e richiedevano un soddisfacimento soprattutto concreto, lasciando da parte la spiritualità, qualsiasi astrattezza. Percepiva, adesso, l'esigenza di un'atmosfera particolare, intuita ma non conosciuta, che le avrebbe permesso di appagare tutte le sue esigenze, anche le più recondite, che sentiva per la prima volta nella loro totalità. L'impazienza di udire una voce, quella voce, era più forte del desiderio d'una carezza. Ma no, voleva anche una carezza. Ciò le era sempre mancato.

Quel giorno, era uscita per andarsi a sedere su una panchina sotto gli alberi che circondavano la vasca. Avrebbe seguitato a leggere il libro cominciato il giorno precedente. Senza rendersene conto, aveva oltrepassato il piccolo giardino, tra il Caffè e la Caserma, proseguendo lungo la strada provinciale. Raggiunto il punto dove si separava il vialetto che conduceva alla stazione s'era fermata, indecisa se proseguire, e andare a leggere all'ombra del grosso platano, di fronte allo scalo, o tornare indietro, verso la vasca. Stava ancora pensando sul da farsi, quando si accorse d'essere già sul verde sedile, dipinto di recente, dirimpetto all'edificio della stazione. Da lontano s'udiva il fischio, un po' sfiatato, della vaporiera.

Poi, lo sferragliare del treno, lo sbuffare della locomotiva, il rumore dell'acqua che scrosciava nella caldaia. Il treno non era ancora ripartito quando un uomo s'avviò verso la provinciale. Forse era l'unico viaggiatore ad essere sceso lì. Elda riprese a leggere, ed ebbe un lieve sobbalzo quando udì una voce, cortese e nello stesso tempo decisa, che le diceva:

"Mi scusi se l'importuno..."

Fu percorsa da un leggero brivido. Si guardò nello specchio della toilette, e fece un cenno d'assenso col capo, consultò l'orologio.

Cominciò a prepararsi, con cura, meticolosità, scegliendo con attenzione quello che avrebbe indossato. Si vestì ponendo il massimo impegno in quello che faceva, assicurandosi che tutto fosse stirato alla perfezione, che il modello dell'abito fosse adatto al suo personale, esaltandone i pregi ed eventualmente nascondendone i difetti (anche se, questi ultimi, non riusciva a identificarli). Infilò mutandine e reggiseno, accertandosi che aderissero senza piegoline, mise l'abito e verificò che il colore della biancheria intima, perfettamente neutro, non trasparisse dal vestito. Aggiustò i capelli, e passò un leggero trucco sulle labbra. Calzò le scarpine più nuove che aveva, intonate al modello e colore del vestito. Andò all'armadio, ne aprì la porta col grande specchio, in modo che potesse vedersi riflessa anche in quello del comò. Le sembrò che tutto fosse in ordine. Prese la borsetta, identica alle scarpine. Andò a salutare la madre, giovane e bella, che sembrava sua sorella, intenta a leggere, seduta nella sua comoda poltrona, in salotto.

"Ciao, mamma, esco."

Si chinò a sfiorarle il volto con un lieve bacio.

La donna sollevò gli occhi dal giornale, e la guardò a lungo.

"Devi incontrare qualcuno, Elda?"

"Forse, mamma. Poi ti racconto tutto. Non stare in pensiero per me."

Le fece un gesto con la mano, e si avviò verso l'ingresso.

Al Caffè Italia erano già seduti alcuni avventori.

Vecchi signori, intenti a leggere il giornale. C'era poca scelta, perché dal Capoluogo giungevano solo due testate.

Signore abbastanza mature, ancora avvenenti, tutte prese dalle ciacole che, soprattutto, si riferivano al comportamento delle ragazze d'oggi, troppo libere, secondo loro, troppo disinibite. Non confessavano, però, che il maggior disappunto derivava dal fatto che, per tale modo di agire delle giovanissime, rimaneva ben poco con cui colmare, sia pure saltuariamente, il vuoto che le tormentava da quando i loro uomini erano lontani, a causa della guerra.

Elda andò a sedere presso un tavolino, alquanto appartato, dal quale poteva tenere d'occhio il portone della caserma, senza essere vista. Una pianta, piuttosto alta, la proteggeva da sguardi indiscreti. Aprì il libro, come se volesse leggere.

Dopo qualche minuto, Gianni apparve sull'uscio del Comando. Rispose al saluto della sentinella, e s'avviò, con risolutezza, verso Elda. L'aveva subito scorta.

La salutò cortesemente, restando in piedi.

"Posso sedermi?"

Elda chiuse il libro e mostrò il titolo: Kif Tebi.

Gianni non si mosse.

