Il Capoluogo Della Virginia

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The Virginia Capital.
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Il Capoluogo Della Virginia
Virginia Capital

I know how to inflame you...
how to make you incandescent
(Henry Miller, Tropic of Cancer)

* * * * *

Mi piaceva stare così, con la guancia sul suo grembo. Sfiorare con la bocca quei fili morbidi come seta, prenderli tra le labbra, baciarli. Esplorare con la lingua curiosa quel delizioso solco tiepido, intrufolarvisi ad incontrare il piccolo bocciolo, turgido al più lieve tocco.

Il suo grembo fremeva, palpitava, cullava la mia gota sull'onda che incalzava sempre più. La bonaccia diveniva uragano sconvolgente.

Dischiudeva lentamente le gambe, svelando lo scrigno prezioso, il giardino delle delizie, le alzava piano, i piedini mi carezzavano i fianchi, scendevano sulle natiche, risalivano. Serrava la mia testa tra le eburnee cosce tornite. Sollevava, invitante, il bacino.

La lingua, golosa, traversava il vibrante sentiero dell'amore, penetrava nella meravigliosa reggia incantata, attesa, accolta ingordamente con avidità suggente.

Quel protendersi e ritrarsi, sollevarsi e abbassarsi, indicava alla carezza viva la "via erotica", dal fondo della schiena, lungo il ricamo del perineo, sul palpitare irrefrenabile della piccola escrescenza, fino al congiungersi delle grandi labbra.

Il ventre era squassato dal piacere, come oceano in tempesta.

Passato il turbine, placato l'uragano dei sensi, l'onda andava pian piano acquietandosi.

Risalivo lentamente la valle del desiderio fino al meraviglioso fiore ancora pulsante, timidamente nascosto sotto il monte di Venere, splendida dea mai paga.

Si, mi piaceva stare così: la mia guancia sul pube, la sua mano tra i miei capelli.

Avvicinai la bocca all'interno della coscia, la morsi piano. S'irrigidì appena. Strinsi più forte. Pose l'altra gamba sulla mia nuca. Seguitai a stringere.

"Ah!"

Quasi un lamento; flebile.

Alzai la testa.

Sedette sul letto, nella sua maliarda nudità.

Si abbassò a guardare.

Sulla carne rosea appariva, nitida, l'impronta dei denti.

Mi fissò negli occhi, con uno sguardo pieno di passione.

"E' la linea dei gioielli" -sussurrò- " suggello d'amore, di voluttà, per le donne di Andhra."

"E per te?"

"Se fossi nata in India avrei voluto essere di Andhra. Per me é la tua testimonianza, l'impronta che mi lega a te. Il ricordo del piacere."

Strinse il mio volto al seno.

Afferrai il capezzolo, rosso scuro, eretto, tra i denti, lo mordicchiai, lo succhiai come un bimbo affamato.

Mi cullò dolcemente, mi carezzò. La spalla, il ventre. Incontrò la mia eccitazione. La racchiuse tra le sue dita sottili. Si distese lentamente, tenendomi stretto a lei, godendo l'avida, bramosa poppata che la svuotava languidamente.

Lui era rigido, fremente, irrequieto, agitato, come stallone scalpitante in impaziente attesa, incandescente, (yes I know how to inflame a cunt, how to ream out every wrinkle in a cunt...) lo condusse dov'era stata la mia lingua, lo inghiottì lentamente, lo nascose in lei, cullandolo dolcemente, come cullava me, delicatamente. Poi con maggior foga, gagliardamente, appassionatamente, freneticamente, convulsamente, come a volerlo strappare, svellere, sradicare, impossessarsene quale trofeo conquistato.

Restai ansante, sudato, su di lei, baciandole gli occhi.

* * *

Il balcone era semiaperto, la tenda oscillava appena al ponentino.

Eravamo supini, deliziosamente ebbri d'amore.

Nina allungò la mano, la posò sul mio petto.

"Ah! sei tu! Sei qui! Credevo che non ci fossi."

"Infatti, non c'ero. Sono appena venuto."

"Ti ho sentito!"

"Che ne diresti d'una doccia?"

"Non insieme."

"D'accordo. Prima tu, sei più lenta..."

"Oggi non puoi proprio dirlo."

Mi dette una manata tra le gambe e sedette sul letto.

Mi accostai e le lambii la schiena.

"Carlo.. ma non avevi parlato di doccia?"

Si alzò, si stiracchiò.

"Ti prego, Carletto, non venire di là."

Andò nel bagno.

Così com'ero, andai dietro al balcone. Cominciava a far scuro, si accendeva qualche luce, risaltavano i fanalini rossi delle auto che frenavano.

