Il Triangolo

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The Triangle - sex and a murder.
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L'ascensore s'era fermato silenziosamente al quarto piano e la porta s'era aperta automaticamente, con un leggero fruscio. Carlo, avvicinatosi all' appartamento, aveva estratto dalla tasca interna della giacca l'astuccio dov'erano custodite delle strane chiavi a snodo, ognuna ripiegata su s‚ stessa, con mappe a diversa scanalatura.

Aprire dall'esterno la porta di casa era un vero e proprio rito: le chiavi dovevano essere introdotte nelle serrature e fatte girare nelle toppe con una sequenza stabilita, che non accettava sbagli o distrazioni. Altrimenti bisognava ricominciare da capo tutta la manovra. Ma solo una seconda volta. Poi, per riprovare di nuovo, bisognava attendere due ore, altrimenti tutto si bloccava.

Solo al penultimo scatto della terza chiave, quella della serratura centrale, si disinseriva l'allarme collegato con la guardiania dell'edificio e con la polizia, e si sbloccavano le sicure delle chiusure dei balconi e delle finestre.

La paura dei ladri, il timore che un estraneo potesse entrare nel suo appartamento e violare la sua privacy, avevano qualcosa di maniacale. Erano stati ipotizzati eventi del tutto improbabili, tentativi di scasso fantasiosi, scalata ai balconi, discesa dal tetto, sofisticate apparecchiature per la forzatura delle serrature, per la individuazione dei circuiti elettronici di sicurezza, per l'aggressione all'uscio dell'ingresso e ai cancelli che proteggevano finestre e balconi.

In ogni vano, invisibili occhi erano pronti a registrare chiunque fosse entrato durante quello che i tecnici definivano il regime protetto. Appositi accumulatori assicuravano il funzionamento delle apparecchiature, in caso di sospensione dell'erogazione dell'elettricità, e prima che gli accumulatori fossero scarichi entrava in moto un gruppo elettrogeno munito di un perfetto sistema di espulsione dei residui della combustione.

Le combinazioni per l'apertura della cassaforte poteva mutare giornalmente, era programmabile per un intero anno, ed era gestita attraverso il secret file del computer e del memory pocket cui si accedeva co personal pass-word che conosceva solo Carlo. Copia di tutto era nel dischetto, in busta sigillata, in una scatoletta a prova d'inquinamento magnetico, depositata presso il notaio Quadri.

Carlo chiuse la porta dal di dentro, fece scorrere il fermo non manovrabile dall'esterno, mise in sicurezza tutte le chiusure, and• nello studio.

Il guardiano l'aveva salutato, e aveva annotato nel registro l'orario del suo rientro. Nella finca intestata "con", aveva scritto solo.

E solo, Carlo, sarebbe stato fino all'indomani, quando lui stesso avrebbe consentito l'apertura della porta, per far entrare Luigi, il cameriere, che era andato a troncare la madre a Mentana.

Entrò nella sua camera, sostituì la giacca da passeggio con quella del pigiama, tornò nello studio, andò verso il mobile sul quale erano vari bicchieri e bottiglie, si servì del whisky, aprì lo sportello del frigo, ornato del dorso di eleganti volumi così che sembrava una piccola libreria, prese due cubetti di ghiaccio, li mise nel bicchiere, and• a sedere in poltrona, di fronte al televisore, con a fianco un grosso pacco di giornali e riviste.

Col telecomando fece scorrere alcuni canali, decise per un documentario sul Sahara, molto interessante. Aprì il quotidiano finanziario che preferiva, inforcò gli occhiali e cercò qualcosa di particolare. Bevve piccoli sorsi dal bicchiere. Fece scendere in bocca quanto restava dei cubetti di ghiaccio, li ruppe coi denti, ne mandò giù i pezzetti più piccoli e rimise gli altri nel bicchieri .

La testa gli cadde lentamente sul petto, il bicchiere gli sfuggì di mano e cadde, senza rumore, sul tappeto. Il giornale s'afflosciò sulle ginocchia.

* * *

Luigi premette a lungo il pulsante del campanello, ne sentì chiaramente il forte trillo. Non accadde nulla, non percepì il lieve ronzio che precedeva la rimozione del fermo interno e l'apertura della porta. Forse il signor Carlo era sotto la doccia e non sentiva. Strano, perchè‚ anche nel bagno c'era un riporto del campanello. A quell'ora, poi, di solito il signor Carlo era in piedi da un pezzo e intento a guardare le pagine del televideo.

