Ca' De Do'

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Un tempo era "Ca' Marco".
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Un tempo era "Ca' Marco".

E quel nome rimase anche dopo che sul portale di pietra era apparsa l'aquila bicipite degli Asburgo. Poi, sulle colonne sinistra, furono scalpellati i fasci con la scure bipenne.

Due teste l'aquila, due fasci, due tagli ogni scure.

La gente cominciò a chiamarla "Ca' Do'", "Dom Dva", ma il Segretario Politico, che pure vi aveva stabilito per qualche mese il suo centro di potere, non si domandò mai il perché di quel nome.

Il trascorrere degli anni l'aveva resa più grigia che mai, il portale era annerito, nulla ricordava il lustro conferito dal rappresentante della Serenissima e dall'inviato dell'Imperatore.

Il portone, ben curato, era sempre imponente e il vecchio pozzo, nel vasto cortile, conservava ancora la carrucola, vuota, e il coperchio arrugginito. Sotto il sedile di pietra era accatastata la legna. I vani del piano terreno erano chiusi da pesanti battenti scuri.

Di fronte, al centro, iniziava la scala. Gradini lunghi e bassi fino al pianerottolo, da dove si dipartivano le due rampe che conducevano al primo piano, proseguivano per il secondo e poi, divenute più modeste, portavano alla soffitta.

La grondaia, da poco rifatta, girava intorno al tetto, accoglieva l'acqua della pioggia, la convogliava in un angolo e la riversava, attraverso un grosso condotto, nella cisterna centrale. Nel punto in cui il tubo spariva nel terreno, tra le grosse lastre di pietra, s'era formato un sottile strato di muschio, come un velluto smeraldo.

"Ca’ Do’" era quasi deserta. Solo il secondo piano era abitato: due famiglie, madre e figlia, due donne e due uomini. Usavano unicamente la porta grande che s'apriva al centro del ballatoio, le altre, più piccole, laterali, erano state chiuse e nel corrispondente vano interno, dove si sarebbero aperte, erano stati messi degli attaccapanni, nascosti da pesanti tende di velluto scuro.

Era, in sostanza, un unico appartamento che occupava tutto il piano.

L'ingresso, ampio, prendeva luce dalla finestra circolare che stava sulla porta d'entrata, protetta da un'artistica grata. Nel mezzo, un pesante tavolo di legno scuro con una composizione in ceramica, frutta colorata, su un merletto di filo écru. Alle pareti alcune vecchie oleografie e, accostate, delle sedie. Dal soffitto scendeva un bel lampadario di ferro battuto: un cerchio con sei candele elettriche che emanavano una luce rossiccia. Il pavimento di legno lucidato a cera.

La donna mi aveva accolto con un sorriso di cortesia e mi guardava con fare interrogativo.

- Buon giorno signora, mi manda Magnani.

- Ah! Prego, signor tenente, accomodatevi.

Attese che entrassi, chiuse l'uscio e s'avviò verso la porta centrale che conduceva in un salone arredato con semplicità. Mobili senza la pretesa di un salotto ma più eleganti di quanto sarebbe servito per un semplice tinello. Nell'angolo, tra i balconi che affacciavano sulla piazza solitaria, due poltroncine e un tavolino basso.

La donna mi fece cenno di sedere, e prese poste sull'altra poltroncina.

Alta, slanciata, vestita modestamente ma con molta cura. I capelli, raccolti in una lunghissima e grossa treccia nera, lucidi, formavano una scura matassa serica tenuta insieme da un civettuolo nastrino rosso. Le mani, attentamente curate, cercavano di nascondere la consuetudine con i lavori domestici. Il volto aperto, sorridente, la pelle dorata e liscia. Occhi verdi, labbra non grosse e ben disegnate.

Poteva avere quaranta anni. Forse di più. Difficile stabilirlo, per il giovanile modo di muoversi, di camminare, di sedere.

- Questa stanza è ciò che noi pomposamente chiamiamo "il salone" ed è comune ai due appartamenti. Adesso, però, viviamo tutti in quello sud. L'altro è chiuso per risparmiare luce, riscaldamento e il lavoro delle pulizie giornaliere.

Il pavimento era lucido, perfettamente tirato a cera.

Vicino alla porta, alcune pattine. Mi scusai per non averle usate. In effetti, non le avevo notate fino a quel momento.

La donna scosse il capo, sorridendo, e disse che neanche lei se ne era servita, come potevo vedere.

- Voi siete qui per la camera, vero?