Il balcone, all'ultimo piano, occupava gran parte dell'angolo smusso dell'edificio, tra via della Polveriera e via del Fagutale, il clivo occidentale dell'Esquilino. Sotto, un piccolo spicchio di verde, più giù Via degli Annibaldi, di fronte il Liceo Cavour, e, più in alto, sulla via delle Carine, la scuola elementare e l'Istituto per il Turismo. Verso sinistra, uno scorcio del Colosseso, l'Arco di Costantino, un angolo del Tempio di Venere e Roma, voluto da Adriano per celebrare Venere, madre di Enea da cui sarebbero discesi i fondatori di Roma.

Nina, scalza, più scoperta che coperta dal corto accappatoio, era giunta alle mie spalle e guardava la strada sottostante.

Sentii i capezzoli sfiorarmi la schiena.

"D'ubertà ridono i clivi... Ricordi Carducci, Nina?"

"Ma che c'entrani i clivi?"

"Giù, il Fagutale."

"Ma non vedo niente di ubertoso, giù."

"Il processo mentale di associazione é rapido e spontaneo, istintivo. Il clivo, Carducci, l'ubertà, il tuo seno che mi carezza la schiena..."

Si allontanò verso la poltrona dov'erano i suoi vestiti.

Andai verso la doccia.

"Non farla troppo calda."

Gridò Nina, ironica.

"E tu come l'hai dovuta fare?"

"Freddissima! Anzi, usciamo presto prima che finisca l'effetto!"

Dopo pochi minuti eravamo pronti.

Uscimmo.

La sera non era troppo calda, si camminava bene.

Voltammo per via Eudossiana, raggiungemmo piazza di San Pietro in Vincoli, dove sorge la Chiesa in cui sono custodite le catene di San Pietro. Si dice che siano state rinvenute a Gerusalemme, da alcuni sudditi di Eudocia, moglie di Teodosio II, e da questa regalate alla figlia, Eudossia, moglie di Valentiniano III che fece, per conservarle, ricostruire un antica basilica che sorgeva su rovine di edifici romani di varia epoca.

Qui c'é anche la mia vecchia Facoltà, dove Nina, ancora liceale, veniva ad attendere il fratello, Mario, mio compagno di studi

Scendemmo le scale della Salita Borgia, che segue all'incirca il percorso del Vicus Sceleratus, dove la leggenda afferma che Tullia passò col cocchio sul cadavere del padre, Servio Tullio.

Girammo a sinistra, sulla via Cavour, attraversammo, superammo la vecchia via dei Serpenti, proseguimmo verso la Torre dei Conti.

Andammo ad affacciarci sul Foro di Cesare, al di là della via dei Fori Imperiali.

A destra il Tempio di Venere Genitrice, che Cesare , prima della battaglia di Farsalo, promise alla dea dalla quale la Gens Julia si vantava di discendere.

Guardavo le pietre antiche, e il rumore del traffico intenso mi sembrava il rotolare di cocchi. Quello era il tempio dedicato a Venere, donna bellissima, sensuale, simbolo di grazia e di leggiadria. Venere, stella del firmamento che domina i segni del Toro e della Bilancia.

Nina era a fianco a me, si mise sottobraccio.

"Cosa stai pensando, Carlo?"

"A Venere."

"In che senso?"

"A te, perché tu sei la mia dea dell'amore."

"Come sei romantico, questa sera, ingegnere. Sentimentale, sognante, pieno di fantasia, un po' malinconico. Non é trascorso molto, però, da quando, mi é sembrato che tu cercassi e apprezzassi qualcosa di meno etereo. Poi sono io l'accusata di materialismo. E pensare che tu sei uomo delle costruzioni concrete, dei calcoli, della pietra, e io, per mia scelta, dovrei avere soprattutto una particolare attitudine per il sogno, l'immaginazione pura, la fantasia, l'irrealtà, l'illusione. Non so se in effetti io possegga tale inclinazione. A volte mi sembra vivere nell'illusione: forse sbaglio nel credere e spero vanamente."

La voce, seria, manifestava una certo nervosismo.

Cercai di attenuare la tensione.

"Splendida e sapiente Minerva, in cosa temi di credere erroneamente e di sperare invano?"

"In noi, Carlo. E non sono Minerva, altrimenti non verrei assalita da dubbi e dallo sconforto. Saprei tutto."

"Sono serio, tesoro. Devi avere massima fiducia in noi. Devi affidarti a me, perché non solo ti amo ma ti voglio bene, tanto bene. Amore e bene sono fondamenta incrollabili per l'edificio che abbiamo costruito, e che il mio e il tuo amore rinsalderanno sempre più.