Scese in guardiania. Provò a citofonare, a telefonare. Nessuna risposta.

Il signor Carlo doveva necessariamente essere in casa, perchè‚ dopo l'annotazione del rientro non v'era altro, sul registro.

Telefonò alla signorina Rosetta. No, non s'era sentito. La sera prima Carlo l'aveva accompagnata a casa, dopo la cena al "Chez lui", e le aveva detto che l'indomani sarebbe andato a Napoli. No, non aveva specificato l'ora della partenza e le avrebbe telefonato quando contava di tornare. Certo, Carlo stava benissimo, era di ottimo umore. Adesso, però, cominciava a preoccuparsi, sarebbe stata lì in un momento, il tempo di scendere e prendere un taxi, perchè‚ così agitata non voleva guidare.

Si fece attendere più a lungo del prevedibile. Era visibilmente sconvolta. Luigi le andò incontro. Non aveva acuto alcuna risposta dall'appartamento, e aveva deciso di avvertire la polizia.

"Che c'entra la polizia?!" Esclamò Rosetta, rifiutando di ammettere che Carlo non stesse bene, che qualche cosa di strano c'era. Poi riconobbe che era quello che si doveva fare.

* * *

Il sovrintendente e l'ispettore di polizia tentarono, a loro volta, di farsi sentire da Carlo. Suonarono a lungo il campanello, dettero violenti colpi all'uscio, tornarono a citofonare, telefonare, bussare, picchiare forte. Decisero di forzare la porta.

Luigi li mise al corrente di tutti gli aggeggi che di solito erano in funzione, dei collegamenti con la guardiania e col pronto intervento.

Tornarono al quarto piano. L'ispettore aveva preso dall'auto di servizio un voluminoso mazzo di chiavi e una serie di grimaldelli. Con l'aiuto della torcia elettrica e di una lente d'ingrandimento osservò attentamente le toppe, scelse dei ferretti adunchi e li introdusse con attenzione e lentezza nelle serrature. Improvvisamente scattò l'allarme, s'illuminò la spia nella sala del guardiano, squillò il telefono nella centrale della polizia.

Il sovrintendente scese di corsa le scale, dall'auto telefonò al Commissariato, per informarlo su quanto stava accadendo e per far disattivare l'allarme telefonico. Chiese l'intervento di specialisti in porte blindate e con comandi elettronici. Fece un lungo respiro, incaricò l'autista di stare bene attento a chi entrava e usciva. Si avviò al bar perchè‚ un caffè ci voleva proprio. Poi, in attesa dei tecnici, avrebbe mandato Morace, l'ispettore, a prenderne anche lui uno e a dare il cambio all'autista perchè‚ facesse la stessa cosa.

* * *

L'esperto, dopo aver esaminato la porta e le serrature, scosse la testa. Forse non sarebbe bastata neppure la lancia termica, bisognava demolire il muro intorno alla porta. Incaricò i suoi aiutanti di prendere gli attrezzi nel furgone, e si mise a battere su diversi punti della porta, per stabilire se convenisse aggredire le serrature, gli stipiti, lo specchio. Con lo scalpello tolse la doghettatura esterna, in legno, e cercò di scalfire il metallo che apparve. Fece una smorfia col volto, strinse le labbra.

Erano giunti i vigili del fuoco, avvertiti dalla polizia. Salirono sul balcone dell'appartamento. "Cancellate in metallo speciale" -dissero- "e non sappiamo quali infissi e vetri ci attendono". Riuscirono a isolare l' apparecchiatura dell'allarme acustico e si posero al lavoro con una particolare sega-diamante, raffreddando il metallo con un getto d'acqua.

Il Commissario aveva raggiunto i suoi uomini. Era meglio attendere l'esito dell'intervento dei vigili del fuoco, prima di aggredire la porta o demolire il muro. Lasciarono gli attrezzi sul pianerottolo e scesero in strada per vedere come andavano le cose.