La voce era calda, vellutata, con una lieve sfumatura di raucedine, quasi volesse parlare in sordina. Pronunciava le parole lentamente, con una leggera cadenza, vicina a quella dei Triestini.

- Si -seguitò- i tempi sono difficili e dobbiamo aiutarci come si può. Mio marito è lontano, richiamato alle armi, e i due ragazzi hanno bisogno di tante cose. Venite a vedere la camera. Se sarà di vostro gradimento avremo tutto il tempo per parlarne e certamente ci metteremo d'accordo.

Si alzò.

- Vi faccio strada.

Tornammo nell'ingresso, andò alla porta di sinistra, l'aprì. Un corridoio alquanto buio, illuminato da due lampadine poco splendenti nei tersi globi di vetro. Ai lati e sul fondo, porte di legno con lucide maniglie d’ottone.

Si fermò e indicò una tenda a destra.

- E' l'ingresso secondario che dà sul pianerottolo.

Senza muoversi, seguitò:

- A sinistra la stanza da pranzo, ma noi, ora, consumiamo i pasti in cucina. Quindi, la camera dei ragazzi, Stano e Mario, poi il bagno, la cucina e, di fronte, un piccolo ripostiglio. La porta successiva è la camera che occupo io, ed ecco quella che intendiamo affittare. Nell'ultima c'é Iela, mia figlia, col suo bambino di pochi mesi. Il marito è imbarcato, militarizzato, su un’unità adibita al trasporto di truppe e materiali.

Si avvicinò ad una porta, l’aprì.

-Questa é la camera disponibile.

La stanza era ampia, luminosa, parati chiari, mobili di noce, molti specchi: sul comò, sulla toletta, sulle ante degli armadi. Il pavimento di legno, a cera, splendeva.

Subito dopo l'uscio, a sinistra, un tavolino con una sedia, poi una porta chiusa, senza maniglia, il comodino a fianco del letto accostato alla parete; nell'angolo la toletta con una poltroncina, quindi il balcone, di fronte alla costa rocciosa dominata dal vecchio castello. Proseguendo, il comò e, sull'altra parete, il grosso armadio a due sportelli.

La signora cercava di leggere in volto le mie impressioni.

- E' una bella camera -dissi- forse anche troppo grande per me. Devo conoscere, logicamente, le vostre richieste prima di decidere.

- Certo -replicò lei, cortesemente- venite che vi offro quello che dovrebbe essere un caffè. Se non vi dispiace lo prenderemo in cucina, come se foste un altro mio figlio. Quanti anni avete, se posso chiederlo?

- Quasi ventuno.

- La stessa età di Iela. Noi da queste parti usavamo sposare abbastanza giovani. Io non avevo ancora diciannove anni, ma anche Iela, del resto, aveva la stessa età quando ha sposato Mirko.

Nella vasta cucina mi fece sedere accanto al tavolo. Prese una piccola "napoletana", e la riempì con una polvere nera conservata in un barattolo che stava nella credenza. La mise su un fornello a spirito. Restò in silenzio fin quando l'acqua iniziò a bollire. Girò la macchinetta, la portò sul tavolo. Stese un bianco tovagliolo, vi pose due tazzine, i cucchiaini, una piccola zuccheriera. Venne a sedersi di fronte. Accavallò le gambe. Non indossava calze. Le caviglie erano snelle, il polpaccio ben modellato. Mi fissò negli occhi, con un lieve sorriso nel volto.

- Quanto volete spendere?

La risposta mi uscì spontanea, improvvisa, senza essere stata ponderata, senza valutarla.

- Quello che mi chiederete.

Sembrava assente quando sussurrò qualcosa che non capii. (Mi sembrò udire, Kamo srece! magari!.)

Si riprese subito e la richiesta fu esattamente la cifra che avevo deciso di destinare al fitto della camera.

Proseguì.

- E' chiaro che provvederemo noi alla biancheria da letto e da bagno e alla pulizia della camera. Lo scaldabagno è a legna, dovremo intenderci sul quando vorrete usarlo. Non c'è bisogno che mandiate l'attendente per fare queste faccende. Scusate, ma non gradisco molta gente per casa.

Quella specie di caffè era colato, lo versò nelle tazzine, scoperchiò la zuccheriera, prese il cucchiaino che era dentro.

- Quanto?

- Solo mezzo, grazie.

Mi porse la tazzina sul piattino dov'era il cucchiaino.

- Io lo prendo amaro. Sono abituata all'amaro.