"Quello significa come vuoi, mentre io desidero sapere se lo vuoi tu, che mi segga con te. Io, logicamente, lo voglio, altrimenti non mi sarei avvicinato, felice di trovarti qui."

Elda aggrottò la fronte, poi la spianò, guardandolo con un sorriso disarmante.

"Logica stringente, ma... Lasciamo perdere... La prego di accomodarsi, signor tenente!"

Gianni, sedette, le prese la mano e, con naturalezza, se la portò alle labbra.

"Grazie, signorina. Vorrei sapere il seguito della considerazione sulla logica, non è mai il caso di lasciar perdere, spesso ne derivano spiacevoli equivoci."

Elda assunse un'espressione sorniona.

"Tema di quest'incontro, dunque, è la logica. A volte, però, a voler essere troppo logici si trascura la logica. Faccio un esempio. Sono qui, a questo tavolino, perché mi hai fatto chiaramente intendere che lo desideravi, come puoi dubitare, allora, del mio volere che tu sedessi qui, con me?"

Gianni, sorrise.

"Bene, un punto a tuo favore."

Il cameriere si avvicinò, e disse che oggi c'erano gelati di vera frutta e miele. Una specialità della casa.

Elda ne fu entusiasta. Gianni si unì a lei nell'ordinazione.

"Vorrei conoscere qualcosa di te, tenente. Da dove vieni, cosa fai da borghese. Come si compone la tua famiglia. Non conosco nulla di... mio cugino!"

"Non è un racconto lungo. Sono nato e vivo a Firenze. Mio padre è architetto, mia madre insegna lettere al ginnasio, dove mio fratello frequenta la quinta classe. Ho ventiquattro anni, sono riuscito a laurearmi in legge, poco dopo i ventuno, e speravo di cavarmela con qualche mese di servizio militare, invece sono qui. Dopo la nomina ad ufficiale sono stato mandato in un avamposto, dove, alcuni giorni dopo il mio arrivo, abbiamo avuto un violento attacco nemico. Il capitano, comandante, e il suo vice, sono rimasti gravemente feriti. Ho dovuto fare tutto da solo, con l'aiuto, naturalmente, di validi sottufficiali. Abbiamo respinto l'attacco e sono riuscito a far trasportare i feriti al più vicino ospedale da campo. Per grazia di Dio, loro sono salvi e non ho subito perdite. Per tale evento, sono stato immediatamente promosso, tenente, sul campo, per merito di guerra. Soprattutto è stata fortuna. Se tornerò a casa, dopo la guerra, mi attende lo studio di mio zio, il fratello della mamma. E' il miglior avvocato di Firenze. E' scapolo. Questo è tutto. E tu, cugina?"

"Niente di particolare. Figlia unica, padre Comandante della marina mercantile, attualmente militarizzato e a capo di convogli militari, madre, guarda caso, insegnante di lettere, però al magistrale. Io, diplomata maestra e sempre inquieta. Non riesco a scegliere il da farsi e non m'interessa insegnare. Avrei voluto frequentare l'Accademia d'Orvieto, di Educazione Fisica, ma i genitori mi hanno detto che non se ne parla fino a quando c'è la guerra. Il mese scorso ho compiuto diciannove anni. Ma tu non mi hai parlato delle tue ragazze."

Il cameriere aveva portato due grosse coppe.

Gianni guardò Elda, che aveva cominciato a gustare, con una certa golosità, il gelato.

"Te l'ho detto, non ho una ragazza."

"Neppure in passato?"

Gianni restò pensoso per qualche istante.

"Qualche simpatia, a scuola. Nulla di serio. Poi, però, all'università ho avuto una storia. Non ne vorrei parlare, non mi fa onore."

"Che c'è di male? Dura ancora?"

"E' cessata da tempo. Non l'ho rivista più. Di male c'è che... era una donna sposata, che aveva vent'anni più di me. Brutto, vero?"

Elda era arrossita.

"Non da parte tua. Era lei a dover evitare una cosa del genere. Dopo di allora?"

"Niente di serio. E tu, che mi racconti di te?"

"A diciannove anni ho poco da raccontare. Un compagno di scuola. Il folle primo amore. Deludente. Forse m'ero affrettata per timore di chissà cosa. Le mie amiche mi parlavano dei loro amori travolgenti. In seguito, la corte serrata di un giovane. Mi faceva quasi pena. Mia madre mi diceva che col tempo gli avrei voluto bene. Impiegato comunale, aveva vinto il concorso, aveva lasciato la sua terra, nel Meridione, e sperava di tornarci quanto prima. Credo che sia andato laggiù. Non ne ho saputo più nulla. Tutto è consistito in lunghe passeggiate e interminabili discorsi.

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