Il cancello del balcone fu segato con grande difficoltà. Fu, quindi, la volta delle tapparelle metalliche. Con una grossa punta pneumatica fu colpito lo spesso vetro della portafinestra, pi— volte, finchè‚ s'incrinò e poi si ruppe. Col mazzuolo furono tolti i residui. Un vigile, finalmente, riuscì a entrare. Precauzionalmente, indossava l'autorespiratore. Dopo poco tornò sul balcone, dove l'attendevano gli altri compagni di lavoro, s'affacciò, alzò la mano destra e fece un segno di croce, come se volesse benedire quelli che dal marciapiede di fronte, a testa in sù, stavano in attesa di notizie.

Rosetta guardò interrogativamente Luigi. Lui la prese sottobraccio: "Si faccia coraggio, signorina..."

Liberti, il Commissario, voleva salire attraverso la scala dei vigili.

Luigi gli si avvicinò: "Aspetti, signor Commissario, vado s— io, so come togliere il paletto e aprire dal di dentro, lei potrà entrare dalla porta."

Dovette attendere che un vigile portasse sul balcone la corda dell' imbragatura che fu costretto a indossare, e lentamente raggiunse il quarto piano. Insieme a due vigili, entrò nell'appartamento, and• nello studio.

Carlo sembrava dormire: il capo sul petto, la mano abbandonata, verso il bicchiere che s'era rovesciato sul tappeto, il giornale sulle ginocchia, la televisione si stava riaccendendo, perchè‚ avevano ripristinato l'erogazione dell'elettricità.

Luigi e i vigili pensarono subito a un infarto. Strano, però, si disse Luigi, il signor Carlo non era cardiopatico.

* * *

La sbarra di sicurezza fu rimossa, ma la porta non si aprì. L'introduzione del grimaldello aveva fatto scattare il meccanismo di blocco. Le chiavi non funzionavano. Il magistrato, avvertito del ritrovamento del cadavere, era giunto sul luogo e ordinò la rimozione della porta stessa.

Non fu un lavoro breve, n‚ facile.

La parte delle serrature era la pi— protetta. Con un apposito apparecchio si identificarono i vuoti lasciati dai pistoni entrati negli appositi alloggiamenti dei muri laterali. Fu necessario mettere una bocca d'aspirazione per convogliare lo scarico della lancia termica fuori della finestra posta sulla rampa delle scale.

Finalmente, il rivestimento metallico cedette, si riuscì a far rientrare i pistoni e, con l'aiuto di Luigi e dei due vigili, a far girare la porta sui cardini.

Il magistrato, accompagnato dal Commissario, dal medico legale e da due agenti di polizia, and• nel vano che Luigi gli aveva indicato. I tecnici della scientifica attendevano di poter mettersi al lavoro.

"Avete toccato qualcosa?" Chiese il magistrato a Luigi e ai vigili.

Gli uomini scossero la testa, in segno negativo.

"Fate molte foto" -proseguì il magistrato- "in particolare della posizione del cadavere, in diverse proiezioni, della mano tesa verso il bicchiere, del bicchiere rovesciato, di tutto, insomma. Fate portar via il bicchiere e il tappeto, e tutte le bottiglie che sono su quel tavolino, e qualsiasi altra cosa riteniate da sottoporre ad eventuali analisi. Dopo gli accertamenti del medico, potete farlo trasferire all'istituto di medicina legale.

Chi ‚ la signorina Rosetta? Vorrei sapere quando ha visto il Ferrara per l'ultima volta. Comunque ci pensi lei, Commissario, io torno in ufficio."

Paolo, il fratello di Carlo che viveva a Milano, avvertito telefonicamente da Luigi, era in volo per Roma.

* * *

Rosetta, pallidissima, con le labbra tremanti, gli occhi sbarrati, pieni di lacrime, era seduta su una poltrona dello studio, di fronte a Carlo. Lo guardava con sgomento. Il Commissario le aveva impedito di avvicinarsi al cadavere.

Non riusciva a parlare. Luigi le era accanto, in piedi, tenendole una mano, gelida, tra le sue.

"Signorina" -disse Liberti- "deve allontanarsi da qui, il medico e gli specialisti devono svolgere i loro compiti, potrà tornare quando tutto ‚ terminato, ma ci vorrà un po' di tempo. Venga con me, adesso, ha bisogno di prendere qualche cosa."

Le andò vicino, l'aiutò ad alzarsi dalla poltrona, la prese sotto braccio e s'avviò verso le scale, con lei che si muoveva come un automa, entrarono nell'ascensore e uscirono nella strada, dove s'era formato un capannello che prese a vociare sommessamente quando la vide. Andarono nel caffè all'angolo, seguiti da un agente che fece un eloquente segno a qualche curioso che avrebbe voluto accodarsi. Sedettero a un tavolino, lontano dall'entrata e dalla vetrina.