E i suoi occhi furono attraversati da un velo di tristezza.

Si sentì un lieve fruscio nel corridoio.

Come se si risvegliasse all'improvviso, ricompose il volto rivestendolo del solito vago ed enigmatico sorriso.

- Dev'essere mia figlia col bambino. Tornano dalla passeggiata.

Iela, sono qui, vien qua.

Sulla porta apparve una giovane donna, quasi una ragazza, vestita di bianco: gonna svasata, corpetto senza maniche, un po' attillato sul seno rigoglioso. Sandali bianchi, senza tacco. Gambe lunghe, affusolate, che salivano a modellare la pregevole curva dei fianchi. Il volto roseo, allegro, sorridente, gli occhi d'un azzurro scintillante, profondo, in cui ci si sentiva sperdere, lunghe ciglia, un piccolo nasetto su perfette labbra vermiglie, il collo d'alabastro, un ricco manto di biondi capelli sulle spalle.

Il piccolo bimbo che aveva in braccio tese le manine alla nonna. Nel porgerlo, Iela allungò le braccia mostrando le ascelle dorate.

- Iela, questo è il nostro inquilino.

E questa è Iela, mia figlia, col piccolo Roberto.

Mi alzai per salutare la nuova venuta.

Mi tese la mano. Bianca, morbida, curata, ma decisa nella stretta.

- Sono Giorgio Santin. Mi auguro di non arrecare eccessivo disturbo nella vostra bella casa.

Iela mi interruppe.

- Eventualmente sarete voi ad aver fastidi da Roberto, e forse anche da Stano e Mario che sono alquanto rumorosi.

Non li avete ancora conosciuti, vero?

Credo che siano in palestra, perché qui di lavoro neanche a parlarne, e Stano ha già diciotto anni e la licenza complementare. Mario deve ancora finire gli studi, lui dice che vuole fare il pilota militare, ma chissà cosa lo aspetta nella vita.

Mi tese nuovamente la mano, prese la mia e la scosse con vigore.

- Benvenuto a "Ca' Do'", perché la chiamano così, lo sapete? Ma avrò tempo per raccontarvene la storia, se non vi annoierò.

Mi sembrò opportuno parlare del piccolo. Mi complimentai: era bello e ben cresciuto, poi presi commiato dicendo che sarei tornato verso sera e che vi avrei fatto portare il mio bagaglio. Presi dal portafoglio l'importo del primo mese di fitto e lo posi sul tavolo, accanto alla tazzina di caffè ormai vuota.

La madre di Iela ebbe un gesto di sorpresa.

- Non c'era bisogno di tanta fretta.

Volevo dirvi che, se non avete impegni, saremmo lieti di avervi a cena con noi. Sapete, un pasto modesto, sia nella qualità sia nella quantità, ma vorremmo salutare la vostra venuta. E saremo lieti se potremo avervi con noi anche le sere future.

Si voltò verso la figlia.

- Vero Iela?

- Vrlo dobro! Benissimo, mamma, se il signor Tenente ci farà l'onore della sua presenza festeggeremmo l’ingresso del nostro primo inquilino che, però, vorremmo considerare soprattutto un amico.

Ero restato in piedi, da quando era arrivata Iela.

- L'invito è un dono inatteso e gradito, mi fa sentire non estraneo nella vostra casa. Grazie, sono felicissimo di accettare. Quel "signor Tenente", invece, mi fa sentire tanto lontano. Visto che sarò a cena con voi, questa sera, e spero in cucina, dove, come mi è stato detto, consumate abitualmente i pasti, non vi sembra che io sia solamente Giorgio?

- E io sono Iela.

Disse la bella mamma di Roberto.

- Ma tu... scusate, ma voi siete una signora, è un'altra cosa.

- E allora?

Non seppi dire altro.

- Io sono Katia, la... vecchia nonna -intervenne la padrona di casa, salutandomi- Iela accompagnalo alla porta, io resto qui con Roberto.

Giunto sul pianerottolo, Iela mi sorrise tendendomi la mano, che indugiò nella mia.

- Ciao Giorgio, ci vediamo a cena, zdravo.

II

L'unica torta che riuscii a trovare fu una specie di pan di spagna, addolcita col miele in luogo dello zucchero, imbottita di crema e ricoperta di panna.

Non potevo, certo, portarla attraverso il centro del paese, né affidare l'incarico all'attendente. Sarebbe stato buffo vedere un soldato, fucile a bracc'arm, col grosso pacco della pasticceria. Pregai il venditore di provvedere alla consegna, e lasciai una mancia con la preghiera di non accettarne altra dal destinatario.