Mi piace quando mi definisci sognatore concreto, perché é così: ti sogno, poi mi desto e ti sento vicina, meravigliosa, palpitante, vera."

Si strinse a me.

La baciai sugli occhi umidi.

"Bambina bella, andiamo a farci una pizza."

Tirò su col naso, mi sorrise, annuì col capo.

La solita pizzeria era vicina. A Largo Ricci.

Ce ne sono due, una di fronte all'altra.

Noi, come d'uso, andammo a quella vicino alla torre: non aveva pretese estetiche, non era meta di gruppi di turisti, e faceva pizze ottime a prezzi contenuti.

Data l'ora c'era abbastanza posto. Sedemmo al tavolo verso il muro, il più lontano possibile dalla strada, dai rumori e dagli scarichi delle auto.

Remo, il vecchio cameriere, venne subito.

"Er solito ingegné? Anche a lei signora?"

Al nostro piccolo cenno d'assenso andò subito a ordinare "due margherite e due medie!"

Nina mi toccò il ginocchio. Sussurrò appena che quasi non la sentii.

"Foscolo!"

"Chi?"

"Foscolo, non fare il finto tonto, che hai capito. Fiorir sul caro viso... veggo la rosa!"

"Ah! la solita storiella."

"Vedi, é alla cassa. Credo che ci abbia visto."

"E allora?"

"Allora... niente! Credo che la cotta non le sia passata. Ti lancia certe occhiate..."

Risposi seccato:

"Si, mi scopa con gli occhi."

"Se potesse, lo farebbe. Del resto non sei stato tu a dirmi delle sue lettere dove, con abbondanza di particolari, ti raccontava i suoi sogni che, in fondo, erano tutte scopate con te?"

"Si, in sogno."

"Questo lo dici tu."

"E quindi la fonte é certa."

"Certezza e sincerità non sono la stessa cosa."

"Niné, sei proprio una pizza, a pensarci bene era inutile venire qui."

"Ma perché te la prendi tanto. Ma é vero o no che Rosa ti scriveva lunghe lettere roventi di passione, traboccanti di desiderio?"

"Si, Nina, mi scriveva, e tanto.

Allora abitavo qui accanto, al 325, e la mia cassetta delle lettere era sempre piena delle buste profumate che vi infilava. Ma scriveva a sé stessa, in una forma di autoesaltazione molto simile alla masturbazione. C'é gente che si esalta, scrivendo, cose fantasiose, soltanto frutto dell' immaginazione, e raggiunge persino l'orgasmo. In effetti, i dettagli erano tali e tanti che chi non era al corrente delle cose avrebbe potuto anche crederci."

Erano arrivate le pizze e i due boccali di birra.

Remo augurò buon appetito e disse che ci avrebbe portato alcune ascolane fatte allora allora dalla sora Rosa.

"Ma tu" -insisté Nina- "non l'hai mai fatto con Rosa?"

"Mai, te lo giuro."

Mi guardò in modo strano.

"Neppure a letto?"

"Ma che cavolo dici?"

Proseguì con un'aria di falsa ingenuità.

"Beh, potevi averlo fatto sul prato, in auto, che sò, in ascensore..."

La interruppi tra il seccato e il divertito.

"Oppure nel forno caldo! Sai che é proprio ganza l'idea il forno caldo? Dobbiamo pensarci. E poiché non abbiamo un forno grande abbastanza lo potremmo fare sul barbecue, che ne dici?"

"Ottima idea. Però sotto ti ci metti tu!"

E scoppiò a ridere.

"Ti eccita il barbecue, eh?"

"Soprattutto mi scalda..."

E giù altre risate, che le uscivano le lacrime dagli occhi.

Mi guardò, scoppiò di nuovo a ridere.

"Penso a Rich sul barbecue!"

"Ma pensa alle chiappe tue arrosto!"

"No, ingegné, sotto ci stai tu, é tutta roba tua quella che s'arrostisce..."

Allungò la mano, sotto il tavolino, la mise sulla patta dei miei pantaloni.

"Povero Rich, finire arrosto!"

* * *

Erano trascorsi tre anni da quel giorno.

Avevo deciso di parlare chiaro.

Si trattava della sorella di Mario e non volevo porre in pericolo la nostra lunga, profonda, fraterna amicizia.

Nina mi piaceva. Tanto.

Lo abbordai risoluto.

"Senti, Mario, vorrei invitare Nina a prendere un gelato. Tu che ne dici?"

Mario sorrise.