"Un caffè?" Chiese Liberti.

Rosetta assentì con la testa, senza parlare.

Il Commissario alzò la mano, con due dita aperte.

"La comprendo, signorina, ‚ una cosa tremenda. Lei deve cercare di affrontare questa tragica situazione con molto equilibrio, controllandosi. Se la morte non ‚ dovuta a cause naturali...."

Rosetta alzò di scatto la testa e lo guardò interrogativamente.

"Si" -continuò Liberti, calmo, sottovoce- "bisogna essere preparati a qualsiasi cosa. Potrebbe essere interrogata, forse pi— volte, dalla polizia, dal magistrato, avrà la sensazione di essere sospettata, potrà sentirsi quasi torturata, non rispettata, senza alcuna comprensione per il suo dolore. Quando aveva visto, ultima volta, Carlo?"

Aveva fatto cadere la domanda senza darvi importanza, chiamando confidenzialmente per nome il Ferrara.

Il cameriere aveva posto sul tavolino un vassoio con i caffè. Liberti teneva un cucchiaino con lo zucchero sospeso sulla tazzina di Rosetta. La donna scosse negativamente la testa. Versò lo zucchero nella sua tazzina, rimise il cucchiaino nella zuccheriera, preso quello che era nel suo piattino e cominci• a girare lentamente, guardando Rosetta.

Lei bevve un sorso di caffè, deglutì più volte, aprì la borsetta, ne trasse un fazzolettino ricamato, lo portò al naso tirando un po' sù.

"Siamo stati a cena insieme, ieri sera, al "Chez lui", era sereno, come al solito. Lui non manifestava mai allegria esteriore, ma io ne comprendevo benissimo lo stato d'animo. Avevamo parlato delle solite cose, io avevo fatto qualche pettegolezzo, ma lui, come sempre, aveva concluso, con un sorriso,che ognuno ha le sue stranezze, nel proprio comportamento, ognuno può essere criticato per quello che fa e per quello che non fa. Bisogna disinteressarsi di quanto non ci riguarda direttamente.

Eravamo anche tornati sull'argomento 'matrimonio'. Carlo era del parere che v'erano moltissime probabilità che la nostra unione potesse proseguire e durare tranquillamente, il passato ne era una prova pi— che attendibile.

A me quel suo modo d'esprimersi non sempre piaceva, ieri sera m'irritò pi— del solito. Fui un po' acida. Gli chiesi se, in sostanza, credeva che non avremmo mai litigato e che saremmo stati sempre reciprocamente fedeli.

Il mio tono non lo turbò, almeno in apparenza. Mi rispose che solo nella teoria e nelle favole rosa vi ‚ sempre una perfetta identità di pensiero. Del resto, se ciò si verificasse le parti finirebbero col respingersi, come si respingono i poli dello stesso segno. Anche il termine 'fedeltà' necessitava di qualche considerazione. La fedeltà dev'essere soprattutto intesa come dovere di non rivelare ad altri debolezze e difetti, manifestazioni poco eleganti del partner. Fedeltà ‚ sincerità d'abbandono, spirituale e materiale. Bisogna voler essere felice, quando si ‚ con l'altra metà della coppia, godere intensamente, senza inibizioni, con trasporto, con voluttà, i momenti di intimità. L'appetito, gli appetiti, non devono far disprezzare le prelibatezze domestiche, e se accadesse di trovare in altri, più che nel proprio partner, l'appagamento delle proprie esigenze spirituali e fisiche, fedeltà impone di considerare senza infingimenti l'opportunità del proseguire o meno il rapporto di coppia.

Lei comprende, Commissario, che un uomo del genere o lo si accetta così com'è‚ o lo si evita. Non c'è‚ via di mezzo.

Devo riconoscere che stavamo bene insieme. I venti anni che ci separavano erano, forse, l'elemento che maggiormente ci univa. Erano la diversità di segno che ci faceva attrarre l'un l'altro. Carlo era un uomo sicuro di sè, non per presunzione, ma perchè‚ accettava il dissenso, degli altri e proprio, senza far pesare ciò sulla convivenza nello stesso gruppo. Diceva che bisognava trarre da ognuno il bene che aveva, sorvolando sul male che si credeva di scorgere. Il bene ‚ universalmente riconoscibile, affermava, il male è spesso solo quello che noi vogliamo considerare tale. A volte ‚ il male che abbiamo in noi che cerchiamo di trasferire negli altri.