Il bagaglio era stato ritirato dall'albergo e il facchino, con un vecchio e cigolante triciclo, si era incaricato di portarlo nella nuova abitazione. Lo incontrai che tornava dopo aver effettuato il trasporto. Si fermò, ringraziando ancora per la camicia nuova che gli avevo regalato e per dirmi che mi ero anche disturbato a dargli del denaro, mentre per quel servizio non ci sarebbe voluto niente.

- Go' messo tuto ne la camara. Xe veramente comoda, sior tenente, e la se troverà ben. Bela gente, vero? Gà vedùo che roba?

Risalì in sella e si allontanò con un rumore di vecchia ferraglia.

Mi avviai verso "Ca' Do'", salii lentamente le scale, tirai il pomolo d'ottone che sporgeva a destra della porta. Dopo pochi istanti, senza che si fosse udito alcun passo, la porta si aprì. La signora Katia indossava un vestitino chiaro e attillato, appena coperto da un grembiulino con la pettorina bordata di rosso vivo. Aveva un'aria giovane, sbarazzina. Ai piedi le pattine. Quando si accorse che con gli occhi andavo cercando, sul pavimento, quelle che avrei dovuto usare io, il volto le s’illuminò con un sorriso.

- No staga a preocuparse, no ghe xe bisogno che le porti anca lu.

Arrossì e si affrettò a giustificarsi.

- Scusatemi, ma noi, in genere si parla in dialetto, quasi veneto, o in croato.

Entrai e misi i piedi sulle pattine di feltro. Sorrisi a mia volta, rassicurandola.

- E' bello il dialetto veneto, lo comprendo e mi piace moltissimo, è dolce, musicale, confidenziale. E' la prima lingua che ho parlato, fin dall'asilo. Inoltre, desidero apprendere un po' di croato.

La guardai con ostentata ammirazione.

- Bel vestito, signora, così siete la sorella bruna di Iela.

Il volto della donna si distese, sparirono anche le due sottili rughe che erano comparse sulla fronte.

- Hvala! Grazie, troppo buono. E' un complimento, non la realtà. Grazie.

Volevo dirvi che hanno portato una bellissima torta. Credevamo che il ragazzo avesse sbagliato. Non c'era biglietto. Poi ha detto che era stata ordinata dall'ufficiale venuto da poco e abbiamo capito che eravate voi. Non ha voluto neppure essere ringraziato, è scappato subito via. Immagino che sia per la cena, ma non dovevate disturbarvi. Iela, golosissima, ha battuto le mani per la gioia, ha subito preso un po' di panna con un dito e poi ha cercato di nascondere il furto riappianando la parte toccata.

E' arrivato anche il bagaglio. Il facchino ha preteso di portarlo lui stesso in camera vostra. Se volete, possiamo pensare noi a mettere tutto a posto, nell'armadio, nei cassetti, salvo che non vi siano cose riservate che volete curare personalmente.

- Per il dolce non ci vuole alcun ringraziamento, è per mangiarlo insieme. Nel bagaglio, di riservato c'è solo una scatola di legno, chiusa a chiave, con dei documenti. Chiedo scusa ma devo tenerla così, del resto la conserverò in un cassetto. Grazie di cuore per l'interessamento, ora dovrò aprire la valigia, per cambiarmi, poi vi lascerò le chiavi di tutto. A proposito di cambiarmi, non ho vestiti per mettermi in borghese, quindi devo restare in divisa perché non credo opportuno presentarmi con la giacca del pigiama.

- Potete venire come volete, in divisa, con la giacca del pigiama, in camicia come saranno i miei figli. Noi siamo gente alla buona, senza alcuna etichetta. Ma adesso è meglio fare quello che dobbiamo, voi nella vostra camera, io in cucina. Se non avete nulla in contrario, andremmo a tavola fra un'ora.

Si fece da parte per farmi passare. Le cedetti il passo e, dietro di lei, mi avviai verso la mia camera.

Avevano messo, vicino alla toletta, un asciugamano grande e due piccoli; sul comodino, in un vassoio, una bottiglia piena d'acqua, con un bicchiere.

Tolsi il cinturone, lo appesi all'attaccapanni tra il comò e l'armadio, estrassi la pistola dalla fondina e la riposi nel cassetto del comodino. Poggiai la giubba sulla spalliera della sedia, sciolsi la cravatta e levai la camicia, le misi vicino al cinturone. Aprii il baule e presi cacciastivali e pantofole.