"Credo che lei aspetti solo questo. E da tempo. Non me lo ha detto, ma parla solo di te. Fin da quando era ragazzina. Se sapeva che venivi a casa nostra, a studiare, si metteva in ghingheri e cercava ogni scusa per interromperci. Ricordi?"

"Va bene, ma tu cosa ne pensi?"

"In certe cose sai essere molto serio, e agire a seconda delle circostanze.

Nina é la pupa di casa ed é veramente una bambinona. Allegra, socievole, ha un invidiabile humour: prende le cose con ironia, cerca di riderci sopra di sdrammatizzarle. Ma é anche sensibile, gentile, facile a commuoversi e nel contempo decisa, determinata, risoluta.

Ha conseguito la maturità con sessanta e si é iscritta a lettere moderne col proposito di laurearsi entro quattro anni e col massimo dei voti. Vedrai che ci riuscirà.

Chiediglielo tu, di uscire con te.

Certo, però, povera Nina, padre e fratello ingegneri, adesso anche il ragazzo..."

La sera telefonai a casa Stefani. Rispose Nina. Andava bene per il gelato. Mi avrebbe aspettato a casa, l'indomani, quando uscivo dall'ufficio.

"Ma Nina" -dissi- "domani é sabato, io non vado in ufficio. Lavorerò un po' a casa, per il resto sono libero."

Preparavo un progetto per la ristrutturazione di un edificio monumentale di Siena, di proprietà del Comune. L'interno doveva essere ammodernato, senza, però, alterarne la volumetria. L'esterno doveva rispettare l'originale, perfino nel colore.

"Allora alle dieci, va bene Carlo?"

"Benissimo, ciao."

Lasciai l'auto proprio davanti al suo portone. Era un parcheggio riservato, ma col contrassegno del Comune non rischiavo contravvenzioni.

Citofonai. Mi disse che sarebbe scesa subito.

Avevo pensato che volesse farmi fare, prima, quattro chiacchiere con la simpatica madre che, del resto, conoscevo bene essendo da quindici anni uno dei più stretti amici del figlio.

Nina uscì dall'ascensore con l'aria sbarazzina di sempre.

"Ciao Carlo."

"Ciao, Nina. Come sei sportiva, oggi. Stai proprio bene."

"Grazie."

Salimmo in auto.

Le proposi: "Che ne pensi della casina Valadier?"

"E se, invece, andassimo al Gianicolo? Potremmo gustare i gelati di fronte allo spettacolo del tramonto su Roma."

"Ma Nina, é mattino!"

"Ah, già, però al Gianicolo si sta bene lo stesso. Vuol dire che avremo il sole negli occhi."

Attraversammo l'Eur, percorremmo viale Marconi, Trastevere, e sù, fino al piazzale Garibaldi.

Mettemmo l'auto alle spalle del monumento e ci avviammo verso il chiosco. A fianco il teatro delle marionette.

"A me crema e cioccolato" -disse Nina- "e non troppo grosso."

"Ma non vuoi sedere a un tavolino?"

"No, meglio andare a guardare il panorama. Più tardi spareranno il cannone, vero?"

"Si, a mezzogiorno."

Ordinai i gelati. Per lei crema e cioccolato, per me fragola e pistacchio.

L'uomo al banco chiese se volessimo la panna. Nina scosse la testa. Il gelataio prese due bicchieri di plastica, li riempì con i gusti richiesti, in ognuno infilò una specie di cucchiaino di legno e me li porse.

Nina volle subito il suo, e mentre andavamo verso il parapetto ne assaggiò il contenuto: prima la crema, poi il cioccolato.

"E' buono, sai?"

Arrivati al basso muretto dal quale ci si affaccia su gran parte di Roma, allungò il suo cucchiaino verso il mio gelato.

"Fa assaggiare. Posso?"

"Certo."

"Devo assaporare separatamente, però, o non ci capisco nulla."

Prese prima il pistacchio, poi la fragola.

"Anche questi sono buoni, ma preferisco crema e cioccolato. Prova?"

Riempì di gelato il cucchiaino e lo avvicinò alla mia bocca.

"E' vero, é meglio il tuo." -dissi- "Hai veramente buon gusto."

Mi guardò maliziosamente.

"Certo, altrimenti non sarei qui con te."

Divenne un po' rossa, e seguitò a mangiare il gelato guardando lontano, verso i colli Albani, Monte Cavo.

Sotto di noi Regina Coeli, il Carcere. Alzando lo sguardo, il Pantheon, il Quirinale, Santa Maria Maggiore, San Giovanni. A sinistra, San Pietro, Castel Sant'Angelo e, spostando l'occhio, il Palazzo di Giustizia, Villa Borghese, il Pincio, Villa Medici...