L'ho conosciuto all'Università. Dovevo sostenere un difficilissimo esame e mi seccava di dover essere interrogata dal giovane assistente che si rivolgeva ai candidati con aria di sufficienza. Quando fui chiamata, dissi che preferivo attendere il titolare della cattedra. "Non deve attendere molto, sono io" rispose sorridendo Carlo, invitandomi a sedere. "Non si lasci ingannare dall'aspetto esteriore" -proseguì- "ho almeno dieci anni pi— di quanto lei vuole generosamente attribuirmi".

Fu lui a guidarmi in quello che allora era per me un groviglio inestricabile. Con pazienza, con garbo, indicandomene i tranelli, spianandomene le asperità. Avevo studiato, moltissimo, ma non credevo che avrei saputo esprimermi con tanta proprietà e precisione di linguaggio. Al termine, aprì la stilografica, ma prima di scrivere sul verbale mi chiese quanti esami mi mancavano, che media avevo, se avessi gi... chiesto la tesi di laurea.

Mi mancavano due esami, abbastanza facili. Lo scoglio era quella materia, la sua. La media era buona, non avevo ancora chiesto la tesi.

"Perchè‚ non discute la tesi con me?" -disse- "si tratterà di un argomento attuale e concreto". Aggiunse che mi avrebbe seguito personalmente, perchè‚ l'argomento e la stesura avrebbero meritato la pubblicazione. Dovevo pensarci, e se avessi deciso di accettare potevo telefonargli al suo studio. Se fosse stato assente, come spesso gli accadeva per i numerosi incarichi che aveva in Italia e all'Estero, avrei dovuto lasciare un recapito alla segretaria.

Per ora si congratulava con me per il 'trenta e lode' che avevo meritato.

Quando telefonai, la segretario mi trattò come una vecchia conoscenza: il professore mi attendeva il lunedì successivo, alle nove.

Andai nel suo studio, mi sembrò di entrare in un tempio sacro dove si trattavano delicata problemi di finanza internazionale. Mi accolse sorridendo, nella sala delle riunioni dov'era coi suoi principali collaboratori. Mi presentò a loro. "Questa ‚ Rosetta" -disse- "e fra non molto sarà una nostra collega, dobbiamo aiutarla tutti a redigere la sua importante tesi. Trovatele un tavolo dove possa lavorare." Si alzò e andò nel suo studio, accanto.

Mi trovai improvvisamente e inaspettatamente coinvolta in qualcosa pi— grande di me. Mi indicarono un tavolo, sarebbe stato il mio posto di studio, e quello era il computer. Mi avrebbero dato il pass per accedere alle informazioni di cui avrei avuto bisogno.

All'ora della colazione, Carlo mi disse di andare con lui, per i dettagli. Senza chiedermi nulla ordinò due filetti e due insalate, acqua minerale e succo d'arancia.

'Prima di tutto' -cominciò- 'devo dirti che, come avrai notato, a studio ci diamo tutti del tu. Qualche giovane collega ti dir... che ‚ il tu che intercorre tra Dio e le sue creature, tu lascialo dire, segno che ha bisogno di sentirsi protetto e, nello stesso tempo, vuole qualcuno cui imputare i propri errori. Secondo argomento ‚ che devi sbrigarti a sostenere i due esami che ti restano. Alternerai lo studio alla preparazione della tesi, e tutto ciò lo farai a studio, nelle ore d'ufficio, perchè‚ da oggi sei una mia dipendente, con contratto di formazione e lavoro. Ho preso le dovute informazioni, fai la pendolare con una località troppo lontana per consentirti di studiare e riposare come necessario. Bisogna cambiare. Non sono riuscito a trovarti un posto nel pensionato universitario, ma le simpatiche e allegre suore irlandesi ti accoglieranno volentieri. Avrai una cameretta tutta per te, potrai consumare nel loro refettorio i pasti che vorrai, ad eccezione del lunch dei giorni lavorativi perchè‚ non ne avrai tempo. Dalle suore farai pratica d'inglese, nella nostra professione ‚ indispensabile'.

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