Dopo poco ero in pigiama e pantofole.

Uscii nel corridoio, andai nel bagno per rinfrescarmi.

Rientrato in camera, dalla valigia tolsi il "necessaire" che conteneva quanto serviva per radermi, pettinarmi, lavarmi, e lo sistemai sulla toletta. Mi pettinai e restai un po' dietro i vetri del balcone, a guardare il grigio del castello.

Indossai un paio di pantaloni e una camicia abbastanza stirati, infilai gli stivali, misi la cravatta.

Mancava mezz'ora per la cena, avrei potuto mettere a posto gli effetti personali, ma avevo voglia di non fare nulla.

Uscii nel corridoio. Dalla cucina giungevano rumori soffocati e un parlottare a bassa voce. Mi schiarii la voce.

Come se qualcuno fosse stato in ascolto, si aprì la porta e comparve Iela. Indossava una gonna scura, che le affinava i fianchi, e una comoda camicetta di cotone bianco, abbottonata sul davanti. Mi salutò con la mano, sorridente, restando sulla porta.

- Ah, Giorgio. Dobro vece, buonasera. Venite, c'è posto per tutti. Parliamo piano perché Roberto dorme, dopo la poppata. Anzi, andiamo a vederlo. Piano, faccio strada.

Attraversò il corridoio, si fermò accanto alla porta della sua camera, adiacente alla mia, restò ad origliare, con la mano sulla maniglia, l'abbassò lentamente, senza alcun rumore, aprì con molta cautela e mise dentro le testa. Si voltò verso di me e mi fece cenno di avvicinarmi. Le pattine scivolavano silenziose sul pavimento. Quando le fui accanto mi prese per mano e mi fece entrare nella camera avvolta dalla penombra. Accanto alla porta, tra il muro e il letto matrimoniale, stava la culla di Roberto, circondata da un vistoso nastro celeste, coperta con un velo che scendeva dal legno sagomato che la sovrastava.

Iela avvicinò il dito alla bocca, per raccomandarmi silenzio. Si curvò sulla culla. Roberto dormiva beato, con i pugnetti chiusi. Lei lo guardò con tenerezza, gli occhi lucidi. Si fece un po' da parte perché lo potessi vedere da vicino. Cercai di dirle con lo sguardo che era un bambino meraviglioso, mi guardò fisso, serrò le labbra, mi strinse la mano.

Uscimmo silenziosamente, com’eravamo entrati. Iela chiuse la porta. Senza lasciare la mia mano andò verso la cucina. Parlò piano, sottovoce, come per tema di svegliare il bambino.

- Piace anche a lui, mamma.

Forse, solo allora si accorse che stringeva la mia mano, come se così si sentisse sicura, protetta. La lasciò lentamente, senza aprire del tutto la sua, in una lenta carezza.

Sedette sulla sedia poco discosta dalla tavola imbandita.

Batté piano la mano sulla sedia accanto. Andai a sedermi li, guardando tovaglia, tovaglioli, piatti, bicchieri, posate...

La signora Katia disse che andava a chiamare i ragazzi e usci nel corridoio.

Iela si alzò, io le andai vicino. Indicò i posti.

- Stano siede a capotavola, al posto di papà, alla sua destra l'ospite con vicino la mamma; dall'altra parte Mario ed io. Va bene?

Entrarono due giovanottoni, alti, robusti, volti aperti, simpatici, occhi verdazzurri, capelli castani.

Indossavano pantaloni scuri e camicie chiare.

La signora Katia li seguiva.

- Tenente Santin, questi sono i miei figli, Stano e Mario.

Due vigorose strette di mano, e ci sedemmo nei posti indicati da Iela.

Prima ancora di spiegare il tovagliolo, la signora Katia si fece il segno della croce, imitata dagli altri.

- Noi usiamo dire una piccola preghiera prima d’ogni pasto e non vorremmo perdere l'abitudine. La diciamo in croato.

Anch'io risposi "amen" al termine del breve ringraziamento, pur senza averne capito le parole.

La cena fu ottima e abbondante: sformato di verdura, coniglio al forno, con patate, uva. Il dolce, anche se autarchico, era delizioso. Il vino fresco ed invitante. Iela non diceva mai basta quando le riempivo il bicchiere. Al termine comparve una bottiglia di frizzante che animò ancor più la conversazione, che si svolgeva quasi sottovoce per non svegliare Roberto.

ULISSE
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