Mi avvicinai a Nina e le misi la mano sulla spalla. Poggiai il mio bicchierino sul parapetto.

Non si mosse, seguitò a mangiare il gelato.

"Non ti piace? Non lo finisci? Non lo hai quasi toccato!"

Strinsi un po' la mano per accostarla a me. Sentivo il suo fianco morbido.

Alzò la testa per guardarmi.

"Se non lo vuoi lo mangio io."

Presi il bicchierino e glielo porsi.

"Sono contento che ti piaccia. Mangialo tu, é come se lo gustassi io attraverso la tua bocca. Lo mantengo io, mentre lo mangi."

"No, il bicchierino lo reggo io, e tu mi tieni la mano perché non mi cada."

Quando finì, raccolsi i vuoti e li gettai nel cestino dei rifiuti.

Presi dal taschino il fazzoletto candido, ne avvicinai un pizzo vicino alla sua bocca, e ne tersi piano gli angoli che recavano il segno del cioccolato.

Mi guardò con dolcezza.

"Mi tratti proprio come una bambina."

"Tu non lo ricordi, ma la prima volta che sono stato a casa tua, avevo 12 anni, mi venisti incontro e mi domandasti se ero il compagno di Mario, come mi chiamavo, che tu eri Nina e cosa ti avessi portato. Poi alzasti le spalle e te ne andasti.

Il giorno dopo ti portai un gianduiotto. Lo scartasti, lo mangiasti golosamente. Mi dicesti di pulirti la bocca altrimenti la mamma se ne sarebbe accorta e non voleva che tu mangiassi cioccolato."

Nina fissava il vuoto.

"Lo ricordo benissimo. Avevo solo cinque anni, ma quel regalo nascosto mi fece sentire tua complice ma non colpevole di disobbedienza. Insomma, eri tu che mi avevi dato il gianduiotto, non potevo certo rifiutarlo.

Nascosi la carta dorata nella tasca del grembiulino, poi la misi nella scatoletta dei miei segreti, nel mio cassetto. E' ancora li."

Le cinsi il fianco e la strinsi ancora di più.

"La piccola Nina che conserva la carta dorata, ricordo del suo peccatuccio. E ne hai tanti di questi ricordi nella tua scatoletta?"

"C'é solo quello, ma c'é tanto spazio..."

"Carta dorata" -proseguii- "come la terra del colle di Giano, il Gianicolo, per tale ragione detto Mons Aureus."

"Lo so che c'é sempre qualcosa da imparare, da te."

"E per questo hai accettato di uscire con me?"

Mi guardò stringendo le labbra, graffiando leggermente, con le sue piccole unghie rosa, la mano che le stringeva il fianco.

"Posso dire a un ingegnere che o c'é o ci fà?"

"Non capisco."

"Allora ci fai!

Lascia stare, andiamo a vedere la quercia del Tasso, non dev'essere lontana."

La presi sottobraccio.

"Andiamo in auto fino a un certo punto."

Salimmo in macchina.

Aprii un po' i finestrini.

"Ti da fastidio l'aria, Nina?"

"No, anzi."

Le misi una mano sul ginocchio.

Non disse nulla. Sentii che s'irrigidiva.

Le parlai sottovoce.

"Nina, é la prima volta che usciamo insieme. Posso sperare in una seconda?"

Annuì con la testa.

"E in altre ancora?"

Seguitò ad annuire, più decisamente. Sulla mia mano cadde qualcosa di deliziosamente tiepido. Nei suoi occhi brillavano due lucciconi, come splendidi diamanti.

Mi chinai su lei, accostai le mie labbra ai suoi splendidi occhi, sentii il sale delle sue lacrime che, ora, sgorgavano copiose.

La sua voce era soffocata da piccoli singhiozzi, mi guardò negli occhi, tra le lacrime, tirò sù col naso.

"Non prendermi in giro, Carlo, ti prego. Non farmi questo. Lasciami nel mio sogno, nella mia illusione..."

Le sua piccola bocca vermiglia tremava.

Incurante dei possibili passanti, la baciai sulle labbra. Mi strinse il volto tra le mani e ricambiò il bacio, così, con le labbra strette.

Prese il mio fazzoletto dal taschino, e tornò la piccola sbarazzina di sempre: vi si soffiò sonoramente il naso, lo ripiegò, lo rimise al suo posto.

"Non scherzare, ingegnere. Ripeto, non giocare. Non farmi del male. Non ridere di me accorgendoti che non so baciare, che non ho mai baciato nessuno."

ULISSE
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